Lidia Pirini

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Lidia Pirini

(29 settembre 1944)

La famiglia Pirini — composta dal capofamiglia Olindo, da sua moglie Alfonsina e da tre figli (Lidia, Francesco e Marta) —viveva a Marzara, una piccola frazione del comune di Marzabot­to. Fu in seguito alla morte del capofamiglia, vittima, il 18 mag­gio, del primo bombardamento aereo nella zona, che la famiglia Pirini decise di salire fino a Cerpiano nella speranza di trovarvi un sicuro rifugio. Quando la soldataglia del maggiore Reder si scagliò contro le popolazioni dell’Appennino emiliano Lidia aveva 15 anni.

La mattina del 29 settembre si sparse la voce che stavano arrivando i tedeschi. La gente si allarmò, non sapeva da che parte andare, dove rifugiarsi. Qualcuno cercava di portare un po’ di calma, ma la paura era in tutti. Gli uomini presero la decisione di nascondersi nel bosco e tutti furono concordi nel ritenere che le donne e i bambini non corressero alcun rischio. Anche Lidia ne era convinta.

La signora Alfonsina insieme alla figlia Marta, al figlio Francesco, ai nipoti e cugini di Lidia restarono con gli altri a Cerpiano. Lidia invece insieme al cugino Giorgio si incamminò verso Casaglia, due chilometri piú avanti.

Giunti a Casaglia, i due ragazzi trovandosi in una situazione di paura e smarrimento analoga a quella che si erano lasciati alle spalle, decisero di rifugiarsi nella piccola chiesa. C’erano già una settantina di persone che stavano recitando il rosario assieme al parroco, don Ubaldo Marchioni. Si unirono al coro. Intanto lo spavento aumentava perché gli spari dei tedeschi si udi­vano piú vicini e già si intravedeva il fumo degli incen­di. Il prete recitava il rosario a voce alta, cercando di coprire il rumore dei, mitragliatori. La triste fama che aveva preceduto i soldati di Reder contribuiva ad au­mentare la loro ansia.

Malgrado la stagione estiva quella mattina il tem­po era brutto: il cielo grigio, una pioggiarella insistente avvolgeva il paesaggio e le persone come di un velo sot­tile. Erano circa le 10. La chiesa era una piccola costru­zione, poco piú che una grande stanza, quasi quadrata, con le pareti nude. Annessa alla chiesetta c’era una cap­pella e, adiacente, a circa 100 metri, il piccolo cimitero con un centinaio di tombe.

"Stavamo ancora pregando," racconta Lidia, "quan­do sentimmo i tedeschi arrivare davanti alla porta del­la chiesa. Credo che la buttassero giú; io non li guar­dai entrare e mi nascosi la faccia. 11 parroco parlò in tedesco con due di loro e mi sembrò sconvolto da quel­lo che gli dissero. Le SS uscirono e chiusero la porta della chiesa. 11 parroco cercava di farsi coraggio, ma si vedeva che anche lui era spaventato.

"I tedeschi tornarono piú numerosi; spalancarono di nuovo la porta e si misero ai lati con i mitra puntati. Ci fecero uscire sul piazzale della chiesa e quando passa­vamo in mezzo a loro ci davano dei colpi ridendo. Ho poi saputo che don Marchioni venne poi trovato ucciso ai piedi dell’altare; allora non me ne accorsi neppure. Ci dissero che eravamo partigiani: ‘partigiani kaput.’ Ci misero in colonna e ci fecero avviare lungo la strada che dalla chiesa porta al cimitero. Pensavo che ci avreb­bero portato in un campo di concentramento. Invece, quando fummo all’altezza del cimitero, i soldati scar­dinarono coi fucili i vecchi cancelli e ci fecero passare attraverso il varco che avevano aperto. Ci spinsero con­tro la cappella, tra le lapidi e le croci di legno. Ormai nessuno aveva speranza. Vicino a me c’era una ragazzina che conoscevo; mi chiedeva cosa ci avrebbero fatto. Non potevo rispondere, non avevo la forza di parlare.

" Le lapidi e le croci assumevano l’aspetto di un funesto preságio. Ma il pensiero si ribellava all’idea che quegli uomini, anche se trasformati in macchine, po­tessero infierire su tutta quella gente inerme e inno­cente.

"Poi vidi i tedeschi che, agli angoli del cimitero, si inginocchiavano per prendere bene la mira, con i fu­cili puntati su di noi, mirando basso per poter colpire i bambini. Gli spari ebbero inizio con un frastuono che stordiva. Io caddi e qualcuno cadde sopra di me. Era la morte, ormai, pensavo. Rinvenni, che stavano ancora sparando e gettavano bombe a mano. Era calato uno strano silenzio: si sentivano solo dei gemiti isolati. Capii che quei corpi pesanti che sentivo sopra di me erano ormai morti, ma riuscivo a respirare e mi sem­brava di stare bene. Dopo un poco però sentii un dolo­re alla gamba, mi toccai e mi accorsi di avere una pro­fonda ferita. Restai sotto i morti per due giorni e una notte. Se qualche ferito si lamentava, i tedeschi veni­vano dentro a sparare. Era un’orgia di sangue e di feto­re. Che cose indescrivibili successero in quelle lunghe ore! Nessuno poteva portarci aiuto perché i tedeschi non si allontanavano. Vennero delle mucche e dei maiali ad aggirarsi per il cimitero. Io potevo vedere e udire tutto, ma non osavo muovermi. Poi mi decisi: verso sera del secondo giorno, quando ancora però non era buio, mi alzai. Un ragazzo che conoscevo mi chiamò per nome; riconobbi la sua voce, ma non riu­scivo a vederlo. Gli chiesi di scappare con me, ma ri­spose che era paralizzato e di dirlo a sua madre se l’avessi incontrata. Mi incamminai sulla strada verso Cerpiano; ora volevo assolutamente rivedere i miei, sapere cosa era successo e avanzavo pian piano trasci­nandomi dietro la gamba ferita e appoggiandomi a un bastone. La strada, fuori dal cimitero, era piena di morti. Lungo il sentiero vidi una colonna di soldati ledesebi, circa una ventina, che venivano dalla mia parte. Ma non potevo scappare, non potevo fare altro che continuare ad andare avanti verso di loro. Vedevo la colonna avvicinarsi e speravo soltanto che mi sparasse­ro in fretta, senza prima torturarmi. Al cimitero avevo visto cose che non è possibile neppure immaginare. Io avanzavo coperta di sangue. Quando mi furono vicino, li guardai negli occhi; volevo vedere bene in faccia quello che avrebbe alzato il fucile e mi avrebbe sparato addosso. Invece, mi oltrepassarono e non mi fecero niente. Nessuno si voltò. Sentii poco piú in giú che erano arrivati al cimitero e sparavano di nuovo. Piú tardi trovai un rifugio nel bosco e seppi che i miei erano morti tutti e che non potevo andare a Cerpiano perché c’erano ancora i tedeschi. Piú tardi sembrò che se ne fossero andati e seppellimmo i nostri morti in una fossa comune. Tornammo a Cerpiano; noi tutti eravamo rimasti una decina. Ci rifugiammo in una casa rimasta intatta. La prima notte non feci che urlare: `Ci sono i tedeschi, arrivano!’ E purtroppo tornarono davvero. C’era il maggiore Reder, il loro capo, e ci mandarono in cantina perché insediarono il comando nella casa dove noi eravamo. La notte li sentimmo scen­dere le scale della cantina. Entrarono e puntarono le lampade sulla faccia di ognuno finché giunsero dalla parte delle donne. Intuii subito quello che cercavano e mi tirai subito la coperta che ci copriva sulla testa. Ne presero alcune: le trascinarono su per le braccia con le ginocchia che battevano contro i gradini delle scale; gli uomini rimasero a piangere senza poter fare niente. Dopo qualche giorno le rimandarono giú e ne presero qualcun’altra. Io mi spaventai tanto che andai in un angolo della cantina, dove erano ammucchiati dei mo­bili, e mi nascosi sotto un armadio. Per tre giorni ri­masi cosí: non volevo neppure mangiare, per timore che i tedeschi mi scoprissero. Poi gli americani che si erano avvicinati, spararono cannonate contro la ca­sa. lo, sotto il mobile, mi sentivo gettare da tutte le parti. 1 tedeschi si riversarono in cantina e spinsero fuori i superstiti. Io non osavo uscire dal mio nascondiglio perché temevo che, non avendomi vista, mi te­nessero lí con loro. Poi presi una coperta e me la misi sulla testa, avvolgendomi tutta per non apparire giovane. Qualcuno mi guidò per un braccio perché ero ferita e camminavo a fatica. Passammo la monta­gna di notte sotto la pioggia e sotto le cannonate ame­ricane finché raggiungemmo a piedi Bologna."

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