Egidio Bellandi – Caccia all’uomo

 

 

 

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Scarpe rotte

E pur bisogna andar…..

 

 

Racconti del premio Prato

1951 – 1954

 

Egidio Bellandi

 

Caccia all’uomo *

 

* Premio Letterario Prato 1952.

Racconto vincitore del secondo premio.

 

 

« Cammina, cammina, cammina… Ma questa è la storia dalle nonne! », disse Giannino. Aveva i piedi piatti e la montagna per lui era un martirio. « Io non ce la faccio piú ».

« Se non ce la fai piú ti fermi e stai a quello che ti capita », gli disse Gildo con tono di falso riguardo.

Giannino lo guardò di sbieco. « Caro sapientone» , « se non fosse per lui io mi sarei già fermato da un pezzo e sono sicuro che a quest’ora sarei bell’e sicuro e bell’e salvo. Se séguito a salire è proprio per lui e non per te. Ma posso anche dire che sono stufo e che sono stanco. Me lo vorresti proibire tu? E allora chétati. Accidenti ai tedeschi e a quando mi sono messo a fare il partigiano con voialtri. Alé, forza! si può andare ».

Carlo rise: « Forza, ragazzi! Ripigliamo a salire ».

Cinque si mossero, ma due rimasero sdraiati. Col capo tra i cespugli sembravano diventati insensibili. Fatti pochi passi a uno a uno si fermarono di nuovo tutti.

Fu Bruno che si scoraggiò questa volta e si buttò a sedere anche lui. Giannino e Gildo si misero a scuotere i due, mentre il Professore riprendeva lentamente a salire. Carlo guardava i quattro che facevano gruppo, con la fronte aggrottata. Si scuotevano e si alzavano sorretti dagli altri due con la pesantezza e la stanchezza impressa nei volti contratti. Poi, come se il movimento risvegliasse in ognuno certe sopite energie, ripresero il cammino in silenzio.

Stava per cominciare il tramonto. Le nuvole sparse che vagavano nel cielo bianchiccio del giorno, nuvole bianche, soffici, voluminose erano tutte scomparse, e il cielo sopra di loro era azzurro e terso. Non sembrava piú calcinato; calcinata sembrava invece la terra brulla, con alberi sempre piú radi e cespugli sempre piú fitti, sulla quale salivano lentamente, passo passo, stanchi sotto il fardello che si portavano dietro. Tra poco anche i cespugli sarebbero quasi scomparsi e la terra sarebbe stata arsa, sassosa e bianca come un cimitero•. Quel tratto avrebbero dovuto farlo nell’ultima luce crepuscolare per non essere veduti nel caso che i tedeschi fossero già arrivati su qualche prossima altura.

Una divisione corazzata intera, massiccia, formidabile era stata scatenata contro di loro. I carri armati stavano aggirando tutta la vastissima zona, tutto quel massiccio montuoso che sembrava immenso a percorrerlo a piedi. Ma l’ordine era stato di sciogliersi in piccoli gruppi e di raggiungere la parte opposta del massiccio, quella opposta a dove erano attestati, perché là il massiccio si innestava in altre montagne, e là i carri armati non sarebbero arrivati mai. Ma occorreva far presto. Gli automezzi, i lanciafiamme, le fanterie risalivano una a una tutte le valli, circondavano ogni cocuzzolo, ogni rilievo e lo frugavano a fondo, tempestandolo di fiamme e di raffiche di mitraglia. A rimanere circondati su qualcuna di quelle vette o in qualcuna di quelle boscaglie, speranze di salvezza ce ne sarebbero state poche. Bisognava procedere su ogni valle, su ogni sella, su ogni monte i tedeschi che incalzavano e sembravano sorgere improvvisi sui fianchi e a volte perfino davanti.

Da due giorni si spostavano sempre piú in alto; parecchie volte avevano sentito abbaiare vicinissimo dei cani, parecchie volte li avevano perfino visti giú in basso, lungo le mulattiere. Tutta la montagna risuonava di spari e i fumacchi lontani indicavano che là v’erano case di contadini o di pastori che bruciavano. Erano stati incalzati per ore dal furore di una mischia che si svolgeva dietro di loro, su un altro versante. Ora, intorno, nel breve cerchio della loro visuale, tutto era silenzioso come se nei pressi del monte calcinoso tutta la furia della caccia fosse cessata.

C’era un po’ di luna. Piano piano il crepuscolo addolcí tutti i contorni, i monti piú lontani diventarono cenerini, poi scuri, i crinali si tinsero, di rosa; il silenzio sembrava piú grave. La cima apparve come una groppa, a non finire piena di buche e cosparsa di sassi d’ogni grandezza e massi e accumuli vasti di pietre, con stretti ciuffi d’erba qua e là. Sotto quel cielo azzurro profondo, quelle pietre bianche e tutti quei calcari sparsi e ammucchiati, quel disordine della natura, sembrava riverberare le ultime luci del giorno e quelle piú smorte dello spicchio lunare, che avrebbe vissuto poche ore.

Si tennero nel mezzo per non stagliarsi contro il cielo e continuarono a camminare ancora, passando fra le gole formate dai cumuli, o allo scoperto fra una ghiaia che franava sotto i piedi come calce cotta. Invece gli sterpi abbrustoliti crepitavano sotto gli scarponi e l’erba corta, riarsa, emetteva un suono tenuissimo. Superarono lentamente dislivelli, scesero e risalirono, e ogni volta altri cocuzzoli nuovi che si susseguivano.

«Dove andiamo? », domandò dopo tanto Giannino. « Tra poco non ci sarà nemmeno la luna. Non ci fermiamo ancora? ».

Era sempre lui il primo a protestare; la sua voce pareva echeggiasse sempre i pensieri e le sofferenze di tutti gli altri.

Carlo, che era in testa, si fermò. « Se m’hanno informato bene », disse, « quando il crinale ricomincia ad allargarsi, qui a sinistra, un trecento metri sotto, ci dovrebbe essere una casa colonica. Cosa facciamo? Proviamo ad andarci subito per vedere se possiamo sfamarci o aspettiamo che albeggi?

« E se ci fossero già i tedeschi? », osservò Bruno.

« Ritorneremo indietro », rispose il Professore. « Tanto quelli di notte non si muovono e domattina non li aspetteremo certamente ».

« Nisba! », disse Giannino. « Non mi fido; è una opinione che non mi va, la tua, caro Professore. Non ci sono prove che quelli faranno come dici tu ».

« Però ancora non è provato che ci siano tedeschi laggiú».

« Ma potrebbero arrivare dopo di noi », ribatté piccato Giannino.

« Se si potesse proseguire! », mormorò Gildo.

« Ma non lo vedi che quei due son già di nuovo per terra? ».

« Non è possibile continuar cosí », disse uno dei due, Mario. « Noi non ne possiamo piú. Eppoi chissà ancora quanto ci sarà da camminare ».

« Sentite, ragazzi », propose Carlo avvicinandosi, « credete a me, non c’è piú molto ormai. Dopo questo monte scoperto si rientra nella boscaglia, risaliamo fino in cima, eppoi, dopo aver attraversato il valico, saremo a posto ».

« E là cosa faremo? », disse un altro, Nando, parlando col viso contro terra.

« Vedremo quando saremo là ».

« Quando saremo là, sarà la stessa cosa. Questi ci saranno dietro anche là ».

« Non potranno farlo perché la zona diventerebbe tanto vasta che non potrebbero piú guardarla. Non ci mandano mica laggiú per caso. Vuol dire che i nostri sanno ».

«…che non verranno là », insisté l’altro. « Ma chi ci dice che non ci sia un’altra divisione che rastrella anche laggiú? ».

« Non c’è una seconda divisione in questa zona. Eppoi laggiú non ci sono tanti nostri compagni come

qui ».

«Tutte, storie! », rincarò Mario. « Non sappiamo nulla, noi e nons sanno nulla nemmeno quelli che ci comandano ».

Tutti tacevano. In piedi o seduti, guardavano cupi davanti a sé e sembrava continuassero ad ascoltare il suono di quelle parole.

« Ragazzi, decidiamo. Vogliamo che qualcuno di noi si avvicini alla casa per vedere la situazione? ».

Nessuno rispose apertamente.

«Mah», disse Giannino.

« Là là là là», cantarellò Bruno. « Ora vedremo, ora vedremo, lasciami pensare un po’ ».

Carlo si avvicinò a Mario e a Nando, che stavano insieme. « Di’, ragazzo, che cosa proporresti tu? Dillo un po’ e decideremo. Cosa vorresti fare? ».

Mario lo guardò senza rispondere.

« Che cosa te ne importa, ormai », rispose invece Nando. « Tanto tu puoi andar là. Che t’importa di

noi? ». « Dobbiamo andare là, se vogliamo salvarci ».

« Noi non lo sappiamo », disse Mario. « Tu vuoi andare perché vuoi vendicarti dei fascisti che t’hanno fatto del male ». Carlo scosse la testa. « Noi dobbiamo andare perché dobbiamo salvarci, liberarci tutti, finirla con tutte le miserie, con queste paure, con queste ingiustizie. Non ho da vendicarmi di nessuno,

io ».

« Ma sarà sempre cosí, ci toccherà sempre scappare, ci verranno sempre dietro come ora, ci raggiungeranno perché corrono piú di noi ».

« Ascolta, ragazzo. Tu sei qui perché non hai voluto fare il militare e tua madre ha preferito mandarti in montagna. Sei un disertore. Capisci cosa vuol dire? Vuol dire che ti fucileranno ».

« Hanno detto di no ».

« Allora cosa vorresti fare? ».

« Non lo so »,

« Tu vorresti andare giú senza armi o lasciarti sorpassare e, se ti prendono, dire che sei uno sfollato o che eri qui a fare il venditore ambulante e che hai finito tutto ».

Tutti tacevano.

« Ragazzi », disse Carlo rialzandosi, « decidiamo davvero che cosa vogliamo fare. Qualcuno di voi vuole arrendersi o lasciare il gruppo? ».

« No davvero », disse Giannino. « A morire siamo sempre in tempo ».

« Io credo », cominciò il Professore, « che lo scopo che ci ha riuniti qui e che le nostre libere coscienze…

« Ma piantala! », lo interruppe Bruno. « Non fare il solito discorso; rispondi sí o no ».

L’altro prima lo guardò sorpreso, poi indignato, e dopo un gesto spazientito s’allontanò. « Fate quello che volete », disse. Andava su e giú come se stesse per prendere qualche decisione gravissima, ma stava tutt’orecchi per sentire cosa avrebbe detto Carlo, in sua difesa.

Gildo non curò nemmeno di rispondere a parole, scrollò le spalle e aspettò. Allora anche gli altri si alzarono e si rimisero i fardelli sulle spalle.

« Per prudenza dormiremo oltre la mulattiera », concluse Carlo, « e appena fa giorno scenderemo verso la casa ».

 

Furono Gildo e il Professore che scesero giú, dopo il breve sonno. Gildo senz’armi, mentre l’altro col mitra lo seguiva da lontano. Avevano superato la discesa e dovettero tornare indietro. Non appariva anima viva nei dintorni. Gildo si mise vicino alla catasta di fascine e aspettò. Cominciò a sentir dei rumori provenir dalla casa, e infine un uomo apparve con un secchio in mano.

«Psss», gli fece Gildo mostrandosi. Il contadino fece un sobbalzo e tornò indietro col secchio vuoto.

« E ora? », pensò Gildo; e si voltò a guardare il Professore appiattato dietro un cespuglio. Aspettò un po’ in silenzio guardandosi intorno, con gli orecchi in ascolto, finché vide dietro un vetro il contadino che con la mano gli faceva cenno di andarsene.

« Ohi! », disse dentro di sé, « tedeschi! ».

Si senti sgomento. Se erano già lí, era finita; li avrebbero visti certamente, aggirati, presi. E allora? Rifletté a quelli lassú. « Questi mangiano e camminano piú di noi… Eisogna mangiare », pensava.

Si alzò e cominciò a muoversi verso la finestra. Il contadino spari subito. Cautamente Gildo tornò indietro e si preparò a spiccare la corsa verso il Professore.

Apparve nuovamente il contadino sull’uscio con il secchio in mano. Con fare noncurante si avvicinò al cavo del tronco che raccoglieva l’acqua della polla e si spostò di qualche passo verso Gildo. Erano vicini.

« Da mangiare », mormorò Gildo.

Quello guardò intorno e fece l’atto di tornare indietro.

« Non sono solo però. Pane », disse Gildo all’altro che si era fermato, « pane, molto pane; abbiamo fame ».

L’uomo posò il secchio e rientrò. Dopo poco ritornò con un grosso pane e, mentre lo posava sul tronco, mormorò: « Siete molti? ».

Gildo fece cenno di si con la testa.

«Non ho altro; uno dorme sulla madia. Aspetta », soggiunse.

Gildo allungò le mani e prese il pane. Mentre se lo riponeva tra i piedi, si voltò a guardare il Professore acquattato. Il contadino aveva girato la casa. L’attesa fu lunga. A Gildo sembrava perfino che di minuto in minuto crescesse la luce, come se il sole fosse già alto dietro una cortina di nubi; invece erano i riflessi cinerini del cielo sulla terra.

L’uomo tornò. « Ti ho fatto aspettare? », disse. « Prendi! ». Scivolarono sull’erba due conigli già spellati. « Tanto li mangerebbero loro. Sono una diecina », aggiunse poi. « Non lo so dove vanno ».

« Dillo pure », lo incoraggiò Gildo, « ci cercano. Non è cosí? ».

L’uomo si strinse nelle spalle. « Non lo so se cercano voi; non so nemmeno chi siete. Avete fame? Mangiate ». « Grazie. Grazie e addio ».

Arrivò quattoni dal Professore e si voltarono entrambi a guardare. Il contadino pescava acqua e guardava verso di loro. La sinistra all’altezza del viso si apriva e si chiudeva in un abbozzo di saluto.

« Lascia raccontare a me », disse Gildo, « e tu non fiatare ».

Il Professore lo guardò con la solita sorpresa. Ora si metteva anche Gildo a comandarlo e magari, a contraddirlo?

Raggiunsero il boschetto. Dopo sarebbe ricominciato nuovamente il monte calcinoso. Non s’era ancora levato il sole e la vegetazione taceva sotto la mite brezza. A toccarla, era fresca, lucida. Finito il boschetto ricominciava il terreno scoperto, poi girarono il monte e ripresero a salire. La casa del contadino non si vedeva piú e nemmeno ii fondovalle, ma la luce era ormai dappertutto e gli oggetti ía basso sulla costa di fronte si vestivano piano piano dei contorni ormai familiari: alberi, spiazzi coltivati, capanne. Anche i monti, prima appiattiti in un unico colore ora sembravano rilevarsi, gonfiarsi in groppe, in crinali scendenti, verdissimi, quasi neri. I calcari bianchi, il verde smorto delle ginestre e dei cespugli d’erbe rinate preannunciavano il caldo soffocante del sole a piombo. I fiori gialli erano ancora socchiusi in un pudore semplice come quell’aria mattutina che ancora sapeva di addiacci notturni, e quelle pietre ancora fresche di rugiada. Camminavano senza parlare. Ogni tanto, il piede scalzava una pietra e sotto appariva il colore piú scuro dell’umido.

Arrivarono dove gli altri li aspettavano, seduti presso la voltata dopo che Bruno aveva annunziato il loro arrivo.

Mangiarono una fetta di pane per uno, poi ripresero il cammino.

La notte non li aveva riposati. Ansimavano e se n’andavano tutti in sudore. La fame non sopita della sera prima e quella voglia di masticare e di ingollare dolcemente che li aveva resi impazienti di primo mattino era scomparsa. La montagna calcinosa, diventata bianca dal gran sole, soffocava. Mosche piccoline dalle ali bianche, dalle punture insistenti li assalivano a nuvoli; a ogni passo fuggivano, con fruscii fra l’erbe secche, ramarri e tarantole. Qualche serpe biancastra snodantesi spariva nei buchi del terreno. Il riverbero accecava. La cresta s’era allargata in discese e salite che venivano percorse a passo sempre piú stanco, senza piú nemmeno parlare. A ogni culmine quei sette disperati volgevano lo sguardo da ogni lato per misurare gli spazi che sembravano diventare sempre piú immensi e silenziosi.

Giannino stava per buttar giù il sacco dalle spalle e chiedere le sue solite spiegazioni, quando Bruno al culmine emise una semplice esclamazione: « Oh! ».

Tutti si fermarono per un’improvvisa consolazione tanto quell’esclamazione li convinceva di cose buone. Mario e Nando, sempre ultimi con lo sguardo spento si afflosciarono sull’erba senza nemmeno. la voglia di guardare che c’era di nuovo.

La montagna calcinata finiva; si vedevano abbastanza vicini nuove erbe piú verdi e primi boschetti di un’altra montagna e il paesaggio salire verde aspro. C’era da scendere prima di arrivare a quel fresco, e c’era anche speranza di trovare dell’acqua e levarsi la sete e tuffarvi dentro la testa e strapparsi gli abiti di dosso per riposarsi un po’ sul terreno muschioso all’ombra di qualche faggio.

Mangiare! Che importa il mangiare? Nessuno aveva fame, piuttosto voglia di dormire, di dormire senza pensieri e senza paure e possibilmente senza l’obbligo di affaticarsi.

« Se si fosse arrivati! », mormorò Bruno.

« Chissà! », disse come a se stesso Carlo. « Forse siamo proprio arrivati ».

 

L’acqua chioccolava giú per massi pieni di pruni con le more rosse e nere. Sotto gli alberi, in un punto meno scosceso, sulle braci fatte coi ramoscelli accesi rosolavano i due conigli rattraendosi sopra il fuoco. Erano belli e cicciuti; il grasso bruciando spandeva un odore tutto nuovo, un aroma che commoveva. La stanchezza grave rendeva gli uomini pazienti, ma, piú che pazienti, rassegnati a quell’attesa inevitabile. Si consolavano stendendosi e allungandosi finalmente su un’erba non resa arsiccia dal sole, fresca e tenera, come altrettanto freschi erano i rami di quei faggi e le scorze grigie e chiare e le nuvole biancastre del cielo e perfino le formiche lunghe e rosse che si aggiravano sulla pelle delle gambe e su gli abiti. Sembrava proprio che la stancnezza scendesse dai corpi giú nella terra; il cervello finiva col ronzare come preso da un’ebrezza misteriosa.

Gildo e Bruno non dormivano né fantasticavano: vicini ai carboni e immersi voluttuosamente nel fumo aromatico degli arrosti badavano alla cottura dei conigli, curavano le braci, scrutavano il colore delle carni e i sughi che uscivano dai bianchi teneri. Prendevano i pezzi dolcemente per gli ossi sporgenti e li rigiravano, succhiandosi subito dopo le dita calde e saporite.

Mangiarono tutti con un appetito incredibile. Carlo aveva domandato: « Chi vuole le teste?».

« In più,” », aveva chiesto Giannino.

«Come sua parte aveva precisato Carlo.

Nessuno aveva risposto.

« Bene! allora le prenderò io ». Eppure non gli piacevano, «ma», pensava, « cosí deve fare in ogni cosa chi fa da guida ».

Pol tutti si addormentarono continuando a gustare carni saporite, assaporando nel dormiveglia i caldi godimenti del pasto sostanzioso che ricordavano il volto delle madri soddisfatte, le aie, le strade della città, l’aria solcata in corse, le feste, i lumi e le ragazze e le donne care, vicino alle quali sarebbe stato cosí dolce dormire, sicuri e tranquilli, apprezzandone il vivere e la salute. Ah! com’era bello riposare, dopo aver mangiato, e come sarebbe stato bello fare quello che uno voleva e consumare tutte quelle belle cose che c’erano nel mondo.

 

Ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta.

Tutti a sedere sull’erba.

Ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta.

La seconda raffica era piú lontana, dall’altra parte della montagna.

« I ragazzi! », gridò Bruno.

Erano rimasti in cinque. Un’altra scarica; non era accora finita che un’altra cominciò a snodare il suo, fitto rosario di colpi; poi un’altra ancora e ancora altre si susseguivano. Dall’altro versante si rispondeva piú fiocamente.

« Dànno la caccia ai ragazzi », disse Gildo.

Giannino cominciò a saltare sui cespugli a pié pari, preso da uno spasimo frenetico. Il Professore e Carlo lo afferrarono per le braccia. Carlo pensava di tappargli la bocca, ma Giannino si fermò di colpo. « Perché non ce ne andiamo? », cominciò a dire con voce sommessa, irritata. « Cosa aspettiamo? che quei due tornino indietro fuggendo e ci portino i tedeschi fin qui? Bisogna andarsene subito,

peggio per loro se li pigliano. Non dovevano andarsene ».

« E se invece i ragazzi scappano da un’altra parte? ».

« Aspettiamo prima di muoverci », disse Gildo. « Vediamo cosa succede ».

« Su, su! », comandò Carlo, « lasciamo questo posto. Cerchiamo di arrivare su un culmine; là ci sparpaglieremo. Copriamo la brace ».

Strapparono manciate di felci e coprirono alla meglio le ceneri dopo averle calpestate. Giannino li precedeva nella salita invitandoli con le mani e incitandoli con parole tronche.

« Svelti! Su, su! Presto, in vetta! Vedremo lassú, vedremo lassú ».

Le raffiche di mitra continuavano e si moltiplicavano sordamente negli echi. Salivano. Sembrava di udire anche delle voci. Da tutte le vallate invisibili salivano rimbombi, ma quelle raffiche che davano la sensazione di un obbiettivo ben chiaro, di una caccia, venivano da vicino, dalla loro destra mentre salivano sempre piú affannati. La loro marcia stava per trasformarsi in una fuga disordinata.

« Calma! », comandò Carlo.

« Su su! ».

« Férmati, Giannino, altrimenti non capirai piú nulla e andremo a farei ammazzare! ».

Il Professore, che era il maggiore di età, veniva per ultimo, con calma; anche Gildo saliva senza troppo scomporsi. Bruno sembrava non riuscisse a frenare la forza delle gambe.

« Se ci dividiamo ora, siamo perduti: se perdiamo la testa, ci ammazzeranno ».

Tutto a un tratto sentirono degli spari piú vicini e gridi. Sembrava che la caccia salisse di fianco a loro.

Videro il cielo fra gli alberi e in un balzo, furono in vetta. Si affacciarono prudenti. Un’altra sella piú alta delle precedenti, poi un altro monte piú elevato denso di boscaglie il rumore degli spari si attardava dietro di loro. Bruno li raggiunse ultimo.

« Danno fuoco alle macchie laggiú. C’è un gran fumo e si vede muoversi qualcosa ».

«Andiamo su quell’altro monte », implorava Giannino. « Attenzione! Laggiú c’è qualcuno », avverti il Professore. Aveva già il mitra pronto. « Giù a terra! ».

« Siamo circondati », disse ad alta voce Gildo.

« Bruno », disse Carlo, « striscia fin là a vedere ».

Bruno, sporgendosi sul ripido pendio, vide giú nel profondo, quattrocento metri piú sotto almeno, là dove il monte calcinoso veniva a spegnersi nel crescere verde dei cespugli e delle piante, un gruppo di uomini, che apparivano piccolissimi, in grande agitazione. Gli sembrò che trascinassero un corpo che sembrava piú voluminoso per la polvere che sollevava. Si, ora che erano allo scoperto vedeva meglio. Trascinavano qualcuno, legato per i piedi con una corda. Era morto certamente. Bruno ebbe la sensazione che si trattasse di Nando. Ancora raffiche. Il bosco in un punto fumava bruciando e si udivano distintamente grida tronche, parole incomprensibili, che salivano lentamente.

Trovò gli altri che stavano guardando in basso e guardò a sua volta: alcuni uomini in uniforme stavano nel fondo nudo.

Tremavano tutti e si sentivano agitatissimi. Bruno non riusciva bene a dire: « Salgono! », tanto era emozionato.

« Andiamo di là », ripeté Giannino con voce atona. « Tiriamogli ».

« Sí », fece Carlo, « ma prima avviciniamoci il piú possibile e dopo corriamo sull’altro versante. Devono essere sei. Spareremo io e il Professore. Voi con le pistole, sparerete correndo se sarà necessario. Darò io il comando ».

Scesero giú come gatti. Pur sentendosi stranamente esaltati, estraniati da ogni sensazione precedente, avanzavano con una precisione matematica, resi lievi dalla paura di morire e dall’orgasmo di vivere. Quando i tedeschi cominciarono a.salire, Carlo fermò i compagni con un gesto. li Professore gli si schierò di fianco. Calmo, sembrava che ci tenesse a dare a se stesso e agli altri una prova di sangue freddo e di fermezza.

Dopo le sventagliate rabbiose videro un’agitazione frenetica giú in basso e sentirono grida laceranti. Si misero a correre, seguiti dagli altri. Bruno e Gildo corsero senza quasi capire e, giunti dove prima avevano visto gli uomini in uniforme, spararono pur non vedendo alcuno. Giannino mugghiava e mandava stridori dalla bocca correndo piú stentatamente per i suoi poveri piedi che battevano malamente sulle pietre. Pieno di freddo furore, ora che era in azione volle sparare su qualcosa che si muoveva.

Sempre correndo, come con l’ali ai piedi, salirono il pendio verso il bosco, lasciandosi dietro grida, rumori di passi giú per la china e alcuni spari. Corsero non sentendo piú nulla. Arrivati in alto, si cercarono e dovettero tornare indietro ad aiutare Giannino, che non ne poteva piú. Avevano il cuore in gola, ma ripresero ad andare salendo e tirandosi su con tutto il corpo, incuranti dei fruscii provocati dalla fuga delle lucertole e dei topi, non badando alle mani e ai piedi graffliati. Non udivano piú nessun rumore. Giunsero su un culmine e di lassú sentirono improvvisamente un crescendo di mitraglie, dappertutto. Sembrava che i colpi venissero dai fianchi dei monti avanti a loro.

« Stiamo per essere circondati di nuovo », si agitò Bruno.

« Avanti ancora! Camminiamo, corriamo! », decise Carlo.

Di nuovo ripresero la marcia forsennata per non farsi chiudere nella morsa, finché Giannino gridò agli altri che erano avanti: « Non saliamo piú, non saliamo!… Perdiamo il tempo, a salire ».

« Come? », domandarono.

« Camminiamo lungo il fianco del monte; saliremo quando avremo superato i tedeschi ».

Smisero di salire, ma ben presto si trovarono davanti alla macchia senza sentieri e si agitarono, perdendo fiato e forze, per avanzare di pochi chilometri. Allora tornarono a camminare su per la roggia scavata dall’acqua piovana. I cocuzzoli si susseguivano ai cocuzzoli. Sentivano spari e grida ‘lontane, vedevano file di soldati salire lungo le prode scoscese e brulle, e fumate e bagliori sugli altri pendii di fronte. Tutte le truppe erano in movimento. L’allarme era dato. Li cercavano e tentavano di chiudere tutti i valichi per circondarli e prenderli o ucciderli. Poi non poterono piú salire perché il sottobosco era diventato talmente fitto da non permettere quasi il passaggio, e dovettero costeggiare il monte, che invece era diventato quasi spoglio di vegetazione.

« Se non ci ammazzano ora… », disse Gildo.

« Si », fece Carlo. « Dovremmo essere quasi in salvo ».

Ma non desistettero. Credevano quasi di correre, ma in realtà procedevano lentamente. Si tiravano dietro le gambe a fatica.

Sí, i due ragazzi dovevano aver creduto di essere arrivati ai limiti dell’offensiva tedesca e dovevano aver pensato di tornarsene a casa.

« Gli sono caduti proprio tra i piedi », osservarono.

« Vedete » commentò Carlo. « Bisogna stare uniti, altrimenti siamo perduti. Avete visto come abbiamo superato il passo dove stavano di guardia ».

« Dobbiamo averne anche ammazzato qualcuno », disse Bruno.

« Chi lo sa! », fece Carlo.

« Almeno d’uno son quasi sicuro », affermò Giannino, « gli ho tirato da qui a li e mi sono anche fermato per tirar meglio ».

A tutti sembrava di aver avuto una parte ben precisa, ma le loro impressioni non combaciavano. Gildo aveva ricevuto una pedata in un fianco e Bruno asseriva di averla tirata a un tedesco che tentava di fermarlo. Il Professore raccontava di come li vedeva correre mentre gli altri gli ribattevano che lui, il Professore, non poteva averli visti, perché dopo aver eseguito la scarica era corso, avanti per primo.

«E allora chi erano ouelli che correvano davanti a me? », domandava incredulo.

« Ombre », affermava Giannino che si sentiva tornare di nuovo la vena della contraddizione, « ombre nostre e impaurite per di piú ».

« Tu per primo ».

« Si capisce ».

« Nessuno di noi è un eroe », disse Carlo: « tutti abbiamo paura di soffrire e di morire ».

Poi di nuovo ripresero a camminare in silenzio. Avevano dimenticato la fame e la sete, ma, ora che il pericolo sembrava diminuito, si accorgevano che il sole era ancora abbastanza alto e che avevano sete. Se si fermavano anche per un attimo, sentivano di avvampare e avevano dolori dappertutto. Si accorsero anche di non aver piú nemmeno le coperte e non si ricordarono se le avevano perdute correndo o se le avevano lasciate.

Finalmente poterono bere e mangiarono delle more.

Carlo pensava ai ragazzi, che dovevano esser morti certamente. Gli dovevano aver dato la caccia come ai lupi. Che poteva dire di loro, come poteva render conto?

« Dovevamo sorvegliarli », ammise il Professore, « ma come si fa? ».

« Meglio non pensarci piú », disse Gildo che camminava dietro a loro.

Bruno e Giannino ‘cercavano qualche capanna dove passar la notte, ma appena lasciavano la mulattiera per avvicinarsi al bosco lo trovavano, fitto, impenetrabile.« Quasi,quasi ci si potrebbe anche nascondere», diceva Giannino che ogni tanto si pigliava i piedi doloranti in mano

« Ma vengono coi lanciafiamme », diceva Bruno.

« Dammi tempo e io sfido anche i, lanciafiamme. Si fa una bella buca e si lascia soltanto una canna fuori per respirare ».

Finalmente apparve una capanna sopra la mulattiera nel bosco fitto e piena di strame secco.

 

Appena la luce del giorno li costrinse ad aprire gli occhi, si accorsero di quanto erano affaticati e indolenziti. Non c’era un muscolo che non dolesse e si alzarono a stento.

Giannino fu l’ultimo. « Sono stufo,», diceva. «Perchè correr tanto, ormai? Tanto se dobbiamo morire… Quasi quasi -è meglio rimanere qui. Non qui nella capanna, eh! nel bosco, in qualche forra, rimpiattato dentro in una buca a lasciar passare una settimana. Son sicuro che nessuno ci troverebbe ».

Però si levò anche lui e andò dietro agli altri quando si mossero.

In quel punto la mulattiera entrava in una gola naturale, alta, e quando l’oltrepassarono si parò davanti a loro uno scenario grandioso. La montagna cadeva a picco da tutte le parti sul fondovalle. Sul versante opposto c’era come un’ultima piega di terreno accessibile fra il precipizio di sotto e quello di sopra. Girando sempre l’occhio a destra, la montagna s’inerpicava diritta e sembrava terminare bruscamente, ma una vetta piú lontana faceva intravvedere una continuazione del monte. Anche il loro versante diventava quasi impraticabile. La mulattiera, si trasformava in uno stretto sentiero scavato nel pendio che precipitava.

« Siamo vicini alla fine dei nostri patimenti », disse Carlo. « Credo di conoscere questi luoghi».

« Me se non ci sei mai stato da queste parti! », replicò Giannino. « Guarda piuttosto dove metti i piedi e non ti fermare, ché ci fai fermar tutti ».

Improvvisamente ci fu una gragnuola di proiettili. Gli spari e gli echi rimbombarono dappertutto. Giunsero alla voltata precipitosi.

« Da dove sparano? ».

« Da là », disse Gildo, « da quella striscia di terra ». « C’è un carro armato! ».

« Diavolo! Chi ce l’ha portato lassú? ».

« E’ facile », disse il Professore. « Vedete la striscia di terra come sale dal fondo? Ci hanno sparato con le mitragliatrici. Meno male che eravamo abbastanza distanti ».

« Ragazzi, credo che l’ultimo ostacolo sia stato già superato. Vedete là? Questa montagna e quell’altra si ricongiungono. Di là ci devono essere altri precipizi come questi. Qui finisce la battuta della divisione tedesca, perché più su non possono venirci che con le fanterie. Lassú ci ritroveremo con tutti quelli che son riusciti a passare in questa direzione; non saremo in molti ma quanti bastano per difenderci

meglio ».

Corsero a vedere se era vero. Infatti la montagna era scoscesa dappertutto, anzi lo scoscendimento dell’altra era ancora piú lungo. Un dolce pendio lungo meno di un centinaio di metri menava a una cresta che partiva dal burrone. Il sole che s’era già levato battendo dal basso metteva nell’ombra metà del pendio.

Si avviarono, ma dopo poche decine di passi capirono e si fermarono. Avanzarono di passo in passo finché bruscamente a sinistra, in basso, apparve quella striscia di terra da cui erano partiti i colpi. Tutto il pendio doveva essera sotto il tiro del carro armato.

Ammutolirono.

« Che facciamo? ».

« Passo obbligato », mormorò Giannino. « Quelli ci tirano. Siamo sistemati! ».

« Qui non possiamo stare », disse il Professore. « Quel carro armato precede gli aìtri. Tra poco, forse ci piglieranno anche di sopra».

« Ragazzi, coraggio!, Siamo vicini alla salvezza », disse Carlo.

« Taci! », gridò Bruno. « Lasciami stare e non dirci piú nulla. è l’ora di finirla con tutte queste chiacchiere di speranze e di promesse! Tanto non riusciremo mai a passare. Dobbiamo morire, morire e basta! ».

« E allora crepiamo subito », disse Giannino e cominciò a salire il pendio. Gli altri fermi e stupiti lo guardarono.

« Che fate? Venite dietro a me. Guardate lassú ».

Camminava gesticolando. Tutti voltarono la testa in sú. Il pendío, ripido non offriva speranza. Giannino si voltò. «Avete visto? Ci tireranno di sopra come a tanti passerotti e si divertiranno a farci saltare. Ma io no. Meglio questa fucilazione volontaria ».

Continuava a salire. Era già oltre la metà. Gli altri lo guardavano attoniti. Saliva sempre. Era forse a due terzi.

Giannino ora allunga il passo. Forse arriverà a valicare la cima del pendio. Giannino corre. Ta-ta-ta-ta, la prima sventagliata. Ta-ta-ta-ta-ta, la seconda. Ta-ta-ta-ta-ta, la terza. Giannino non c’è piú. Si dibatte sul terreno. Tutti urlano. Si rialza, cade, sale, ricade. Deve esser ferito, non può farcela. Allora il Professore si slancia, sale con una velocità incredibile, urla anche lui, come tutti, come Giannino, che di lassú maledice e sputa voltandosi furibondo verso il carro armato; lo raggiunge, lo afferra a volo sotto le ascelle e lo trascina per forza su su per il pendio, su per gli ultimi metri, fino al culmine fino a sparire di là. Sono passati.

Bruno gemette: « Perché non siamo passati anche nol? ».

 

« Tenteremo anche noi », mormorò Carlo.

« Ora staranno piú attenti », sospirò Gildo. Poi cominciò a parlare: « Dare la caccia cosí agli uomini. Bel gusto ammazzarci! Siamo uomini solo perché ci vogliono ammazzare. Se fossimo dei cani, o dei gatti, o dei pipistrelli non ci guarderebbero nemmeno. Tre giorni che fuggiamo dagli uomini perché siamo uomini, e non per altro; ci ammazzerebbero anche se non fossimo partigiani, se non cucinas simo conigli. Maledetti! Ma vi dovremo stritolare tutti per liberare il mondo da questa paura. Maledetti! maledetti! maledetti! ».

Bruno aveva alzato la testa e lo ascoltava. Poi fu di nuovo silenzio.

« Va bene », decise Carlo, «ha ragione Giannino. Meglio la fucilazione volontaria. Dobbiamo tentare anche noi e metterci tutta la nostra intelligenza. Ragazzi, non c’è tanto da discutere, ché forse stanno già arrivando. Io faccio una proposta : se l’accettate la metteremo subito in esecuzione, se no ognuno farà come crede meglio. Uno partirà da quell’estremità laggiú e dopo venti passi si getterà a terra co me se fosse colpito; dopo alcuni secondi ripartirà, e dopo venti passi si butterà nuovamente giú, e sempre cosí fino alla vetta. Gli altri due faranno altrettanto; soltanto uno partirà dal centro, l’altro dall’altra estremità».

« Perché tutto questo? », domandò Bruno.

« Ho detto che non c’è tempo per discutere. è per rendere piú difficile la mira ».

« Io vado all’estremità sinistra », disse Bruno.

« Io a quella destra ».

« E io al centro. Vi darò i segnali. Addio, ragazzi ».

Carlo fece cenno a Bruno, che parti, poi fece cenno a Gildo, e infine si gettò per la salita dopo alcuni secondi.

Era l’ultimo. Si gettò a terra. Quando si rialzò vide davanti a sé uno che saliva faticosamente e un’altro che si gettava carponi. Fu solo alla terza ripresa che senti intorno a sé li terreno battuto. Mentre si gettava nuovamente sulla salita, vide Gildo arrancare sulla vetta e sparire a capofitto. Poi vide Bruno salire lentamente. Possibile che non riuscisse mai a raggiungerlo? Gli sembrava che tutto intorno a lui ronzasse e che sul terreno battessero centomila zoccoli di cavalli. Infine gli fu vicino e lo spinse con violenza, lo scagliò in avanti, lo colpi ancora e ruzzolarono insieme dall’altra parte.

Seduti sull’erba, fecero il bilancio.

« Due morti probabili, due feriti certi », disse Carlo.

Giannino era ferito a un piede e Bruno alla spalla. Mario e Nando erano stati inseguiti e ammazzati nel bosco. Questo lo seppero dal contadino dei conigli che li raggiunse dopo qualche giorno, dopo aver mandato la moglie dai suoceri. Gli avevano mangiato tutto quello che teneva, ucciso le bestie e bruciata la casa.

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Edizioni Avanti!

1955

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