L’eccidio di Sant’Andrea a Campiglia

L’ECCIDIO DI SANT’ANDREA A CAMPIGLIA

Alle ore diciassette e trenta di quel 20/6/44 prima di metterci in marcia per raggiungere la zona controllata dalla nostra III e IV Compagnia, facemmo tirar fuori dai saccapani tutte le razioni di cibo in più e le sostituimmo con scatolette di munizioni e bombe a mano, poiché volevamo avere un buon volume di fuoco. Uno spostamento è sempre un’avventura perché non si sa mai chi si può incontrare strada facendo, quindi era più giusto avere le munizioni di riserva che le scatolette di carne.

D’altra parte andavamo in una zona controllata dalle nostre due piùagguerrite compagnie e quindi avrebbero pensato loro alla nostra alimentazione.

La nostra permanenza non sarebbe stata lunga, noi pensavamo due o tre giorni per ridare un po’ di coraggio a tutti, riorganizzarci in serenità e far ritorno alle nostre vecchie posizioni del Monte Scalari, per impedire una dura resistenza tedesca contro le armate angloamericane avanzanti.

L’importante quindi era di mantenere alla Brigata un buono e abbastanza durevole volume di fuoco.

Prima di metterci in marcia, Giobbe informò Gino, me e Gracco cheper quel giorno alle ore diciotto, egli aveva un appuntamento a Firenze con il centro dell’organizzazione, pertanto, anche se in ritardo intendeva andare a Firenze per riprendere contatto col “centro” anche per informarlo di quanto era accaduto.

Fui contrario. Suggerii che andasse a quell’appuntamento dopo che la Brigata si fosse spostata, sia perché così i partigiani avrebbero visto alla loro testa il CP, sia perché‚ fino a quando non ci fossimo spostati, non avremmo potuto dire che lo spostamento era andato bene.

Giobbe ribatté che le cose che gli dovevano dire a Firenze erano sicuramente urgenti quindi era bene che uno del comando si recasse a Firenze, per chiarire come si erano svolti i fatti. Chi era fuggito chissà cosa avrebbe raccontato!

Accettai la sua tesi, gli detti una stretta di mano e ci salutammo. Lui discese verso Firenze, dove aveva l’appuntamento con Lepre al Ponte a Ema, in casa del compagno Cappelli, da lì Lepre l’avrebbe portato in via del Paradiso in casa del compagno Gatto dove avrebbero trovato il compagno Mario I ed il compagno Comaschi.

Noi ci dirigemmo verso Gaville nel territorio controllato dalla nostra III e IV Compagnia.

In testa alla Brigata, insieme a me e Gino, Gracco, che con la carta topografica e l’ausilio di una bussola ci indicava la strada da percorrere in quella miriade di viottoli e sentieri che attraversavano i boschi.

Anche se tutto ciò sembrò una fuga da Pian d’Albero e dalle nostre posizioni del Monte Scalari, lo spostamento fu necessario, perché col morale della maggioranza dei nostri uomini, era chiaro che se il giorno dopo ci avessero attaccato in più punti, con grandi forze, la formazione partigiana si sarebbe disfatta.

Mi meravigliai di non vedere Tito in testa alla colonna per fare da guida; domandai dove fosse e mi fu detto che per ordine di Gracco e Chimico era stato mandato a fare un posto di blocco sulla strada che dalla fattoria di Monte Scalari scendeva già verso la Panca, gli era stato ordinato di rimanere fermo lì, fino a nuovi ordini.

Quando alle ore diciassette avevamo mandato una staffetta per farlo rientrare in formazione, Tito non fu trovato, né lui, né i suoi compagni Ricciolo, Chitarra e Istrice. La staffetta pensò che il posto di blocco fatto da Tito fosse all’altezza della Cappella, costruzione in muratura che porta tra la fattoria e le nostre posizioni, mentre invece Tito con i suoi compagni era sceso più giù, all’altezza di quella capanna per il carbone e la legna che si trovava giustamente tra la fattoria e la strada che portava alla Panca.

Tenendo conto della situazione di quel giorno, la staffetta tornò subito da Gracco e Chimico, dicendo che al posto di blocco non c’era nessuno e quindi loro dovevano aver fatto come tanti altri: erano scappati.

Non credetti neanche per un istante a quella versione. Tito non era un compagno che avuto un compito così importante potesse fuggire per paura del nemico e così i suoi compagni, Ricciolo, Istrice e Chitarra. Perciò dubitai subito che qualcosa non fosse andato come doveva e che Tito presto ci avrebbe fatto avere sue notizie. Pensai che la staffetta non si fosse inoltrata avanti fin dove quelli si erano appostati. Sì, anche le staffette possono sbagliare e aver paura.

Così proseguimmo la marcia. Mentre camminavamo sentivamo tanto dolore dentro di noi perché ci sembrava una fuga lasciare quei luoghi, anche se solo per alcuni giorni, dove la morte aveva rapito tante giovani vite, dove il sangue aveva bagnato quella terra amica.

Che sarà dei nostri diciannove compagni presi prigionieri?

Intanto verso le ore venti di quel giorno a Firenze in via del Paradiso arrivò Giobbe, che nonostante cinque ore di ritardo trovò i compagni Lepre, Mario I e Comaschi che lo avevano atteso, anche perché dai fuggiaschi che erano scappati da Pian d’Albero avevano capito che era successo qualcosa di molto grave. Le notizie giunte a Firenze insieme ai fuggiaschi, crearono una situazione veramente allarmante.

In certi quartieri come quello di Gavinana, che contava un gran numero di partigiani, le notizie riportate gettarono l’allarme, lo sgomento, il panico in decine e decine di famiglie. Il compagno Ricciolo fu bravissimo a controllare la situazione, che poteva diventare pericolosissima per tutti i cittadini. Giobbe poté così chiarire a Mario I e a Comaschi molte cose e riferire la vera misura della tragedia che ci aveva colpito.

Intanto noi con tutti i superstiti marciavamo come al solito in fila indiana puntando verso il circondario di Gaville; io, come al solito, mi spostavo dalla testa alla coda della colonna, per portare una parola di incoraggiamento o una battuta spiritosa, così nel contempo controllavo l’umore ed il morale dei partigiani. Gracco con la cartina topografica e la bussola continuava a fare da guida. Fino ad allora avevamo avuto per guida nostri partigiani pratici del posto. Prima di mezzanotte ai piedi di Casa al Monte, passò e ripassò l’aereo per il lancio e così lo perdemmo.

Mentre noi ci spostavamo, ed erano già le ore ventiquattro, Tito, Istrice, Chitarra e Ricciolo fermi al posto di blocco dal quale non erano stati richiamati, sentendo i morsi della fame, decisero di mandare Ricciolo al Comando.

Ricciolo arrivò al Comando e si accorse che non c’era più nessuno, passò dove dovevano esserci altri distaccamenti, ma questi non c’erano più. La Brigata si era spostata e loro erano rimasi lì.

È da mettere in rilievo che mentre erano fermi al posto di blocco, verso le ore diciassette era passata lì vicino una lunghissima colonna di bovi, che da Dudda arrivava quasi a Strada in Chianti. La colonna era ovviamente scortata da tedeschi armatissimi.

Gli animali venivano dal Valdarno, dalla Chiana, da Perugia e zone limitrofe. Passarono proprio dalla strada della Panca, sotto il loro posto di blocco, non andarono però a Grassina, ma deviarono a Strada in Chianti e andarono giù al Ferrone.

Tito pensò che l’attacco di Pian d’Albero fosse stato fatto proprio per prevenire un attacco partigiano a quella colonna, la fecero passare alle ore diciassette, quando tutti i combattimenti erano cessati.

Ricciolo verso l’una di notte, fece ritorno al posto di blocco dicendo che la Brigata si era spostata senza avvisarli.

Consultati, decisero di non andare a casa, ma di ricercare la formazione e poiché sia Istrice che Chitarra erano di S. Barbara e sapevano che in quella zona operavano la III e IV Compagnia della Brigata, decisero di andare in quella zona. Là trovarono il CM Guelfo Billi che disse loro che il Comando di Brigata con la I e II Compagnia era accampato a Casa al Monte, nei pressi di Gaville, ove si ritrovarono.

Fui felice di rivedere quei bravi partigiani e ricordo che criticai duramente quella staffetta che non li aveva cercati bene.

Ritornando allo spostamento, quando arrivammo alle ore cinque di mattina e cominciava a far chiaro, erano dodici ore che marciavamo, più d’uno si accorse che era già due volte che si passava dallo stesso luogo.

Da lì si era passati verso l’una di notte. Entrò nella colonna un grande malumore.

Mi rivolsi a Gracco per domandargli delucidazioni, ma questi con voce stentorea, cosciente di aver sbagliato gridò: “Colonna… ALT! Compagno Gianni declino ogni responsabilità!”

Non feci storie, mi rivolsi ai compagni più vicini dicendo: “Passate parola lungo la colonna, sentite chi è pratico di questa zona e della zona di Gaville.”

Tre o quattro partigiani vennero lì in testa, e come io avevo sempre fatto, durante la mia vita partigiana, dissi loro: “Ragazzi, portateci alla svelta a Casa al Monte nei pressi di Gaville! Alla svelta perché col sole che sta per sorgere ci vedranno anche i ciechi!”

Verso le ore sette e trenta sulla strada carreggiabile che passava più in basso, ma di fianco al nostro viottolo, vedemmo tre tedeschi con una carretta. Erano armati di fucile Mauser e ci avevano visto, li feci vedere anche a Gracco e Gino e mandammo sei–sette ragazzi a catturarli. Furono presi prigionieri senza aver bisogno di sparare un colpo.

Dopo neanche un’ora, mentre dalla testa della colonna mi portavo in coda, non vidi più i tre tedeschi. Domandai a quei partigiani che li dovevano sorvegliare, che fine avevano fatto e quelli piuttosto arrabbiati mi dissero:

Ma non lo sai, che cosa ha fatto il CP Raspa?”

No, non lo so!”

Li ha fatti rilasciare, ha ritirato loro una bussola che uno dei tre aveva al polso e li ha mandati via!”

Il sangue mi andò alla testa, ma come era possibile questa insubordinazione e questa leggerezza…

Quelli ora avevano già avvisato il loro Comando sulla direzione in cui andavamo!

Ma con quale autorità, un CP addetto agli studi e alla cultura, si assume una grave decisione militare di questo genere senza nemmeno consultare il Comando?

Il Comando li ha fatti catturare non per liberarli dopo quarantacinque minuti! Ero veramente arrabbiato, così come erano arrabbiati tutti i partigiani, reduci dalla tragedia di Pian d’Albero!

Ne parlai con Gino e Gracco che rimasero male come me. Feci presente che un episodio di questa natura, minava il morale di tutti i partigiani. D’altro lato noi verso Raspa fummo sempre troppo accondiscendenti. Anche al campo non passava giorno in cui non avesse dato l’allarme, dicendo che c’erano i tedeschi che venivano ad attaccarci, poi invece erano le pecore che il bravo Aronne portava nel pratone sotto il Comando per farci capire che tutto era tranquillo e non c’era nessun nemico in vista.

Come si poteva pretendere il morale alto dei nostri ragazzi se ogni poco si mettevano in stato di allarme?

Quella decina di minuti di attesa, ripetuti due o tre volte al giorno esaurivano il partigiano più forte, poi quando arrivava l’attacco vero, non c’era più la prontezza di reazione necessaria!

Gino disse: “Troverà la scusa che a causa del carcere ha avuto l’esaurimento nervoso, a me lo ha già detto più volte.”

Quando noi arrivammo a destinazione lo chiamammo nel Comando ma lui sostenne che lo aveva fatto giustamente per tener buoni i tedeschi.

Gli fu detto che all’infuori dei corsi di studio che faceva ai giovani partigiani, non aveva nessuna autorità e potere, quindi prima di muovere foglia doveva venire a prendere ordini dal Comando o dal CP.

Se ne andò convinto delle sue buone ragioni. Secondo lui noi non avevamo capito il suo gesto di bontà che invece era stato compreso bene da quei tre tedeschi.

Poi si mise a litigare con Fulmine, l’unico israelita che noi avevamo, per via della bussola che ognuno dei due voleva tenere per sé.

Finalmente alle ore nove di mercoledì 21 giugno dopo sedici ore di marcia ininterrotta arrivammo a Casa al Monte nei pressi di Gaville. Il CM della IV Compagnia, Guelfo Billi, era lì ad aspettarci e poco dopo ci fece portare in gran quantità pane, carne e vino. Dall’alba del giorno prima non avevamo messo in bocca niente, neanche la scatoletta di carne e fagioli che ognuno di noi aveva nel proprio saccapane.

Intanto la squadra di partigiani comandati dal CM Otto e dal CP Aldo, che si erano recati al Ponte a Ema per requisire, come la volta precedente, un camion di farina, raggiunti dalla nostra staffetta, che li aveva informati di ciò che era successo a Pian D’Albero, ritornarono sui Monti Scalari. Verso l’alba di mercoledì 21 giugno, giunsero nei pressi di Poggio alla Croce.

Guardinghi quanto mai, cominciarono a salire sulla montagna. Arrivarono in vista dell’accampamento del Comando di Brigata, e si fecero più prudenti e più timorosi, ma non incontrarono nessuno. L’accampamento era deserto. Non c’erano segni di battaglia, né tracce di confusione. Evidentemente, pensarono, da qui si erano ritirati e spostati regolarmente. Decisero di lasciare lì due uomini, nel caso che il Comando inviasse qualche staffetta, così avrebbero potuto riprendere il collegamento. Da lì si spostarono fino alla fattoria di Badia Monte Scalari, poi a Casa al Monte e da lì a Pian d’Albero. Arrivati a Pian d’Albero, furono presi dall’acre odore di cordite e di morte, poi disseminati nell’aia, intorno alla casa ed al fienile e nel grano alto, videro i corpi martoriati dei loro compagni morti. Disperati, annientati di fronte a tale massacro si divisero, per fare un minuzioso giro d’ispezione. Trovarono armi abbandonate e svariati cappelli ed elmetti tedeschi; il che li fece pensare che qualcuno aveva accettato battaglia e che anche i tedeschi avevano avuto le loro perdite. Evidentemente i corpi dei caduti tedeschi erano stati portati via dai loro camerati. Infatti, si vedevano strisciate nell’erba.

Di fronte alla casa, dietro alla staccionata, giù nel grano, il cadavere di un cavallo in stato già di decomposizione, come pure un maiale vicino al pozzo. L’aria ne era ammorbata.

Accatastarono della legna e con l’aiuto della benzina bruciarono i corpi di quei due animali.

Poi con calma, Otto e Aldo, aiutati dai loro partigiani, cercarono di riconoscere i nostri caduti e di dargli sepoltura.

Fu una cosa spaventosa, con i fazzoletti si protessero il naso e la bocca e scavarono delle fosse nel campo di grano di fronte alla casa, e nel prato ove oggi è eretto il monumento. I corpi dei nostri compagni, benché fossero passate soltanto ventiquattr’ore, erano in stato di decomposizione e questo rese la sepoltura difficile e quanto mai dolorosa.

Si disinfettarono le mani e le braccia, facendo uso della benzina. Erano tremendamente affamati. Ne fece le spese un campo di cipolle.

Finalmente, accompagnato da uno dei due partigiani lasciati lì, giunse una staffetta inviata dal Comando che li ragguagliò su tutto.

Così Otto, Aldo e i loro partigiani, terminata la sepoltura, si misero a sistemare alla meglio il campo e gli alloggi nelle capanne e nelle tende.

Quella stessa mattina, in cui Otto e Aldo, con i loro uomini dettero sepoltura ai nostri caduti, da Poggio alla Croce cinque nostri collaboratori e precisamente Guido, Piazzesi, Ghino, Adamo e Buccianti, padre di Bistecchino, si recarono coraggiosamente verso la casa di Pian d’Albero per recuperare il corpo di Bistecchino che era rimasto sul tetto.

Ad essi si unì il priore di S. Cerbone Don Gino Bartolucci, che scongiurò il povero padre di non proseguire.

Va’, torna a casa”, si affannava il buon parroco, “ci pensiamo noi, lo lasci in buone mani…”

Il padre scuoteva la testa, recisamente, senza parlare. Un dolore cupo lo aveva troncato, levandogli ogni volontà, ogni forza. Si trascinava a stento, ma voleva andare ad ogni costo. A costo di morire accanto al figlio.

Solo quando lo vide, quando poté toccargli il viso, gelido, sporco di sangue, le mani rigide, con dei baci febbrili, si sciolse il fuoco e il ghiaccio che aveva nel sangue e poté piangere e singhiozzare insieme.

Il povero corpo trasportato alla Chiesa, fu benedetto e poi sotterrato segretamente.

Noi, come poi registrerò in modo cronologico, a Casa al Monte nei pressi di Gaville, rimanemmo solo due giorni, dopo di che, riorganizzate un po’ le file, ritornammo sui Monti Scalari, considerando che per l’avvicinarsi del fronte, quel sistema montano sarebbe divenuto il perno della difesa germanica a sud–est di Firenze.

Bisognava per questo impedire ai tedeschi di fortificarsi e di trincerarsi su quei monti, in modo da agevolare l’avanzata degli Eserciti liberatori, nella considerazione che, mantenendosi i partigiani in quella zona, avrebbero con più efficacia avuto la possibilità di attaccare i tedeschi alle spalle, in una posizione di grande importanza strategica, ai fini dell’avanzata delle forze alleate verso Firenze!

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La zona dei nostri monti aveva una grande importanza strategica, perché permetteva il concentramento di notevoli forze partigiane a meno di una giornata di marcia da Firenze e consentiva di intercettare le vie di comunicazione longitudinali tra Bologna, Firenze, Siena–Arezzo, vitali per l’armata di Kesserling.

Intanto non bisogna dimenticare che quel 20 giugno 1944, che per noi fu un giorno di tragedia, sul fronte di guerra, le truppe alleate, sebbene ritardate dai contrattacchi del XIV Corpo Corazzato germanico, a sud–ovest del Lago Trasimeno, raggiungevano la linea approssimativa Follonica–Chiusi–Perugia, liberando le città di Grosseto, Terni, Rieti, Spoleto, Foligno e Perugia.

Nel settore adriatico, l’VIII Armata si impadroniva di Pescara, di Teramo e, superato il Monte Corno, investiva il Passo di Torrita a quota 1008.

Intanto riprendendo il discorso sulla battaglia di Pian d’Albero, dopo l’ultimo contrattacco scagliato per liberare i prigionieri, i nazisti riuscirono a trascinar via venti di questi nostri compagni partigiani.

Così sugli ultimi tratti di strada furono visti camminare, in mezzo a quella minacciosa schiera armata, che sembrava uscita da un esistente inferno. Tutti e venti furono visti camminare, con fare tranquillo, tra i fucili di quei nazisti marcianti a passo militare. Il feroce ghigno di quei boia fece presagire a tutti il destino di quei giovani.

Anche loro compresero d’andare verso la morte, ma non batterono ciglio, non domandarono nulla ai nemici, e camminarono eretti, fieri in mezzo al serrato plotone dei carnefici marcianti verso una nuova gloria nazista: l’assassinio di venti veri uomini!

Furono visti camminare in mezzo a quelle belve marcianti, davanti, dietro e di fianco a loro, costituendo tutt’intorno una siepe di fucili e armi automatiche. Tanta paura facevano dunque quei venti uomini e fanciulli che calmi, con fare distaccato, con occhi dolci e tranquilli, camminavano in mezzo a loro, senza degnarli di un solo sguardo, d’una sola parola? Sì, inermi, disarmati, debilitati, maltrattati, erano ancora loro, i più forti.

La morte camminava insieme ai nostri venti compagni, ma loro andarono  avanti… verso il luogo dell’esecuzione, senza paura.

I nostri e loro nemici, i macellai dell’umanità, col viso tirato, spietato, con gli sguardi carichi d’odio, tenendo  nervosamente puntato per tutto il tragitto le armi da guerra, sugli inermi venti giovani, dimostravano apertamente di aver paura di loro, di ciò che essi erano, e degli ideali che essi rappresentavano!

Sì, erano loro ad aver paura, loro, i componenti dei serrati ranghi delle SS. Di quei reparti speciali che di fronte ad Hitler e ai suoi magnati dell’acciaio, i vari Gustav Krupp, Von Bohlen, Halbach, avevano l’onore ed il merito di aver avviato il più grande massacro che la storia ricordi!

Essi, i carnefici di professione, i razziatori, sentivano istintivamente, animalescamente, timore e paura di quei giovani inermi. Furono visti camminare, in mezzo ai fucili e andar via con passo fermo, sul luogo ove sarebbero stati assassinati.

Guardarono ancora quei nazisti e sentirono la certezza, che anche loro non sarebbero tornati più al loro paese, la grande falce della morte già sovrastava quella compatta, allineata schiera, con la sua ala nera, come la notte; perché mani di giovani e vecchi partigiani, italiani e non, avrebbero strappato quelle armi, e tante altre armi ancora, per abbattere i portatori ed esecutori di stragi organizzate, i macellatori di carne umana che volevano ridurre il mondo ad un grosso mattatoio, in favore della razza eletta!

Sulla rotabile provinciale che da Figline Valdarno conduceva a Greve, alla destra della strada, prima di arrivare al Ponte agli Stolli, vi è la piccola frazione di Sant’Andrea a Campiglia, che è formata da un paio di case coloniche contornate da campi coltivati a grano e lunghi filari di viti.

Dalla chiesa e dal piccolo cimitero, una ramificazione della strada, dritta e polverosa, conduceva alla Fattoria del Palagio, dove c’era quel comando di paras, e da qui, un’altra strada lunga circa ottocento metri, fiancheggiata da alti cipressi, si apriva a destra, formando una perfetta squadra, e concludeva alla casa colonica di Casa al Piano, ove un nodo stradale si apre a quadrivio portando in opposte direzioni.

Vicino a sinistra o per meglio dire a ovest di Sant’Andrea a Campiglia, Villa Palagina, dove c’era quel comando di SS. Sant’Andrea a Campiglia fu scelta dai boia nazisti come luogo del misfatto.

* * *

Era ormai giunta l’ora dell’esecuzione, l’ora in cui molti assassinii organizzati vengono compiuti. Pochi secondi li separavano ora dalla morte.

Erano circa le ore diciassette, quando i boia nazisti si accorsero di non avere la corda per impiccare quei venti patrioti. Un uomo del luogo e precisamente il Sig. Giacinto Vanni, il guardia della fattoria di Santoleo, che si trovava alla sinistra di Villa Palagina, si offrì di andare a comprarla.

Il bottegaio, più umano e più sensibile di lui, era scappato via, per non venir compromesso nella questione, ma il Sig. Giacinto Vanni, con tutto il suo zelo, andò a ricercarlo, lo trovò, lo fece ritornare in bottega e comprò cinquanta metri di grossa corda, che pagò regolarmente.

Dopo la Liberazione, Paolo Cavicchi denunciò la cosa al Maresciallo dei Carabinieri di Figline Valdarno, ma sia per le falle della legge sull’epurazione dei fascisti e dei collaborazionisti, sia per le amnistie ed altro, non fu concluso nulla.

I nostri compagni fissarono quelle corde, fissarono negli occhi i loro carnefici e pensarono all’unisono: Voi morrete e sarete abbattuti!”

Voi sarete sconfitti ovunque, nelle terre che avete occupato, fin dentro le vostre case perché siete isolati da tutti i popoli della terra, perché siete soli; soli con la morte che vi cammina accanto; la superiorità della morale umana ha deciso da tempo la vostra fine, e quella del vostro onnipotente Führer. La gelida terra di Stalingrado è stata la tomba dei vostri orridi e criminosi sogni, i popoli democratici di tutto il mondo, compresi i migliori figli della Germania, compiranno l’opera, affossando voi, Hitler, Mussolini, il nazismo ed il fascismo per sempre.”

I boia si misero all’opera e la tragedia ebbe inizio e fine, lungo il filare di gelsi di Sant’Andrea a Campiglia.

Sì, nel pomeriggio di quel 20 giugno 1944, alle ore diciassette circa, ai gelsi che sul lato destro, costeggiavano la strada di Sant’Andrea a Campiglia, diciannove dei venti partigiani rimasti nelle mani dei nazisti vennero impiccati.

Fra di essi, Norberto Cavicchi di cinquantadue anni e suo figlio Aronne di quindici anni.

Quando quei boia incominciarono ad impiccare il primo, liberarono uno di quei giovani, uno che era ferito e gli dissero: “Corri dai tuoi capi e digli che se ci rimandano i nostri camerati prigionieri, sospenderemo la sentenza.”

Quei malvagi sapevano bene che quel ragazzo, menomato dalla ferita, sarebbe arrivato tardi al campo e avrebbero avuto tutto il tempo di impiccare tutti e diciannove i partigiani, rimasti nelle loro mani.

Quindi, anche se per ipotesi, noi avessimo avuto dei prigionieri tedeschi da scambiare, quando l’avessimo portati là, avremmo trovato tutti i nostri compagni impiccati!

Qualcuno potrebbe chiederci perché non attaccammo i tedeschi lì, sul luogo dell’impiccagione. Non avemmo né le forze né il morale. Ad ogni buon conto, bisognava tener presente che, subito sopra a Sant’Andrea a Campiglia, c’era la Fattoria del Palagio, con il comando di quei paras che ci avevano attaccato a Pian d’Albero, e che avevano ricevuto notevoli rinforzi.

Subito sulla sinistra di Sant’Andrea a Campiglia, c’era Villa Palagina, dove c’era il comando di quelle SS, che insieme ai paras ci avevano attaccato e anche loro avevano ricevuto rinforzi.

Più a sud–ovest, da Sant’Andrea a Campiglia c’era Villa Poggerina, dove in aggiunta al Convento dei frati, c’era un forte reparto tedesco motorizzato. Tutte le strade che portavano a Sant’Andrea a Campiglia erano controllate da autoblinde e reparti motorizzati di pronto impiego, con vari posti di blocco.

Tentare di liberare quei nostri compagni, sarebbe stato un suicidio! Anche se il cuore voleva andare, col cervello dovemmo valutare tutto questo e decidere amaramente che non si poteva fare nulla.

Io, anche a distanza di cinquantaquattro anni, non riesco a concepire tragedia più grande, per quel padre e quel ragazzo uomo di fronte a quell’immensa tragedia, a quella tremenda morte. Di solito quando un padre muore dice nelle sue ultime parole, muoio, ma lascio il figlio, al quale ho assicurato una certa cultura, un lavoro, un’attività, una certa sicurezza per l’avvenire…

Se invece è il figlio a morire questi dirà: muoio ma il babbo può vivere ancora, gli ho assicurato una vecchiaia tranquilla…

Ma cosa si sarebbero detti Norberto e Aronne?

Norberto ha lasciato il padre assassinato brutalmente nello stalletto dei maiali, della moglie e degli altri figli non sa niente. Non sa se sono ancora vivi o assassinati, attorno alla casa e al fienile ove c’erano tanti morti.

Aronne ha visto il nonno, il capo spirituale della famiglia, assassinato. Il nonno da cui ha preso vita il babbo, lui i suoi fratelli e la sorellina. Ora il nonno non c’era più, era morto per sempre. Aronne non sapeva che fine avevano fatto la mamma, i fratelli e la sorellina: erano ancora vivi? O saranno stati tutti uccisi lì intorno alla casa?

Ora lui era lì, inerme di fronte ai nemici che sghignazzavano, e doveva morire prima o dopo il babbo. Babbo, com’è grande questa parola, com’è grande questo affetto…

Quando aveva lasciato il fienile, questo era mezzo diroccato e in fiamme, si chiedeva se le pecore fossero morte. Tutto questo avevano assassinato! Della famiglia erano state distrutte tre generazioni!

Alcuni giovani erano già stati appesi ai gelsi, giovani pieni di vita, che ora penzolavano inerti, morti. Dio mio, perché tanta cattiveria? Perché siamo stati così disgraziati?

Perché ci toccava vedere tanto orrore? Sembrava quasi una cosa non vera, impossibile.

Poi Aronne si guardò ancora intorno e capì, lui piccolo, accanto al forte padre che lo aveva allevato, istruito, preparato, capì che qui bisognava morire da veri soldati, da veri partigiani!

Non erano generali, quegli uomini che andavano a morire con tanta dignità di uomini, soffocati, stroncati, da quella corda al collo… No, i molti generali avevano preferito scappare l’8 settembre, ora erano lontani, al sicuro, a godersi il sole nel nostro Mezzogiorno d’Italia.

Questi erano soltanto contadini, operai, studenti, gente semplice. Non avevano galloni dorati, pennacchi, mostrine, medaglie, stivaloni lucidi.

Non avevano studiato nelle dorate accademie, questa gente era riuscita appena a conseguire la licenza elementare, i più fortunati avevano potuto, grazie al sacrificio dei genitori, studiare ancora.

Non galloni dorati dunque, non divise fiammanti dei generaloni, e neanche divise del disonore, quelle con gli spauracchi di teste di morto, di SS e porcherie simili.

Questi erano uomini semplici, umani, uomini con abiti lisi e a brandelli, laceri, sanguinanti per le percosse, con le scarpe rotte, ma con la dignità dell’uomo e del cittadino, nel cuore e nel cervello.

Questi, erano uomini che non sapevano marciare al passo dell’oca, ma sapevano morire da eroi per un ideale.

Aronne era piccolo, ma già cosciente. Già da tempo fra le due trincee che dividevano gli italiani, aveva scelto la sua. Ebbene, si disse, se doveva morire, era qui con questa gente, che voleva morire. Accanto al babbo, con questa gente che era come lui, come il nonno, come i suoi fratelli! Meglio morire così, che stare dalla parte degli impiccatori, delle spie, dei traditori fascisti.

Voglio morire vicino al mio babbo”, furono le ultime parole di Aronne, e porse il suo tenero collo nelle mani del boia!

A Pian d’Albero, la squadra che era stata messa per difendere i compagni disarmati e i coloni, composta da quattordici partigiani, ebbe quattordici morti.

Quando apprendemmo la sorte dei nostri diciannove compagni, portati a Sant’Andrea a Campiglia, ove impiccati, rimasero lì attaccati alle corde per tre giorni, con la morte nel cuore, non piangemmo, una parte di noi stessi era morta, non avevamo più lacrime per piangere, e poi, il mondo di allora non aveva bisogno di lacrime, ma di mani, di mani, e di altre mani ancora, che impugnassero un’arma, ed un’altra arma ancora, per abbattere le belve, assetate di sangue, che avevano invaso il mondo, per annientare la civiltà!

Non potevamo arrenderci alla cattiva sorte, dovevamo resistere al dolore che ci bruciava dentro, bisognava portare al sicuro i nostri tanti feriti, rafforzare la Brigata, renderla più efficiente e più forte.

Capace di attaccare improvvisamente il nemico e improvvisamente scomparire nel nulla. Capace di sganciarsi di fronte a qualsiasi rastrellamento, di aprirsi una via d’uscita in caso di accerchiamento.

Capace di operare rapidi spostamenti, per attaccare il nemico più volte, a distanza di 15–20–30 km e così via… Di esser capace di attaccare improvvisamente i nazisti, ammazzarne senza pietà il maggior numero possibile.

Distruggere i loro mezzi di trasporto. Impossessarsi delle loro armi, e del loro materiale di equipaggiamento e sganciarsi rapidamente, per andare ad attaccare il nemico su un’altra strada

Non dare mai tregua, scompaginare le sue vie di rifornimento e di comunicazione con il fronte.

Difendere i contadini, i nostri collaboratori, le donne che tanto facevano per noi, la popolazione civile.

Impegnarsi, per entrare per primi a Firenze, per liberare la nostra città, culla dell’Arte per tutto il mondo!

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