Laura Ingrao – Solidarietà oltre le sbarre
Laura Ingrao
Solidarietà oltre le sbarre
Un foglietto di carta ingiallita riporta alla memoria di Laura immagini ed emozioni provate quasi 50 anni fa dinanzi al portone di Regina Coeli mentre aspettava la liberazione di suo fratello Lucio Lombardo Radice e di tanti altri antifascisti; esclusi gli jugoslavi. Per la scarcerazione si impegnarono gli italiani «liberati».
Tra mie vecchie carte, come sbucata fuori dopo cinquant’anni circa, una breve lettera di Ivanoe Bonomi. La data è del 27 luglio 1943. E’ una lettera da consegnarsi a mano a Senise, figura importante, al quale un’altra figura di stretto rilievo in quei giorni Ivanoe Bonomi si rivolge per avallare un colloquio su «casi particolari e situazioni delicate».
Come questo biglietto finì nelle mie mani, non so e per quanto cerchi di ricordare non riesco a capire come si siano svolti i fatti.
il meccanismo della liberazione dal carcere fu, in poche ore, realizzato per i detenuti di Regina Coeli, ancora «in attesa di giudizio» per «reati politici di antifascismo»: tra questi c’erano compagni da Mario Alicata a mio fratello Lucio, altri presi per semplici sospetti, dai cattolici come Franco Rodano, dai liberali come amici della famiglia Amendola incappati in una assurda, ridicola rete di connessioni ipotetiche.
Rendere liberi quei detenuti fu fatto subito: non c’era che da sospendere procedimenti che non avevano senso dopo la caduta del fascismo. Così, dalla mattina del 26 luglio – mentre una piccola folla di parenti e di antifascisti si pigiava davanti a Regina Coeli – vedemmo uscire con infinita emozione tutti i nostri cari.
Ma intanto, all’interno del carcere, l’aria si faceva calda: c’erano già «definitivi» le cui posizioni dovevano, una per una, essere controllate; c’erano quelli che erano bollati con imputazioni che non ne facevano degli antifascisti, ma dei rei di pesanti reati «contro il Paese». Dalla mattina dei 25 luglio perciò, all’interno del carcere i «liberati» si erano organizzati in Comitato per la liberazione di tutti gli altri – restando all’interno, in quell’atmosfera tesissima – per organizzare la liberazione di tutti. Urgeva non solo disincagliare le lungaggini burocratiche, ma in particolare affrontare la spinosa questione dei detenuti jugoslavi accusati di essere dei veri e propri «nemici» e perciò esclusi da ogni possibile liberazione.
Noi che non eravamo stati «dentro», in qualità di attivisti del Comitato di Liberazione eravamo così i portatori di quella delicata e urgente situazione: di slavi in carcere ce ne erano molti, qua e là per tutta l’Italia e su di loro si sarebbero scatenate le vendette di chi voleva a ogni costo tenerli in galera a tempo indefinito.
Così quel 27 luglio ci si rivolse a Bonomi, uomo di spicco del CdI, che fece da tramite per trattare con Senise, per sciogliere la questione. Ad accompagnare Alicata e gli altri dal direttore generale dei Ministero degli Interni andammo perciò anche alcuni non detenuti, io in quanto sorella di Lucio, insomma una figlia di Lombardo Radice, nome di prestigio nell’università, scomparso nel ’38, che perfino Senise doveva conoscere, ed alcuni altri di un certo prestigio e non comunisti [ricordo Luchino Visconti già allora noto nel mondo del cinema, amico carissimo di Alicata e di altri, e discendente di quei Visconti di vetusta nobiltà milanese]. Andammo: mi duole di non ricordare tutti gli altri nomi, Luchino però lo ricordo benissimo: da allora divenimmo amici. Ricordo quell’incontro con Senile: c’era anche Don P. Pecoraro, allora vicinissimo a noi, quando era preziosa la sua presenza di prete di Regina Coeli.
Che cosa dicemmo a Senise? Non so: di certo parlò Mario Alicata, certo Senise non promise nulla. Ascoltò, assicurò che equità ci sarebbe stata e prese nota della situazione degli slavi. Per quanto voglia frugare nella mente, devo con angoscia confessare che non so altro.) cinquant’anni passati non riescono a comunicarmi altro. Mi rimane quel messaggio preciso, emerso da una grande distanza e il pensiero [che è difficile far capire a chi non ha vissuto quei giorni] di avere in qualche modo «fatto un po’di storia» anch’io.
Aldo Natoli
LA DIVISIONE DEI PANI
La pratica della solidarietà era il bersaglio principale dell’attacco repressivo da parte dei nostri carcerieri. In quel mondo dove ognuno di noi doveva perdere ogni parvenza umana e essere ridotto a un numero, un atto di solidarietà, anche minimo, era il segno della permanenza di un altro tipo di rapporti umani, prima ancora che politici. Il collettivo assicurava la realizzazione della solidarietà provvedendo alla distribuzione egualitaria degli alimenti tra tutti i suoi membri. Si noti che il regolamento carcerario prevedeva il divieto di cessione di «viveri, bevande e oggetti»; prevedeva inoltre la punibilità con la cella ordinaria della «cessione di oggetti e di alimenti», ma senza nessuna enfasi [ … ]
Aldo Natoli, «Il Registro. Carcere Politico Di
Civitavecchia; 1941-1943»,
Editori Riuniti, Roma,1994
Articolo tratto dal Settimanale “Il Manifesto 1995
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