La strage di Castello

5 Agosto 1944
La strage di Castello
(Firenze)

Firenze, 5 agosto 1944: l’ora della liberazione della città si avvicina inesorabile. Le truppe di occupazione tedesche, esauste e abbrutite per i pesanti combattimenti sostenuti fino allora, sono ormai consapevoli che la guerra in Italia è perduta. Alle nove di quel sabato sera, sette soldati tedeschi si recano in via Vittorio Locchi a Castello. Bussano alla porta di Anna Pieri e chiedono del vino alla donna. Questa risponde di non averne e li invita ad andarsene. Ma quelli chiedono dove sia suo marito. La donna spiega che è morto combattendo per Mussolini, in realtà era morto prima della guerra. I tedeschi entrano di forza nella casa: qui ci sono suo fratello con moglie e figli, più sua cugina, Maria Omaralgi. I militari chiudono tutti i presenti in stanze diverse ad eccezione di Anna e Maria. Questa è portata in una stanza da un soldato, ma non è in salute: ha problemi ai polmoni, perciò non viene toccata. In sei tentano di violentare Anna, mentre uno prende le difese della donna invano. Lei reagisce a calci e morsi tentando l’estrema difesa, mentre quegli animali le strappano i vestiti di dosso. Vengono estratte le pistole dalle fondine, uno impugna la baionetta e la mette alla gola della donna, dicendo: "Dacci la fica o ti ammazziamo!" Anna replica decisa: "Preferirei che mi ammazzassi!" Nella concitazione del momento parte un colpo di pistola: il proiettile trapassa la manica del vestito di Anna, all’altezza del gomito. Lei perde i sensi. Quando si riprende, fa finta di essere ancora svenuta e vede i soldati intenti a bendare il braccio destro di un camerata. Quindi, dopo aver liberato le persone chiuse nelle stanze, i tedeschi lasciano la casa. Poco dopo due soldati entrano al numero 10 di via Giuliano Ricci, sede del comando tedesco. Uno è ferito al braccio destro. Nell’ufficio è presente Giorgio Pipoli, un civile che fa da interprete per i tedeschi. Il ferito dichiara all’ufficiale che un italiano gli ha sparato in strada, tra Firenze e Castello. L’ufficiale va in un’altra stanza a telefonare. Quando torna dice: "Ho telefonato al comandante e mi ha detto di procedere nel posto dove il soldato è stato ferito e di uccidere dieci italiani". A dare l’ordine deve essere stato il capitano Kuhne, del comando di villa Petraia. La verità è taciuta dal militare ferito, perché se rivelata la pena prevista per lui è la morte per impiccagione. Così il pagamento del prezzo di una vile menzogna viene imposto alla popolazione civile. Alla giusta pena per il suo perverso comportamento quel soldato tedesco ha preferito condannare degli innocenti. La legge della guerra anti partigiana glielo consente!
Così alle 22:20 circa due, trecento abitanti di Castello rifugiatisi nell’Istituto Chimico Farmaceutico Militare in via Reginaldo Giuliani, sentono delle esplosioni all’esterno provenienti dalla parte del cancello dello stabilimento. Silvano Fiorini di diciannove anni, un ex marinaio che si trova all’interno, va alla porta: irrompono alcuni soldati tedeschi. Inizia a discutere con loro, lo colpiscono ma lui continua a urlare fin quando uno di loro gli spara in bocca: il proiettile esce dal retro della testa. Questo ragazzo è la prima vittima di quell’azione. Segue un lancio di bombe lacrimogene che crea il caos nello scantinato. I tedeschi ordinano agli uomini di uscire. Qualcuno tenta la fuga: Beppino Mazzola, di ventisette anni, raggiunto da un colpo alla schiena muore poco dopo. Un gruppo di uomini viene subito messo al muro nel cortile dell’Istituto e qui fucilato, in ossequio alla regola: dieci italiani per ogni tedesco ucciso. Regola peraltro disattesa nella circostanza, in quanto cadono in dodici: dieci fucilati, più il Fiorini e Beppino Mazzola. Ecco i nomi degli altri dieci assassinati per mano tedesca: lacomelli Francesco, Tiezzi Tullio, Biondo Giorgio, Lippi Mario, Nardi Vittorio, Bracciotti Ugo, Graniti Francesco, Bartoli Aldo, Uvale Attilio, Lepri Michele. Due delle vittime erano partigiani. L’indagine condotta sul campo dal sergente Thomas Smedley, della 78a sezione del SIB (Bri-tish Special Investigation Branch) e terminata il 18 giugno 1945, si conclude con l’accertamento della responsabilità del crimine a carico degli uomini del 1 Para Eng Bn. 4, nelle persone del maggiore Grundman (comandante del/Para Regt 10) e dei capitano Kuhne (comandante 1 Para Eng Bn e 1 Para Regt 10). Unico motivo della rappresaglia: il ferimento di un soldato tedesco da parte di un italiano per la strada.
La firma del crimine fu quella dei paracadutisti tedeschi del battaglione genieri acquartierati presso numerose case a Castello, con comandi e sottocomandi a Villa Pollaiola, Villa Petraia, via Giuliano Ricci 10, via del Sodo 6. Soldati del 1 Para Eng. Batt. furono direttamente implicati nella strage, benché nessun nome di essi sia mai venuto fuori, ad eccezione di quelli dei due ufficiali comandanti che comunque non presero parte direttamente all’azione, comandata a quanto appreso dalle testimonianze raccolte nel libro 5 agosto 1944, la strage di Castello, da un sergente maggiore.
A Campi Bisenzio, nel 1989 o giù di lì, venne fatta una grossa cerimonia per commemorare Lanciotto Ballerini, morto negli scontri del 3 gennaio 1944 sui monti della Calvana.
Nelle fila della sua brigata c’era un insegnante scozzese, Stuart Hood, nome di batta lia Carlinn un c:n1r12tn britannico scappato dopo l’8 settembre dal campo di
prigionia di Fontanellato presso Parma, dove si trovava dopo essere stato fatto prigioniero a Marsa Matruh nel 1942, durante l’avanzata dell’Afrika Korps di Rommel. Questi fu uno dei superstiti dello scontro di Valibona, dopo il quale riuscì a raggiungere l’esercito britannico a Siena.
Alvaro Biagiotti, partigiano della Lanciotto e membro dell’ANPI di Peretola, fece ricerche di questo inglese che nel corso della guerra era diventato poi un maggiore dell’esercito. Lo trovò e lo invitò. In quell’occasione venne a Sesto e a Campi e qualcuno gli parlò della faccenda del Farmaceutico. Biagiotti gli chiese se poteva trovare qualcosa sulla strage di San Piero a Ponti in qualche archivio britannico. Il prof. Hood non trovò nulla in merito, ma consultando il Public Record Office del Ministero degli Affari Esteri Britannico a Londra, si imbatté in un dossier sulla strage dell’Istituto Chimico Farmaceutico di Castello, che inviò all’amico.
Questa storia l’appresi quando rientrai a Firenze nell’agosto 1944. Mi dissero: "Gli hanno fucilato gente a i’ Farmaceutico" La notizia era passata subito. Racconto ora un fatto simile successo poco dopo sempre a Castello e che pochi conoscono. Un altro gruppo di tedeschi era stanziato nella Villa Alessandra, quella che c’è al Sodo. Due di loro entrarono nella Corte dei Bruscoli, una corte che sta di faccia alla Casa del popolo a Castello. Fu così chiamata perché il bandito Bruscoli, nei tempi passati come ricordato da una targa colà apposta, dopo qualche misfatto entrava in questa corte e di lì fuggiva nei campi, dove polizia e carabinieri non lo presero mai. I soldati volevano un po’ d’olio, di roba così. La gente rispose: "’Un ci s’ha nulla, ‘un ci s’ha nulla". Stava lì una ragazza di ventidue anni, Velma Aspettati, ancor oggi viva, che mi ha raccontato personalmente questa vicenda. Aveva una gamba zoppa causa di un’infezione contratta in gioventù, ma era ugualmente ben messa: era una bella ragazza, con un bel seno. Uno dei soldati tentò di farle violenza. L’aveva già bell’e messa sul letto, in casa. Velma non poteva fuggire a causa della sua menomazione. Il fratello più piccino di lei faceva i servizi nel comando a cui appartenevano i due soldati: comprava loro le sigarette, faceva commissioni per loro conto. Quei tedeschi lo conoscevano tutti bene. Velma e il fratello erano figli di una vedova e questo ragazzo si dava da fare per raggranellare qualche soldo. Nella villa, oltre ai soldati semplici, il ragazzo conosceva bene anche il sergente. Le voci di quello che stava accadendo corsero veloci di bocca in bocca fino al fratello di Velma, che arrivò sul posto di corsa. Vide i due sulla sorella e li minacciò: "Ora lo dico al sergente! E se viene il sergente…" Udite queste parole i due soldati desistettero e se ne andarono via.
Il giorno dopo nella corte dei Bruscoli si presentò un sergente tedesco. Ormai la guerra per loro era persa e non aspettavano altro che di andarsene. Chiese dove era successo il fatto e le descrizioni dei due soldati tedeschi che avevano cercato di far violenza a una donna. La gente impaurita stava zitta: non sapeva come comportarsi, memore della recente strage del Farmaceutico. Entrò poi in casa di Velma, la vittima dell’episodio. Ci parlò e le chiese: "Lei è in grado di riconoscere soldati che hanno fatto violenza?" "No". Probabilmente qualche familiare l’aveva convinta a tacere. Il sottufficiale insisté: "Se tu dici che riconosci, noi punire loro". Ma la paura di un’altra strage fu più forte della sincerità. Il sergente la portò alla villa Alessandra. Il comandante schierò tutta la truppa in fila. Davanti allo schieramento disse a Velma: "Indicami quelli che ieri tentato di farti violenza: noi siamo disciplinati e non devono succedere queste cose!" Il codice militare tedesco puniva con la morte per impiccagione la violenza sessuale. "Riconosci loro?" "No". Velma mentiva: infatti aveva ben riconosciuto gli autori della tentata violenza nei suoi confronti. Il giorno dopo, uno di quei tedeschi che avevano tentato di violentarla, tornò da lei. Si scusò, in lacrime: "Ho moglie, ho figli. Da tre anni non andare casa. Tu avere ragione, io perso cervello. Scusami: tu salvare mia vita! Se riconoscere me, o impiccare subito o mandare su fronte russo!" La grande paura del soldato tedesco allora era il fronte russo: essere mandati là equivaleva a una condanna a morte certa. Quello era un tritacarne. In questa circostanza il comandante era un altro, il reparto tedesco era diverso, nessun soldato tedesco era stato ferito: non ricorreva pertanto l’applicazione della regola dieci italiani per ogni tedesco. Questa cosa qui non la sa quasi nessuno. Velma in seguito si è sposata e ha avuto figli e nipoti.
Le stragi di Cervina e del Farmaceutico sono state azioni vigliacche. Ribadisco e ripeto: laddove c’è uno scontro o un’aggressione posso anche ammettere la rappresaglia, come successe a Civitella Val di Chiana.
La sera del 18 giugno 1944 è una domenica piovosa. Nove soldati tedeschi, forse paracadutisti della divisione Hermann Góring, si presentano a una casa colonica in località Madonna presso Civitella. Con modi affabili chiedono alla padrona di cucinare per loro. Dopo cena intorno alle nove, quattro soldati tedeschi entrano nel circolo ricreativo del paese e si siedono a un tavolo con le armi appoggiate a terra. Fra i clienti ci sono dei partigiani che decidono di tentarne il disarmo. Qui le versioni divergono: chi dice che i partigiani hanno aperto subito il fuoco, chi invece sostiene che hanno prima intimato ai soldati la resa, provocandone la reazione. In ogni caso scoppia un conflitto a fuoco e tre tedeschi restano a terra: due sono morti e uno è gravemente ferito. Il quarto fugge incolume. I civili presenti scappano da ogni parte, qualcuno è rimasto anche ferito. La pioggia scroscia mentre nel paese la paura si fa palpabile. Verso le undici alla casa colonica della Madonna giunge un tedesco con un camerata ferito sulle spalle. È quello ferito nel dopolavoro. Viene lavato, curato e poi portato via dai suoi su un camion. All’alba la popolazione scappa dal paese terrorizzata dalla sicura, imminente rappresaglia. 11 comando tedesco della divisione Hermann Góring di stanza a Civitella, dà l’ultimatum alla popolazione: se entro ventiquattr’ore non vengono fuori i nomi dei partigiani che hanno ucciso i loro camerati scatterà la rappresaglia. Contemporaneamente hanno inizio perquisizioni e interrogatori sia alla popolazione di Civitella che di due località vicine: Cornia e San Pancrazio. Queste azioni non portano a nulla. Allo scadere dell’ultimatum scatta la trappola dei tedeschi. Nell’immediato non prendono iniziative, anzi tranquillizzano la popolazione affermando che non ci sarà nessuna rappresaglia.
II 20 giugno un militare tedesco, forse un medico, giunge a esaminare i due cadaveri che ancora giacciono nel circolo ricreativo. Assieme a un interprete ascolta don Lazzeri, che rammenta le fasi dell’attacco e dichiara l’estraneità dei civili a quanto accaduto. L’ufficiale accetta, come segno di buona volontà, che i due soldati siano sepolti nel locale cimitero. Don Alcide Lazzeri organizza il loro funerale con le poche donne che trova e alla funzione partecipa un picchetto militare tedesco. Dopo una serie di indagini i tedeschi se ne vanno. Alcuni giorni dopo la situazione pare tornata alla normalità: molti degli abitanti datisi alla fuga vista la calma, rientrano nelle loro case. Il 29 giugno per la festa dei SS. Pietro e Paolo, la maggior parte delle persone è in paese, in pochi vanno nei campi. La Chiesa di Santa Maria Assunta è piena di fedeli per la Santa Messa. Uno dei tre plotoni della divisione paracadutisti corazzati Hermann Góring, fin dall’alba ha circondato il paese. Fa irruzione in chiesa: i soldati dividono i presenti in gruppi di poche persone e li uccidono sparandogli alla nuca. Tutti gli uomini sono presi e portati sulla piazza del paese: tra essi anche don Lazzeri, che offre la sua vita in cambio di quella dei civili. Non viene ascoltato: lo uccidono con un colpo alla nuca come tutti gli altri 149 morti, tra cui due sacerdoti. Poi i corpi sono gettati nelle case a cui i tedeschi appiccano il fuoco. Gli altri due plotoni imperversano sugli abitanti di Cornia e San Pancrazio. Durante quella tragica giornata periscono 244 civili.

Tratto da “Fumo l’ultimo della Caiani”
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Firenze, 1936. Sergio Bini è garzone in una bottega fiorentina di commercianti ebrei di stoffe, finché le leggi razziali non ne causano il licenziamento. Entra allora in un’officina meccanica, a Castello, dove si forma alla `scuola politica" di un operaio anziano. N’ la il giorno decisivo è l’8 settembre 1943,.quando Sergio diventa partigiano- con il nome di battaglia "Fumo". Comandante di distaccamento nella X Brigata Garibaldina d’Assalto Caiani, prenderà parte a diverse battaglie, giungendo sino a Firenze dopo lo scoppio dell’insurrezione. In seguito alla smobilitazione partigiana, si arruolerà nel Gruppo di Combattimento Friuli, finendo la guerra a fianco degli Alleati.
La vera storia di "Fumo", accompagnata da precise note storiche, foto, cartine e preziosi documenti dell’epoca, rende onore non soltanto ai partigiani, ma a tutti coloro che hanno resistito, sotto i bombardamenti alleati, alle violenze dell’occupazione, tedesca, fino alla liberazione. Un libro per riflettere e per non dimenticare.

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