Archivio mensile:ottobre 2018

Edgar Lee Masters – La collina

Edgar Lee Masters

La collina

Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,

l’abulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso?
Tutti, tutti, dormono sulla collina.

Uno trapassò in una febbre,

uno fu arso in miniera,
uno fu ucciso in rissa,
uno morì in prigione,
uno cadde da un ponte lavorando per i suoi cari –
tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.

Dove sono Ella, Kate, Mag, Edith e Lizzie,

la tenera, la semplice, la vociona, l’orgogliosa, la felice?

Tutte, tutte, dormono sulla collina.

Una morì di un parto illecito,

una di amore contrastato,
una sotto le mani di un bruto in un bordello,
una di orgoglio spezzato, mentre anelava al suo ideale,
una inseguendo la vita, lontano, in Londra e Parigi,
ma fu riportata nel piccolo spazio con Ella, con Kate, con Mag –
tutte, tutte dormono, dormono, dormono sulla collina.

Dove sono zio Isaac e la zia Emily,

e il vecchio Towny Kincaid e Sevigne Houghton,
e il maggiore Walker che aveva conosciuto
uomini venerabili della Rivoluzione?
Tutti, tutti, dormono sulla collina.

Li riportarono, figlioli morti, dalla guerra,

e figlie infrante dalla vita,
e i loro bimbi orfani, piangenti –
tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.

Dov’è quel vecchio suonatore Jones

che giocò con la vita per tutti i novant’anni,fronteggiando il nevischio a petto nudo,
bevendo, facendo chiasso, non pensando né a moglie né a parenti,
né al denaro, né all’amore, né al cielo?
Eccolo! Ciancia delle fritture di tanti anni fa,
delle corse di tanti anni fa nel Boschetto di Clary,
di ciò che Abe Lincoln
disse una volta a Springfield.

Sylvia Plath – Papà

Sylvia Plath

Papà

Non servi, non servi più,

O nera scarpa, tu

In cui trent’anni ho vissuto

Come un piede, grama e bianca,

Trattenendo fiato e starnuto.

Papà, ammazzarti avrei dovuto.

Ma sei morto prima che io

Ci riuscissi, tu greve marmo, sacco pieno di Dio,

Statua orrenda dal grigio alluce

Grosso come una foca di Frisco

E un capo nell’Atlantico estroso

Al largo di Nauset laggiù

Dove da verde diventa blu.

Un tempo io pregavo per riaverti.

Ach, du.

In tedesco, in un paese

Di Polonia al suolo spianato

Da guerre, guerre, guerre.

Ma il paese ha un nome molto usato.

Un amico mio polacco

Mi dice che ce n’è un sacco.

Così non ho mai saputo

Dov’eri passato o cresciuto.

Mai parlarti ho potuto.

Mi s’incollava la lingua al palato.

Mi s’incollava a un filo spinato.

Ich, ich, ich, ich,

Non riuscivo a dir di più di così.

Per me ogni tedesco era te.

E quell’idioma osceno

Era un treno, un treno che

Ciuff-ciuff come un ebreo portava via me.

A Dachau, Auschwitz, Belsen.

Da ebrea mi mettevo a parlare,

E lo sono proprio, magari.

Le nevi del Tirolo, la birra chiara di Vienna

Non son molto pure o sincere.

Per la mia ava zingara e fortunosi sbocchi

E il mio mazzo di tarocchi e il mio mazzo di tarocchi

Qualcosa di ebreo potrei avere.

Ho avuto sempre terrore di te,

Con la tua Luftwaffe, il tuo gregregrè.

E il tuo baffo ben curato

E l’occhio ariano d’un bel blu.

Uomo-panzer, panzer, O tu –

Non un Dio ma svastica nera

Che nessun cielo ci trapela.

Ogni donna adora un fascista,

La scarpa in faccia, il brutale

Cuore di un bruto a te uguale

Tu stai alla lavagna, papà,

Nella foto che ho di te,

Biforcuto nel mento anziché

Nel piede, ma diavolo sempre,

Sempre uomo nero che

Con un morso il cuore mi fende.

Avevo dieci anni che seppellirono te.

A venti cercai di morire

E tornare, tornare a te.

Anche le ossa mi potevano servire.

Ma mi tirarono via dal sacco,

Mi rincollarono i pezzetti.

E il da farsi così io seppi.

Fabbricai un modello di te,

Uomo in nero dall’aria Meinkampf,

E con il gusto di torchiare.

E io che dicevo sì, sì.

Papà, eccomi al finale.

Tagliati i fili del nero telefono

Le voci più non ci possono miagolare.

Se ho ucciso un uomo, due ne ho uccisi –

Il vampiro che diceva essere te

E un anno il mio sangue bevé,

Anzi sette, se tu

Vuoi saperlo. Papà, puoi star giù.

Nel tuo cuore c’è un palo conficcato.

Mai i paesani ti hanno amato.

Ballano e pestano su di te.

Che eri tu l’hanno sempre capito.

Papà, carogna, ho finito.

Giulio Stocchi – Melma

Giulio Stocchi

Melma

è una parola che deriva dal longobardo
e significa
-leggo sul vocabolario-:
Terra abbondantemente intrisa d’acqua
attaccaticcia
che si trova spesso sul fondo dei fiumi
E in senso figurato:
endemica bruttura morale
Chissà se lo sanno le camicie verdi
che raccolgono in
un’ampolla l’acqua del grande fiume
invocando i longobardi loro avi?

Roberto Ricotti condannato a morte

È destino dei popoli che il loro cammino
verso la libertà e la giustizia sociale sia
segnato dal sangue dei suoi martiri,
forse perché questo cammino non sia smarrito,
ma chi muore per una causa giusta, vive sempre
nel cuore di chi per questa causa si batte.”

Roberto Ricotti

Di anni 22 – meccanico – nato a Milano il 7 giugno 1924 -. Nel settembre 1943 fugge dal campo di concentramento di Bolzano e si porta a Milano dove si dedica all’organizzazione militare dei giovani del proprio rione – nell’agosto 1944 è commissario politico della 124^ Brigata Garibaldi SAP, responsabile del 5° Settore del Fronte della Gioventù -. Arrestato il 20 dicembre 1944 nella propria abitazione di Milano adibita a sede del Comando del Fronte della Gioventù – tradotto nella sede dell’OVRA in Via Fiamma, indi alle carceri San Vittore – più volte seviziato -. Processato il 12 gennaio 1945, dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato per appartenenza a bande armate -. Fucilato il 14 gennaio 1945 al campo sportivo Giurati di Milano, con Roberto Giardino ed altri sette partigiani -. Proposto per la Medaglia d’Oro al Valor Militare.

S. Vittore 13.1.’45

A te mio dolce amore caro io auguro pace e felicità. Addio amore…

Roberto Ricotti Condannato a morte

Tu che mi hai dato le uniche ore di felicità della mia povera vita…! a te io dono gli ultimi miei battiti d’amore… Addio Livia, tuo in eterno…

Roberto

14.1.’45

Parenti cari consolatevi, muoio per una grande idea di giustizia… Il Comunismo!! Coraggio addio! Roberto Ricotti

14.1.’45

Lascio a tutti i compagni, la mia fede, il mio entusiasmo, il mio incitamento. Roberto Ricotti

Tratto da
Lettere di condannati a morte
Della
Resistenza Italiana

Einaudi Editore 1952

Mario Porzio Vernino (Stalino)

clip_image002

È destino dei popoli che il loro cammino
verso la libertà e la giustizia sociale sia
segnato dal sangue dei suoi martiri,
forse perché questo cammino non sia smarrito,
ma chi muore per una causa giusta, vive sempre
nel cuore di chi per questa causa si batte.”

Mario Porzio Vernino (Stalino)

Di anni 25 – agricoltore – nato a Fara Novarese (Novara) il 6 marzo 1920 -. Sergente Maggiore dell’Esercito Italiano in zona d’occupazione jugoslava, dopo 1’8 settembre ’43 si unisce ai partigiani sotto il comando di Tito con i quali combatte fino al maggio ’44 — Riuscito a rimpatriare, nel luglio 44 raggiunge la VI Divisione Alpina Cana­vesana G.L. in cui milita con il grado di Capitano e l’incarico di ispettore dei campi di lancio -. Sorpreso con quattro compagni, il 14 marzo 1945, nel centro partigiano d’intendenza dell’Argentera di Rivarolo Canavese (Torino), da elementi della Divi­sione « Folgore » – tradotto a Volpiano (Torino) – per tre giorni sottoposto con i com­pagni a continui interrogatori e sevizie -. Fucilato il 22 marzo 1945 contro il muro di cinta del cimitero dell’Argentera di Rivarolo Canavese, da militi della « Folgore », con Alessandro Bianco, Renzo Scognamiglio, Sergio Tamietti e Antonio Ugolini
Carissimi,
il 19 e. m. sono stato catturato da reparti paracadutisti. Oggi 22 marzo sono fucilato. Non pensate a me, perché la mia coscienza è tran­quilla.
Mario

Tratto da
Lettere di condannati a morte
Della
Resistenza Italiana
Einaudi Editore 1952