La liberazione di Firenze 1° parte

L’INGRESSO A FIRENZE
E LA LIBERAZIONE DELLA CITTÀ
Prima parte
Il 5 agosto fui svegliato da Bastiano, che mi informò di una bella notizia:
la nostra IV Compagnia era entrata ad Incisa Valdarno senza incontrare resistenza.
Aveva organizzato sia ad Incisa che a Figline un servizio d’ordine
con a capo il compagno Narciso Brunori.
I compagni non impegnati nel servizio, ci avrebbero raggiunti nel
quartiere di San Frediano, guidati dal compagno Guelfo Billi.
Bastiano mi confidò che temeva che gli alleati avessero deciso di disarmarci; lo aveva intuito da una mezza frase sentita al Comando di Divisione.
Non aveva finito di dir questo che arrivarono un ufficiale inglese e il compagno Giuseppe Rossi, ispettore generale delle Brigate d’Assalto Garibaldi.
“Giuseppe, sono felice di vederti ancora per dirti che dopo la riunione
dell’11 settembre dove mi dicesti di andare in montagna ad organizzare
la resistenza come CP, sono a capo di una Brigata di circa novecentocinquanta uomini ben armati e ben addestrati.
“Se la tua venuta qui con questo ufficiale inglese significasse la richiesta
del Comando Alleato di consegnare le armi e andare a casa, sappi
subito che noi non consegneremo niente a nessuno.”
“Porca miseria”, disse Beppe Rossi. “Lo sapevo che puntando il dito
su di te facevo una buona scelta; dunque sei un ufficiale superiore?”
“Si!”
“Allora perché non porti i gradi?”
“Non li metto perché i miei compagni lo sanno tutti chi sono.”
“E la popolazione fiorentina ti conosce…? Metti i gradi insieme ai
tuoi ufficiali, anche questo può essere un elemento che ci aiuta a risolvere
la brutta questione per cui siamo qui.”
“Gli alleati”, incominciò Rossi il suo discorso dal palcoscenico dove
i compagni lo fecero salire. “Gli alleati vi chiedono di consegnare le armi,
in quanto secondo loro il vostro ciclo è finito.”
Alcuni partigiani, il trio Boddi, Triglia, Marco, insieme ad altri, salirono
sul palco per togliere la parola a Rossi.
Gracco ed io, salimmo sul palco per dire all’ufficiale inglese che noi
non consegnavamo niente e che avremmo combattuto fino alla completa
liberazione di Firenze e poi, liberata Firenze, fino alla completa liberazione
nazionale.
Facemmo un documento scritto, uno per il Comando alleato, uno per
il Comitato toscano di Liberazione Nazionale ed uno per il nostro Comando di divisione; documento nel quale si dichiarava che avremmo sparato su chiunque fosse venuto con l’intenzione di disarmarci.
Oltre a ciò, costituimmo dei posti di blocco mobili, per facilitare
questo compito.
Quando Giuseppe Rossi se ne andò via insieme all’ufficiale alleato,
sentivo dentro di me che con uomini e dirigenti come Rossi, anche questo
problema si sarebbe risolto.
La sua era stata tutta una vita di lotta.
Della sua appartenenza alla classe operaia, portava il segno anche nel
fisico, la solidità di tutta la sua struttura, le sue mani larghe, forti, i lineamenti scultorei del suo volto, bastava un breve contatto con lui per comprendere la sua indomita volontà.
Nel pomeriggio venne una giornalista de L’Azione Comunista per
intervistarci sul nostro sganciamento da Fonte Santa; le raccontai brevemente che le cose erano andate bene (con un solo ferito), nonostante che con la II Compagnia ci si fosse gettati contro l’accerchiamento tedesco
raggiungendo la I Compagnia ormai al sicuro.
Le raccontai invece una cosa che avevo visto con dolore in un avvallamento, tra la bassa vegetazione del bosco trovai il cadavere di un contadino accanto alla sua mucca morta.
Nella mano destra teneva ancora la fune che lo congiungeva al cadavere
dell’animale rovesciato col ventre all’aria e le gambe già rigide.
Il contadino era prono e la sua mano sinistra chiusa a pugno teneva
stretta della terra.
Aveva lavorato tutta la vita dall’alba al tramonto, sotto ogni clima
per la terra che non era neanche sua, perché era un mezzadro, ma lui la
considerava sua e dei suoi figli.
Ora ne teneva, quanta ne può contenere una mano di un contadino irrigidito dalla morte.
Per quanto riguardava il grave fatto del nostro disarmo da parte degli
alleati, ero ottimista poiché c’era da fare il rastrellamento dei franchi tiratori e c’era da attraversare l’Arno: non potevano fare a meno di noi.
Dall’altro lato c’era Potente che suscitava un certo fascino sugli Alleati
ed io mi sentivo più che sicuro che il nostro comandante sarebbe riuscito
a far ritirare la proposta di disarmo.
E che fosse riuscito lo constatammo il 6 agosto, quando Potente con
un ufficiale dello Stato Maggiore della VIII Armata ci passò in rivista nell’imminenza del nostro impiego nei combattimenti.
I nostri ragazzi lo avrebbero portato in trionfo, ma eravamo sull’attenti
con le armi e bisognava eseguire gli ordini, perché eravamo dei soldati.
Quando gli Alleati andarono via, Potente disse a Gracco e a me:
“Entro mezz’ora voglio che i sottufficiali e gli ufficiali si mettano i
gradi. Non accetto scuse.”
Così facemmo.
Sentirmi chiamare sig. Maggiore da parte del popolo, mi faceva però
uno strano effetto.
Il giorno dopo, 7 agosto, a mezzo staffetta ci giunse il seguente ordine
da trasmettere alla popolazione:
Da sinistra: Otello Berti “Berto”, Vice Comandante Militare e Sirio Ungherelli “Gianni”, Commissario
Politico della Brigata Sinigaglia.
DIVISIONE D’ASSALTO GARIBALDI ARNO
Dal Comando di Divisione 7/8/1944
Il Comando Alleato ha deciso di eliminare i franchi tiratori a sud dell’Arno
e ne ha affidato l’incarico ai partigiani di questa Divisione.
Per rendere l’operazione possibile e sicura, lo stesso Comando Alleato
ordina alle famiglie della zona già sgombrata per ordine dei tedeschi
e che sono ritornate ora alle proprie abitazioni, di riunirsi tutte a Palazzo
Pitti per il tempo strettamente necessario all’espletamento del compito di
cui sopra.
Carabinieri italiani già dislocati a Palazzo Pitti provvederanno alla
provvisoria sistemazione delle famiglie momentaneamente senza tetto.
Si prega di facilitare il compito dei partigiani, sgombrando senza indugi
le abitazioni e lasciandone aperti gli accessi sino agli abbaini e ai tetti.
È chiaro che si agisce nel solo interesse del popolo già colpito dall’infame
azione dei franchi tiratori e si assicura che sarà osservato dai partigiani
il massimo rispetto per le case dei lavoratori e per gli oggetti in
esse contenuti.
Il Capo di Stato Maggiore Il V. Comandante di Divisione
Colonnello Bertorelle Gino
Sempre in data 7 agosto 1944 ci fu rilasciato dopo un chiarimento
orale il “Progetto di rastrellamento dei franchi tiratori nella zona assegnata
alla Divisione Arno”.
“Per l’attuazione del rastrellamento della zona compresa tra via del
Leone, piazza Cestello, i Lungarni fino al Ponte a S. Trinita, Borgo S. Jacopo, via Guicciardini, piazza Pitti, piazza S. Felice, via della Chiesa, assegnata a questo Comando, si propone quanto segue:
1°) Fissare dei posti di blocco, armati di Bren e Thompson lungo le
probabili vie di provenienza o di scampo dei franchi tiratori (fognone del
gas e tutte le sue uscite); macerie nei pressi dei ponti alla Carraia, S. Trinita, Ponte Vecchio, piazza S. Felice, angolo via della Chiesa–via dei Leoni angolo via del Leone, via S. Frediano.
Altri eventuali blocchi verranno posti in quegli altri punti ove si rendessero
necessari.
2°) Fare sgombrare la zona dalle famiglie sospette.
3°) Rastrellare metodicamente mediante pattuglie mobili armate di
armi automatiche e bombe a mano, tutte le abitazioni comprese nella zona,
sia di giorno che di notte.
4°) Operato il rastrellamento di un isolato esso verrà presidiato, nei
luoghi più opportuni, e le strade di accesso sorvegliate da pattuglie mobili.
5°) Il rastrellamento procederà dal limite sud della zona verso il fiume
e verrà eseguito contemporaneamente in tutta la zona da rastrellare.
6°) Al rastrellamento concorreranno le seguenti forze: un Comando
di Brigata, due Compagnie. Di queste una sarà incaricata della perlustrazione nell’interno dei fabbricati, l’altra del collocamento dei posti di blocco, del pattugliamento delle strade intermedie e del presidio degli isolati già rastrellati.
Il Commissario Politico della Divisione Il CM di Divisione
Giobbe
Il Capo di Stato Maggiore
Bertorelle
Fu così che l’8 agosto ricevemmo l’ordine dal nostro Comando di
Divisione e dagli Alleati di partecipare al rastrellamento dei quartieri di
San Frediano con inizio all’alba del 9 agosto.
Per facilitare i collegamenti il giorno 8 ci venne indicato di prendere
residenza nei locali del Distretto Militare in piazza S. Spirito, luogo sul
quale si affacciava oltre alla chiesa omonima il cinquecentesco Palazzo
Guadagni e la chiesa iniziata dal Brunelleschi, interessante documento del
primo Rinascimento fiorentino.
Dalle Due Strade scendemmo sotto un furente temporale con scrosci
di acqua e tuoni che accompagnavano i boati del furente bombardamento
di mortai da parte dei tedeschi.
Entrati che fummo dentro al Distretto Militare, noi della Sinigaglia ci
accomodammo sotto i loggiati che fanno cornice ai giardini, lasciando lì il
tascapane con le munizioni di riserva.
Dato che la caduta dei colpi di mortaio sembrava teleguidata, pensai
che su quei tetti ci fosse qualcuno che passava ai tedeschi i dati per colpirci.
Stavo al centro della piazza dove c’era quella fontana ottagonale,
così ad un certo punto vidi che i tiri si avvicinavano: uno cadde con fragore sul marciapiede che fa angolo con via S. Agostino, un altro colpo cadde sullo stesso marciapiede molto più vicino al capannello di Potente. Lasciai di corsa il luogo dove mi ero piazzato, e correndo verso il gruppo di persone dissi:
“Allungano il tiro, il prossimo colpisce qui.”
Mentre Chimico mi diceva che quei due colpi erano stati un caso,
cadde il terzo su di loro.
Fu una tragedia: l’ufficiale inglese di collegamento fu ferito ad una
gamba, un civile morto, Potente fu ferito al ventre, Chimico fu ferito al
collo del piede.
Subito Potente fu portato dentro il Distretto Militare come pure gli
altri feriti.
Gli alleati mandarono a chiedere un’autoambulanza che arrivò velocemente.
Gli addetti fecero per caricare per primo l’ufficiale inglese ferito alla
gamba, ma questi resosi conto della ferita di Potente e della figura che
quell’uomo rappresentava per la Resistenza disse:
“Prima Potente e poi io.”
Fu ferito anche il compagno Ardito che in guerra e nella Resistenza
fu sempre al fianco di Potente.
Il 9 agosto iniziammo il rastrellamento.
Santo Spirito e San Frediano erano stati divisi in quattro settori: in
ognuno doveva agire una compagnia rinforzata dalle SAP della zona e da
un nucleo di commandos canadesi armati di Thompson.
Prima di lasciare il Distretto Militare mi misi d’accordo con l’ufficiale
inglese per farci lasciare uno spazio transennato dove poter sistemare i
prigionieri da interrogare: vi misi due partigiani di guardia.
L’ufficiale che sapeva un po’ la lingua italiana, saputo che io mi interessavo al recupero delle opere d’arte, mi invitò per la cena per parlare
delle rapine di oggetti di arte antica e moderna che i tedeschi compivano
con la complicità di gerarchi repubblichini.
Accettai l’invito, tanto più che la cena organizzata dentro al Distretto
Militare sarebbe servita anche a stringere i rapporti tra noi e gli ufficiali
dell’VIII Armata.
La lotta contro i franchi tiratori fu dura, lunga, estenuante e veramente
difficile. I franchi tiratori si trovavano in una situazione di vantaggio: i
loro nascondigli erano misteriosi, i loro fucili avevano il mirino con il cannocchiale che permetteva di inquadrare il bersaglio a distanza di centinaia di metri.
Contro un nemico che combatteva così da lontano, non servivano le
sventagliate dei mitragliatori (Sten o Beretta) troppo corte, e nemmeno i
fucili 91 o 38 che avevano un tiro più lungo, ma notevolmente impreciso
nell’ultima parte della traiettoria.
Noi dovevamo avanzare a sbalzi da un portone all’altro, di tetto in
tetto.
Nei momenti più pericolosi, i “cecchini” stavano al riparo, rinunciando
ad uccidere perché facendolo avrebbero rivelato dove erano annidati.
Pertanto eravamo costretti a provocarli. Qualcuno di noi ogni tanto si
buttava da un lato all’altro della strada. Così il cecchino veniva seriamente
invitato a sparare.
Se sparava, che facesse o meno centro, era scoperto.
Quando veniva scoperto il franco tiratore era condannato. Prima o
poi veniva stanato, catturato e messo al muro, come ci avevano ordinato i
comandi italiani e alleati.
In quel primo giorno di rastrellamento noi della Sinigaglia, la Lanciotto,
i compagni della SAP, fucilammo o uccidemmo negli scontri centodue
franchi tiratori: in tutto avemmo nove morti e otto feriti.
Il 10 agosto il rastrellamento iniziò alle ore cinque e trenta del mattino.
Portavo dentro di me il dolore per la morte del compagno Potente.
La notizia mi era stata portata alle ore cinque.
Ad un certo punto la mia attenzione venne richiamata da una donna
piuttosto giovane che rifornitasi alla fonte di due fiaschi d’acqua, portava
con la mano sinistra la borsa e con il braccio destro si teneva stretto al petto un bimbo di circa un anno, camminando quasi al centro della strada. Le gridai di entrare nel portone, ma forse quella giovane non credeva che dicessi a lei, comunque non avrei fatto a tempo: il franco tiratore la colpì in piena faccia e la donna cadde sul lato sinistro, sempre stringendo il figlio a sé.
Il bimbo così cadde dolcemente e si trovò incolume a pochi passi
dalla madre, tra questa e il marciapiede e cominciò a camminare sulle
mani e sulle ginocchia, piangendo, mentre sotto di lui scorreva l’acqua dei
fiaschi rotti e il sangue della madre. Il bimbo sguazzava in quel liquido
rosso che si spandeva andando a finire sotto il marciapiede, correndo verso
la fogna.
Il franco tiratore allora sparò un altro colpo su quel bimbo piangente
che si muoveva cercando di aggrapparsi alla madre.
A quel punto dissi ai compagni che avevo con me:
“Sparate sul tetto, da come rimbalzano i proiettili in terra è vicino”, e
di corsa quasi piegato in due a zigzag arrivai al bimbo. Lo raggiunsi e lo
abbracciai.
Ero disteso per terra col bambino, quando mi sentii avvolgere da un
altro corpo.
Era il Siciliano che mi disse:
“Non ti lascio morire, o ce la facciamo tutti e due, o nessuno dei
due.”
Il franco tiratore sparò ancora, i colpi passavano vicini senza mai
colpirci, come se una campana di protezione fosse su di noi.
Il franco tiratore cessò di sparare. I colpi dei nostri compagni avevano
inquadrato la zona da dove tirava o lo avevano addirittura colpito.
Dagli angoli delle strade o dalle finestre chiuse con i soli vetri, così
come avevamo ordinato, occhi angosciati di donne e di uomini trepidavano
e pregavano per noi.
Presi il bambino, Siciliano prese il corpo della madre e camminò davanti
a me per ripararmi dai colpi dei franchi tiratori.
Prima del quadrivio c’era un grosso portone da dove tanta gente ci
applaudiva; entrammo dentro. Tutti vollero toccare il bambino. Poi una
donna molto anziana ci accarezzò e ci baciò.
“Tu sei Gianni, vero?”
“Sì, chi te l’ha detto?”
“Lo sappiamo tutti.”
“E lui, questo bel giovane è Siciliano.”
“Noi pregheremo e preghiamo per voi.”
“Grazie.”
“Noi ora dobbiamo proseguire. Entro mezz’ora riuscirò a far venire
l’autoambulanza. Voi cercate di scoprire i parenti della morta e di questo
bel bambino. Arrivederci compagne.”
Uscimmo dal portone e andammo a riunirci alla nostra squadra, per
proseguire il rastrellamento.
Quella mattina del 10 agosto la battaglia tra noi e i franchi tiratori fu
terribile e prese ben presto il carattere di battaglia decisiva.
Il fuoco dei mortai divenne sempre più preciso, così pure la caduta di
bombe a mano.
Era chiaro che i franchi tiratori dirigevano con le loro segnalazioni il
fuoco dei mortai, e da dietro i comignoli il lancio delle bombe a mano.
Verso le ore dieci e trenta, essendo rimasti a corto di munizioni, andammo
con il mio gruppo di partigiani al Distretto Militare per fare rifornimento.
Preso il rifornimento mi venne l’idea di suonare il campanello dell’Istituto
di Storia dell’Arte–Kunsthistorisches Institut in Florenz, in piazza
S. Spirito, 9.
Così, fatti nascondere i miei compagni dentro il portone più vicino,
suonai il campanello: sentii che dietro il portone chiuso stavano parlando;
corsi al portone dove c’erano i miei ragazzi e ci mettemmo lì, aspettando
che qualcuno uscisse.
La fortuna ci volle bene e una ragazza molto robusta ci passò davanti.
La fermammo chiedendole i documenti: aveva una camicetta bianca
e celeste con due tasche sul petto, in una aveva i documenti, nell’altra aveva una bella penna stilografica, che Siciliano guardava ammirato.
La tedesca, subito cordiale gli disse:
“Ti piace? prendila pure!”
“Fermo!”, gridai strappandogli la penna di mano e rimettendola nel
taschino della tedesca.
“Conosciamo queste penne, possono uccidere chi cerca di svitare il
cappuccio. Noi non le abbiamo mai adoperate, però hanno un alto potenziale esplosivo.”
“Tu sei un uomo e questa è una parrucca”, gli dissi levandogliela, “e
porti addosso armi per assassinare gente inerme. Intanto ti faccio portare
nella sede del nostro Comando dove poi sarai interrogato.
“Compagni perquisitelo tutto denudandolo e portatelo al distretto, la
penna la prendo io. Cinque di voi vengano con me all’Istituto di Storia tedesco.”
Perquisimmo le stanze ma al di fuori di una donna molto anziana che
ci aveva aperto, non trovammo nessun altro, la sede dell’Istituto aveva una
grande terrazza coperta sul tetto e quindi era molto facile andare e ritornare
per questa strada.
Interrogai quella donna, e quella bugiarda giurò e spergiurò che era
più di un mese che nessuno veniva lì all’Istituto.
Sempre calmo le dissi:
“Senta le faccio due domande, se lei risponde con sincerità, noi ce ne
andiamo, se lei invece continua a dir bugie l’arrestiamo immediatamente.
“Chi è venuto qui stamani?”
“Nessuno.”
“Sono state sparate delle fucilate dalle finestre?”
“Ma le pare! No, no, può star tranquillo, da qui nessuno ha sparato!”
“Cara signora, lei ha risposto con due bugie ed ora ne darò la prova:
in cucina ci sono due tazzine da caffè ancora calde, se si mette il dito sulla
pellicolina che il caffè lascia in fondo alla tazzina, si ha la prova che è stato bevuto nello stesso tempo, quindi qui c’era un’altra persona.
Da sinistra: Marino Sgherri “Moro” e Vittorio Pieri “Marco”, partigiani della Brigata Sinigaglia.
“Cinque minuti prima che noi arrivassimo è uscito un capo nazista
vestito da donna, questa è la parrucca che portava, e nel salone sotto al
tappetto c’erano dei bossoli di fucile Mauser.
“Poiché ha mentito, in nome del popolo italiano l’arresto per tradimento
e atti di guerra contro le forze angloamericane e contro gli uomini
della Resistenza.”
E la portammo via.
Il rastrellamento durò fino alle ore quattordici; mentre con il mio
gruppo di compagni mi dirigevo verso il Distretto Militare trovammo il
nostro Triglia che aveva compiuto atti di alto valore come sempre aveva
fatto in montagna, e ora a Firenze ci abbracciammo commossi; avevo le
lacrime agli occhi: questo ragazzo modesto, semplice che poteva passare
inosservato era un gran combattente.
Mi sentivo tanto stanco, in piazza S. Spirito ad una ventina di metri
dal Distretto Militare caddi di schianto a terra svenuto.
Subito i miei compagni cercarono di rianimarmi. Cominciai a sentire
che mi bagnavano la fronte e le labbra.
Sentii la voce inconfondibile di Vladimiro:
“Sì, ma entro due ore deve essere di ritorno.”
Parabellum traduceva…
Gli inglesi mi portarono in un loro ospedale da campo, dove un ufficiale
che parlava in perfetto italiano mi domandò toccandomi i gradi che
avevo sulla camicia se ero un ufficiale superiore.
“Sì, sono Maggiore!”
“Siamo colleghi, caro mio.”
Mi visitò da capo a piedi, poi in un grosso bicchiere versò un liquido
giallo, ci mise dentro tre grosse pasticche, poi mise delle gocce di un altro
liquido e il contenuto cambiò colore e diventò mussante.
“Beva tutto questo che la farà guarire subito, poi tornato alla Brigata
non faccia niente per oggi, si riposi!”
“Sig. Maggiore che cosa è stato?”
“Ha bevuto o mangiato qualcosa di velenoso?”
“Non lo so.”
Dormii tutto quel pomeriggio e tutta la notte.
L’undici agosto, ricaricati lo Sten e la pistola, presi anche delle bombe
ad ananas.
Uscii per prendere una boccata d’aria quando mi incontrai con il
compagno Roasio che sorridente mi disse:
“Gianni sei sempre il primo ad alzarti e pronto per l’impiego.”
In gran segreto mi disse che alle ore undici la Martinella di Palazzo
Vecchio e la campana del Bargello, avrebbero suonato per dare il via all’insurrezione.
“Beppe Rossi mi ha incaricato di darti questo.”
Aprii il bigliettino che diceva: “Gianni picchia sodo!”
Chiamai Gracco e ci mettemmo d’accordo così: saremmo arrivati sul
lato dell’Arno coperti dalle spallette del fiume. Sarei stato con tutti gli uomini, guardando a turno l’obiettivo da raggiungere.
Gracco invece, sarebbe stato presente al Comando inglese in attesa
dell’ordine di varcare il fiume.
Non erano ancora le dieci: dai Lungarni dov’eravamo, vedevamo via
dei Fossi, anzi solo un pezzo di via dei Fossi perché uno striscione bianco
che attraversava la strada, impediva a noi che si era più in alto di vedere
tutta la via che dai Lungarni porta a S. Maria Novella.
Mandai a chiamare Truciolo e Stinchi pregandoli di camminare tenendosi
bassi. I tedeschi che erano nei Lungarni di fronte a noi non dovevano
vedere nessun movimento.
“Tu Truciolo, impresta per cinque minuti a Stinchi il tuo Mauser e rimani
qui.
“Stinchi, quella strada dritta che abbiamo davanti è via dei Fossi, e
quello striscione bianco che attraversa la strada non è stato messo lì a caso.
In quella strada ci sono molti antiquari e palazzi di nobili che hanno le
case piene di oggetti di antiquariato. Sicuramente i tedeschi saranno lì a
fare razzia. Se riesci a buttar giù lo striscione subito, Breda con il suo
Brent e questi tre inglesi con la mitragliatrice spareranno su quei vandali.
“Osserva bene lo striscione. Vicino al muro è fissato con due corde
che lo attraversano per tutta la lunghezza e lo tengono fissato a due ganci
per parte al muro.
“Vedi il muro a destra?”
“Sì”, rispose Stinchi.
“Quando lo striscione va a fissarsi al gancio, lascia scoperti circa tre
centimetri di corda di lunghezza per due di spessore.
“Ora ti do un caricatore al fosforo, così quando colpirai la fune in
quel punto si brucerà.
“Te la senti Stinchi?”
“Per Dio, Gianni, sì che te la butto giù.”
Stinchi si umettò le labbra con la lingua e tirò il primo colpo ma non
successe nulla.
“Ma guarda”, disse Stinchi, “il binocolo non è collimato bene.”
Tirò il secondo colpo e la fune di sopra si spezzò.
Tirò il terzo colpo e la seconda corda fece la fine della prima.
Cascato lo striscione, si videro bene due camion sui quali i nazisti
caricavano delle casse ma gli inglesi e Breda li ammazzarono.
Sui due camion non feci sparare perché potevano contenere opere
d’arte!
Anche quella giornata dell’11 agosto era calda, afosa, ma ciò che lì
sui Lungarni mi impressionò fu la grande differenza tra i quartieri signorili
e quelli popolari d’Oltrarno.
Chiusi e silenziosi i primi, rumorosi e festosi i secondi. Dalle finestre
aperte: bandiere, drappi, gente festante.
Dalle porte uomini, donne, giovani, vecchie, venivano lì sulla strada
a porgere acqua, vino, fiori, baci e lacrime di commozione.
Le vecchie annerite mura delle case erano ricoperte di manifesti,
scritte murali inneggianti alla Resistenza, a noi partigiani e di benvenuto
per gli alleati.
Tornammo dietro alla spalletta, lì vicino alla Pescaia di S. Rosa, una
pattuglia formata da Otto, Stinchi, Triglia, Stoppa, attraversò la Pescaia e
si portò sui Lungarni dei palazzi signorili. Il passaggio sulla Pescaia fu difficile perché l’acqua dell’Arno era alta appena una ventina di centimetri,
ma nascosti dall’acqua che scorreva, si faceva molta fatica a vedere quei
numerosi fili che se toccati o pestati avrebbero fatto saltare le mine.
Ovviamente eravamo più che sicuri che dall’altra parte ci aspettavano
i franchi tiratori.
Presero una scala di legno da muratori e l’appoggiarono alla spalletta
del fiume.
I compagni, grazie a quella scala, avrebbero con più facilità scavalcato
la spalletta del fiume carichi come erano di armi e munizioni.
Accertatisi che i tedeschi da quella linea difensiva si erano ritirati,
Otto, Stinchi, Triglia e Stoppa si ritirarono sulla Pescaia e sotto la capace
guida di Otto disinnescarono le mine, per rendere libera la strada alla Brigata e agli altri patrioti che avrebbero dovuto attraversare il fiume.
Più tardi Otto collaborò con alcuni specialisti indiani, per disinnescare
le mine nascoste dai tedeschi fra le macerie del Ponte Vecchio: aprirono
così anche quella via.
Mentre stavamo lì pronti a varcare l’Arno per costituire una testa di
ponte ed inseguire i tedeschi, che certamente avevano organizzato una linea di fronte, pensavo ai contatti che avevamo preso con gli alleati. I nostri collegamenti erano con il Magg. Manley, ufficiale di collegamento
della V Armata americana; Mister Howard, ufficiale di collegamento della
V Armata e Dirigente della Psychological Warfare Branch (PWB); col Tenente Colonnello Benton Jowes, primo Governatore della città; col Magg. Mac Intosh della “Special Force”.
Fin dalle prime luci dell’alba di quell’11 agosto, una inusitata pausa
del fuoco nemico, che fino ad allora era stato vivace e continuo sia durante
il giorno che la notte, richiamò la nostra attenzione e quella del nostro Comando di Divisione, che prese urgenti accordi col Comando delle truppe alleate e fece guadare l’Arno a due forti pattuglie, col compito di conoscere lo stato di occupazione nemica nell’interno della città.
Una delle due pattuglie, diretta al Piazzale delle Cascine, veniva arrestata
dal fuoco nemico che le causava la perdita del suo valoroso caposquadra,
ciò non impediva alla pattuglia di persistere nell’assolvimento del
compito.
L’altra, attraversato il fiume presso Rovezzano, poteva raggiungere
il centro della città senza altro ostacolo che il tiro dell’artiglieria nemica
lungo la via Aretina.
Senza indugio il Comando di Divisione, lanciò allora sull’altra sponda
la Brigata Sinigaglia, per costituire una testa di ponte.
Erano le dieci e quaranta, l’inizio dell’insurrezione era per le undici.
I combattimenti si accesero frattanto in vari punti della città e della
periferia, contro reparti tedeschi che non avevano ancora ultimato le distruzioni progettate. I patrioti insorsero in tutti i quartieri, grazie alle SAP e a due compagnie della Lanciotto, occultamente penetrate in precedenza per rinforzare le squadre stesse.
Appariva indispensabile l’intervento di tutte le unità partigiane, per
assicurare il sopravvento dei nostri sul nemico. Altrettanto indispensabile
e imperioso appariva a noi italiani liberare Firenze, con le sole nostre forze, male armate e peggio nutrite, ma animate dall’antico spirito e dall’irrefrenabile impeto delle legioni garibaldine!
Alle ore undici e trenta il Comando di Divisione, alla testa della Brigata
Lanciotto, guadò l’Arno alla Pescaia di S. Rosa, ed avute notizie dei
punti ove più accanita ferveva la lotta, lanciò una compagnia ai Macelli
(Romito, p.zza S. Jacopino e Ponte all’Asse) e un’altra ai Molini Biondi
(oltre il Ponte del Pino, piazza Cavour, viale Romito Vittoria, viale dei
Mille).
Il Comando di Divisione fece inviare un distaccamento della Brigata
Lanciotto alla Manifattura dei Tabacchi.
A noi dettero l’ordine di attaccare la Fortezza da Basso, e di rendere
sicura la zona che da Porta al Prato, per via della Scala e via del Moro era
delimitata nel senso della larghezza dal Ponte alla Vittoria al Ponte della
Carraia.
In più dovemmo portare aiuto al Casone dei Ferrovieri per eliminare
i franchi tiratori che, attraverso le fognature, andavano verso il centro della
città.
I combattimenti si protrassero sino al tramonto della giornata. Si
conclusero con la conquista della Fortezza da Basso; stabilimmo una linea
di fronte denominata “Linea del Mugnone”.
Gravi le perdite della giornata, specialmente fra i patrioti delle SAP e
reparti di bande varie, che le accorrenti forze della nostra Divisione riuscirono quasi ovunque a liberare dall’accerchiamento dei tedeschi.
La nostra divisione, a sera fatta, lamentava venti morti e una cinquantina
di feriti.
Tra essi numerosi comandanti militari e commissari politici di compagnia,
di distaccamento e di squadra, ciò che era normale tra i partigiani,
dove la partecipazione dei dipendenti alla nomina dei propri capi, mentre
ne garantiva la buona scelta, impegnava questi ultimi ad essere a tutti d’esempio nell’ora del pericolo.
Le perdite del nemico, benché numerose non furono del tutto accertate
in quanto le autoblinde coprivano sistematicamente gli sgomberi dei
corpi feriti o morti.
Ad ogni modo le perdite del nemico furono gravi e non inferiori alle
nostre.
Grazie all’interessamento del compagno Vittorio, per tutto il periodo
che sarebbe durata la lotta per liberare Firenze, a cominciare da quella serata dell’11 agosto, ci potemmo acquartierare nel palazzo delle Scuole
Tecniche Sassetti in via Garibaldi.
Intanto per coordinare le azioni delle varie forze partigiane sul posto
e di quelle affluite da fuori, entrava in funzione in Firenze, il Comando
Militare Toscano, nuova denominazione del già esistente Comitato Militare Toscano (emanazione del CTLN).
Il Comitato suddivise il fronte in tre settori.
I settori laterali alla Divisione Arno e il settore centrale, topograficamente
ristretto, ad elementi vari che il Comando Militare Toscano fondeva
nella circostanza in un unico corpo nella Divisione Giustizia e Libertà.
Il 12, 13 e 14 agosto si delineò il fronte sulla Linea del Mugnone,
con violenti scontri tra noi partigiani ed i tedeschi.
Il giorno 15 fu caratterizzato da insistenti puntate tedesche, talora
spinte in profondità allo scopo evidente di determinare la presenza, ed
eventualmente, la dislocazione delle forze inglesi nella città e dal lento e
metodico movimento di avanzata dell’VIII Armata, i cui primi reparti varcarono l’Arno solo il giorno 13. Gli inglesi richiesero, di volta in volta, a noi partigiani la costituzione e successivamente l’ampliamento di teste di
ponte, finché giunsero alla sera del 15, sulla Linea del Mugnone, che noi
tenevamo saldamente sin dal giorno 11.
Anche gli inglesi si articolarono in tre settori corrispondenti a quelli
costituiti da noi partigiani, e stabilirono subito contatti con i nostri comandi.
L’accanimento dei franchi tiratori impose rastrellamenti di case, di stabilimenti e condutture sotterranee.
Nell’attesa dell’entrata in funzione degli alleati, il nostro lavoro di
partigiani italiani divenne sempre più estenuante: la fatica e lo stillicidio di
morti o feriti infertoci dalle azioni sul fronte e dall’attività dei franchi tiratori alle spalle, inaspriva gli animi e determinava nei nostri uomini un’aggressività sempre più spiccata e un sempre maggior rigore delle repressioni.
Molto fu il lavoro di noi Commissari Politici: da quello di Brigata a
quello di Compagnia, a quelli di distaccamento fino a quelli di squadra.
In quei giorni un Commissario Politico poteva dormire tre ore al
giorno.
Ricordo ancora, come fosse successo ora, il 12 agosto, mentre con
una squadra partigiana sparavo verso un tetto da dove avevano sparato e
ucciso una donna, fui raggiunto da Bastiano che avevo mandato al Distretto Militare per sapere notizie sulla battaglia in corso.
Vidi subito che Bastiano era demoralizzato e molto addolorato.
“Gianni”, mi disse, “devo darti una brutta notizia.”
“Parla”, gli risposi.
“Il nostro Tinti è stato colpito da un ‘cecchino’ sull’angolo tra via
Serragli e via S. Agostino, è stato portato al Distretto Militare ma era già
morto.”
Abbracciai Bastiano e ci mettemmo a piangere confondendo le nostre
lacrime.
“Quando il 4 agosto arrivammo in piazza Gavinana, mi presentò la
sua famiglia e la sua ragazza. Era tanto felice.
La madre mi chiese di stare attento alla vita di suo figlio.”
“Bastiano, lo sai come me: come si fa a stare attenti in una guerra
come questa…
“Guarda, è il terzo giubbotto che cambio e anche questo è sforacchiato
alle maniche, in basso e così via.
“La morte non mi vuole, tu sai tutto di me. Nelle ore del pericolo siamo
stati sempre insieme.
“Ora mi metto in mezzo alla strada e aspetto che colpiscano.
“Voglio farla finita, non ce la faccio più.
“Il mio Tinti intelligente, sempre tranquillo, audace, bello, buono,
non c’è più.
“Non ce la faccio più a veder morire tanti nostri compagni che amiamo
più che se fossero nostri fratelli.”
Bastiano mi strinse più forte che mai dicendomi:
“Giannino abbiamo bisogno di te, delle tue capacità, perché sei una
roccia e una bandiera.”
“Stiamo più vicini Bastiano, perché anche tu sei una roccia e una
bandiera.”
Fin dal 13 agosto non avevamo più Gracco: era rimasto ferito.
Nelle prime ore del pomeriggio venne al Comando per riferire quello
che era successo.
Ci raccontò che era andato sul Piazzale di S. Maria Novella con nove
uomini, per vedere cosa succedeva. Lungo i binari ferroviari, nello scontro
Tigre e Stoppa morirono. Cinque rimasero feriti: Mosca, Prato, Lince, Picche e lo stesso Gracco. Solo due restarono incolumi.
Ero furente.
“Gracco”, gli dissi, “ma dov’era scritta codesta azione?
“Hai portato con te nove ragazzi e non hai lasciato detto dove andavi.
Nessuno può comportarsi così. Siamo responsabili della vita dei nostri
compagni. Ed anche l’azione non è stata preparata, tanto che sono stati i
tedeschi a sorprendere voi e non viceversa.”
Non aggiunsi altro, lo feci trasportare con un mezzo all’ospedale.
I Vicecomandanti Moro e Berto sostituirono Gracco al Comando finché
questi non fosse ritornato.
A partire dalla notte del 16, ebbero inizio le ricognizioni oltre il Mugnone,
eseguite normalmente da gruppi di partigiani, saltuariamente dagli
alleati, con la guida ed il concorso dei primi.
Ai fattori spirituali che avevano finora informato il comportamento
dei partigiani, si aggiunse ora l’emulazione, che in ogni tempo ha esaltato
l’animo del combattente italiano al cospetto di alleati di altre nazionalità.
Il comando dei settori passò agli alleati, i quali spinsero ricognizioni
di partigiani in tutte le direzioni, di giorno e di notte.
A loro volta i tedeschi sondarono ansiosamente la nuova situazione
determinata dalla presenza degli inglesi.
Ebbero così luogo quotidianamente combattimenti con noi partigiani,
sempre schierati in posizioni avanzate: i nostri compagni ebbero modo
di far risaltare la loro maggiore abilità e audacia nella lotta.
I tedeschi pagarono infatti largo tributo di sangue (contati una media
di otto morti al giorno e circa quindici feriti).
Inoltre persero, in nostre brillanti azioni episodiche, il giorno 16 agosto:
due mitragliatrici pesanti da 20 mm. Il giorno 19 agosto: due mitragliatrici
pesanti e cinquanta fucili. Il giorno 20 agosto: due mortai da 81. Il
giorno 23 agosto: un fucile mitragliatore e due pistole.
Alle ore tredici e trenta di quel 14 agosto ritornai al comando per aggiornare le carte topografiche sulle modifiche fatte sul fronte dai tedeschi e da noi, e colsi l’occasione per mangiare qualcosa.
Trovai ad attendermi due dirigenti delle SAP di Oltrarno, che mi
chiesero di intervenire presso il maggiore Mac Intosh, allo scopo di ottenere un maggior contributo per gli sfollati che erano stati organizzati sotto i loggiati di Palazzo Pitti.
Fin dalla costituzione di questa forma di aiuto ero stato lì per rendermi
conto di come funzionasse.
Non avevano né parenti né amici che li potessero ospitare, quindi
quella era rimasta l’unica forma di aiuto.
C’erano con loro per aiutarli un gruppetto di crocerossine, una squadra
di soldati inglesi, una di carabinieri e una di pompieri, gli stessi che
avevano portato in montagna da noi il loro automezzo attrezzato contro gli
incendi, che noi avevamo ricoperto di verdi frasche per non farlo scoprire
dalle “cicogne” tedesche che sempre spiavano i nostri boschi.
Nella divisione che avevamo fatto della città in tre parti, quel settore
ricadeva sotto le mie dirette responsabilità, perciò dissi a quei due compagni:
“Mi faccio dare un pezzo di pane, la borraccia piena d’acqua e vengo
con voi per rendermi conto di come si svolgono le cose, dato che alle ore
diciassette ho la riunione con gli Alleati e quindi anche con il Maggiore
Mac Intosh della Special Force.”
Quando ci trovammo in mezzo all’Arno, quel vuoto assoluto mi dette
l’angoscia, quei ponti ridotti in macerie erano un pezzo della mia Patria
distrutta dai nazifascisti.
Si sarebbero potuti salvare quei ponti?
Nessuno pose mai questa domanda a noi combattenti sulle montagne,
ai compagni delle SAP, né alle due compagnie della Lanciotto, nascoste in
città.
Credo e sono ancora convinto che avremmo potuto salvarli quasi tutti,
perché era possibile.
Quando arrivammo a Palazzo Pitti, le donne ci dissero che mancavano
di tante cose necessarie: pannolini, succhiotti e soprattutto latte per i
bambini di pochi mesi, perché tante donne, a causa dei traumi subiti, non
riuscivano più ad allattare.
Alle persone anziane occorrevano coperte o sciroppi contro la tosse.
Parlai con tutti e promisi che, con l’aiuto degli alleati, avremmo risolto i
problemi entro un paio di giorni.
Alle ore diciassette, dopo aver preso il tè con gli ufficiali alleati, feci
una relazione esponendo il problema degli sfollati.
Mac Intosh e il Maggiore Mac Lean mi dissero:
“Le mandiamo al suo Comando il capitano Kun. Sa risolvere in tempi
brevi queste questioni in modo veramente eccellente.”

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