Suor Orsolina

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Suor Orsolina

(29 settembre 1944)

Da alcuni mesi suor Orsolina teneva l’asilo dei bambini nel Palazzo di Cerpiano dopo che la sede abituale di Casaglia di Caprara era stata abbandonata a causa dei bombardamenti e di altri disagi causati dalla guerra. Cerpiano è una frazione del co­mune di Monzuno nella parrocchia di Casaglia, a 500 metri circa d’altitudine in una conca fra monte Sole, monte Caprara e i boschi della Collina. Il Palazzo era un vecchio edificio, lascito di un sacerdote, distante dai centri abitati e quindi fuori mano. I bambini che frequentavano l’asilo erano circa una sessantina e la loro età oscillava fra i 3 e i 7 anni. Lí suor Orsolina aveva tro­vato un ambiente ideale per la sua vocazione di insegnante e di religiosa: sereno, a contatto con la natura, lontano dalle atrocità della guerra.

Suor Orsolina, il cui nome secolare è Antonietta Berni, si era dedicata all’insegnamento dal 1930. Quando, nell’inverno 1943-1944, la guerra aveva investito con estrema violenza la zo­na appenninica suor Orsolina ebbe qualche esitazione; la sorella che abitava a Bologna, città natale della suora, le aveva scritto di abbandonare l’insegnamento, di tornare in città, e allora lei si consigliò con don Alfonso Brini, direttore della Congregazione, che le chiese di restare. Suor Orsolina ubbidí e venne cosí a trovarsi in una zona in cui la lotta partigiana diventò presto aspra e accanita.

La suora madre dell’ordine delle orsoline cosí descrisse al Cardinale di Bologna la situazione di Cerpiano:
"Fin dal gennaio 1944 in tutta la zona alta delle due parrocchie di S. Martino e di Casaglia comparvero i cosiddetti ribelli, i partigiani che via via andarono cre‑
scendo di numero alle dipendenze di Mario Musolesi, detto ‘Lupo’ comandante della brigata Stella Rossa.
Noi vedevamo passare questi giovani di lontano e di sera, perché in un primo tempo essi stessi evitavano di mostrarsi alla popolazione. Gradatamente le loro file sì ingrossavano ed in molte case cominciammo ad incontrare dei gruppi, perché si accampavano alla meglio nei fienili e nelle stalle. I contadini facevano loro da mangiare e si capi presto che la loro organizzazione andava perfezionandosi. Posso dire che i tre degni sa­cerdoti che venivano a celebrare la S. Messa nella no­stra cappellina di Cerpiano (e che furono tutti e tre bar­baramente trucidati dai tedeschi) si preoccuparono su­bito dell’assistenza di questi giovani, ben persuasi che fosse doveroso aiutarli e sostenerli in tutti i modi, mal­grado le minacce e le diffide che ognuno di essi andava ricevendo. Si parlava con insistenza di castighi e di rap­presaglie imminenti allo scadere del 25 maggio (estremo limite per la presentazione degli ‘sbandati’ al governo repubblicano fascista).

"Due dolorose e sanguinose scaramucce fra fascisti e partigiani a Gardelletta, rese note anche alla stampa, avevano acceso gli animi, già molto eccitati. I primi bom­bardamenti di Vado il 18-19 maggio avevano annullato la vita di questo centro; l’installazione di poderosi can­noni tedeschi antiaerei sul versante opposto (Monzuno) avvenuta il 16-27 maggio faceva presentire qualcosa di molto grave. Il 28 maggio, solennità di Pentecoste, fummo svegliati alle 5 del mattino da tremende canno­nate che per tre ore consecutive pareva dovessero buttar giú il nostro versante. Dovemmo rifugiarci tutti in cantina. Cessato il cannone cominciò il crepitio delle mitragliatrici e un correre di partigiani da un posto all’altro di vedetta: ci dissero che i tedeschi stavano tentando di salire da vari punti. Intanto numerose forma­zioni di bombardieri, arrivati all’improvviso in ausilio dei partigiani, bombardarono tutto intorno nei due versanti, rendendo ancor piú tragica la situazione, mentre da quattro parti i cannoni antiaerei tedeschi sparavano a tutto spiano: qualcosa di apocalittico!

" Verso mezzogiorno apprendemmo che i tedeschi erano stati respinti dai partigiani, malgrado la sproporzione di forze e di mezzi. L’angoscia della popolazione peraltro cresceva a dismisura, anche perché si vedevano a Villa d’Ignavo delle case che bruciavano.

‘Il venerdí 29 alle ore 5 del mattino la musica del cannone cominciò a deliziarci come nel giorno prece­dente; vennero a comunicarci in gran segreto che i partigiani la notte erano dovuti partire per concentrarsi a Grizzana e noi avemmo subito la sensazione di essere rimasti in balia dei tedeschi. Nel pomeriggio i piú stra­ni ordini portati dall’uno e dall’altro aumentarono le preoccupazioni. Non si sapeva piú che cosa fare: c’era chi pensava di andarsene e chi s’illudeva con ottimismo eccessivo.

"La cantina del Palazzo era diventata il rifugio di tutti e di tutto. In un vano si era fatto, con dei mate­rassi, un gran letto per mettere a dormire tutti i bimbi di Cerpiano (e allora non erano pochi) perché si diceva che il cannone la notte avrebbe buttato giú le case. Il martedí mattina alle 5 dopo una notte tribolata, ecco per qualche ora la solita musica del cannone; mentre si vedevano piú vicini e piú frequenti gli incendi alle case. Capimmo che stavano arrivando le SS perché vede­vamo i razzi incendiari con cui si facevano precedere e sentivamo sempre piú vicini i colpi di fucile mitragliato­re. Che fare? Colla buona maestra dell’asilo, suor Or­solina, dopo aver radunati davanti a Gesti Sacramentato nella cappella del Palazzo bimbi e adulti, decidemmo di raccogliere tutti i bambini nell’asilo come se fosse una giornata normale di scuola ed i genitori accanto a loro come per assisterli. Poco dopo infatti i soldati delle SS calandosi a precipizio dai monti con urla e colpi im­pressionanti, con l’aspetto di cani segugi alla ricerca di una preda, entrarono nel Palazzo proprio dall’uscio dell’asilo rimanendo un po’ interdetti di fronte a tanti bimbi.

"Ci fecero uscire tutti, esigendo sgarbatamente i do­cumenti, qualcuno entrò poi in casa per la perquisizio­ne, chiedendo insistentemente se avevamo armi e parti­giani nascosti. Dopo oltre un’ora di sosta, finalmente se ne andarono e noi credemmo di poter cantare il nostro Magnificat anche perché si era riusciti ad evita­re la perquisizione nelle case dei contadini di Cerpiano, ma ecco un’altra squadra ben piú numerosa di SS, an­cora piú sgarbati e piú duri, piombare in casa per un’al­tra perquisizione con urli e minacce, colpire con il fucile i mobili e le porte che non si aprivano. Partiti anche questi da Cerpiano, ci rendemmo conto che qualcosa del genere era stato fatto in tutte le case.

"I tedeschi rimasero per cinque giorni ripetendo le perquisizioni, bruciando ancora case e fienili, ma so­prattutto continuando la sistematica rapina del bestiame di ogni genere. Vedemmo poi nella valle attraversare la lunga colonna di animali preceduti e scortati dai fa­scisti repubblichini o dai tedeschi. Quando se ne anda­rono non mancarono di fare raccomandazioni e minac­ce per il caso previsto di un ritorno in quei luoghi dei partigiani.

"Ciò avvenne infatti nell’agosto successivo con un crescendo impressionante. La popolazione, peraltro, si riteneva sicura che i tedeschi non avrebbero osato af­frontare i partigiani, che parevano molto armati. Prova ne sia che molta popolazione di Gardelletta, Murazze, La Quercia e anche di Vado, Rioveggio, ecc., per sfug­gire ai continui bombardamenti, si era rifugiata lassú e tutte le case erano rigurgitanti di gente.

"Alla fine di settembre, non si sa con quale scusa di rappresaglia, si sparge sui monti la terribile notizia che è imminente il promesso rastrellamento. Il 29 settembre 1944, solennità di S. Michele Arcangelo, co­minciano infatti a salire da ogni parte le belve umane. Come mai hanno potuto penetrare nella zona? Resta Mi mistero. C’è chi parla di tradimento e di esatte informazioni fornite al nemico da un povero disgraziato che per qualche tempo era stato con i partigiani. Si diceva però che alle donne ed ai bambini non avrebbero fatto nulla di male, rimasti soli e senza difesa, facile predá di belve umane al servizio di criminali.

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"A Cerpiano quel tragico venerdí 29 settembre don Marchioni era atteso per celebrare la S. Messa nell’ora­torio dedicato all’Angelo Custode. Ma la paura piú folle aveva invaso tutti poiché i tedeschi stavano per arri­vare. Qualcuno aveva suggerito di nascondersi nel bo­sco, anzi il grosso della gente era già là; ma ecco che si dice essere imprudente lasciare una casa cosí grande abbandonata: ‘Ci verranno a cercare, ci crederanno tutti partigiani nascosti e ci uccideranno.’ Qualcuno resta, ma una cinquantina ritorna indietro seguendo il consi­glio di chi ha piú autorità, e rifugiandosi nella cantina del Palazzo dove abitualmente ci si riparava dalle can­nonate frequenti."

Era stata proprio suor Orsolina a proporre di rifu­giarsi in cantina perché temeva, fra l’altro, che i tede­schi incendiassero i piani superiori. Era una mattina piovosa e l’attesa fu presto rotta dall’arrivo dei tedeschi. tanti, infuriati. Il primo grosso gruppo che fu scorto era di soldati in assetto di guerra: mimetizzati, con l’elmo di ferro, carichi di bombe alle cintole e ai gambali degli stivali, armati di maschinen-pistole.

I tedeschi scoprirono subito le poche persone che si erano rifugiate in cantina, circa 50: venti bambini, ven­tisette donne, fra le quali due maestre, e due vecchi in­validi. Due tedeschi con l’arma puntata costrinsero tutti ad uscire dalla cantina e a salire al piano terra. Con modi rozzi e brutali, come per costringere in una certa direzione una mandria, sospinsero tutti nell’oratorio, vicino al Palazzo.

Era una stanza quasi nuda, grande cinque metri per cinque circa. Alle pareti bianco calce, erano appesi alcuni quadretti raffiguranti la via Crucis: nel mezzo di una parete c’era un piccolo altare dedicato all’Angelo Custode. Anche suor Orsolina era impressionata dalla veemenza dei tedeschi, dal loro aspetto minaccioso e, soprattutto, dalla evidente ostentazione delle armi. Ma non si voleva pensare al peggio. Credeva che li avrebbero chiusi in quella stanza per andare alla ricerca di parti­giani. C’era comunque una legge civile, universalmente accettata, che imponeva il rispetto delle popolazioni com­pletamente inermi.

Dopo pochi minuti i tedeschi riaprirono l’uscio ed apparvero nel riquadro della soglia. Suor Orsolina cosí racconta l’episodio:

"Mi accorsi che le armi erano impugnate con mag­gior tensione, con quella presa piú decisa che si intuisce preluda all’uso delle armi, e le bombe le tenevano in mano e non agli stivali. Compresi allora che i tedeschi volevano annientarci tutti, compiere una carneficina. Mi apparve in un baleno il pericolo della morte, ma per quanto mi riguardava nutrivo una serena fiducia. Mi era presente l’assicurazione, il viatico di don Brini, e ero convinta, sicura, che l’Arcangelo Gabriele mi avreb­be salvata. Invitai tutti a recitare l’atto di perdono al Signore. Era chiaro che dovevamo morire.

"Incominciarono gli spari, i lanci delle bombe, probabilmente bombe incendiarie perché subito si innalza­rono fiamme, schegge del muro, sangue che schizzava e poi grida di dolore.

"Mi sentii colpita ad un braccio e alla gamba. Fu­rono come due colpi, ma mi resi conto che erano feri­te. Forse per l’urto ricevuto, forse per lo stato psico­logico provocato da quello sbandamento generale, mi sentii mancare. Cademmo tutti e formammo un am­masso umano. Molti giacquero morti, altri terrorizzati continuavano a gridare.

"Era una bolgia spaventosa, fumo che si alzava, sangue che scorreva, urla che echeggiavano. Le grida quasi non avevano un suono umano. Quanto piú quella piccola folla terrorizzata urlava e si disperava, tanto più i tedeschi divennero feroci. Perciò continuarono a sparare all’impazzata senza distinguere i bersagli. Persone

già morte erano di nuovo colpite, altre, ancora in vita, restavano quasi incolumi.

" Poi i tedeschi cessarono d’infierire e si ritirarono nella stanza accanto. Allora, per quanto fossi bocconi e con un braccio sul capo, piú chiare mi apparvero le scene strazianti dei bambini aggrappati alle mamme morte, e di altre madri straziate dal dolore che invoca­vano il nome dei figli uccisi.

"Qualcuno incominciò a riprendersi ed a chiama­re i nomi cari. Le donne invocavano anche il mio no­me credendomi morta. Io chiedevo sottovoce di non essere nominata perché i tedeschi non capissero che ero viva. Anche in quel frangente ebbi sempre forte il de­siderio di sopravvivere e mi assisté sempre la speranza che l’Arcangelo mi avrebbe salvata. I sopravvissuti ge­mevano debolmente od erano in uno stato di prostra­zione e di spavento tale che non osavano muoversi. Io conservai chiaramente i sensi e potei rendermi conto della situazione.

"Una povera donna, Amelia Tossani, tentò di fug­gire ad ogni costo, aperta la porticina laterale che im­mette nella strada fu subito freddata da un tedesco di guardia e il suo corpo restò metà dentro e metà fuori. Il povero vecchio Pietro Oleandri sentendo una sua muc­ca muggire,e non potendone piú di stare in mezzo ai morti, fra i quali c’erano la sposa del suo unico figlio prigioniero in Germania e due nipotini, prese per ma­no un terzo nipotino superstite, di 5 anni, e fece per uscire: una raffica li freddò entrambi.

"Una signora di Bologna, Nina Fabbroni Fabbris, (la poco sfollata lassú rimase gravemente ferita e si la­mentò. ‘Sopportiamo, siamo tutti nelle stesse condizioni,’ mormorai io, cercando di farle capire che conveniva non richiamare l’attenzione dei tedeschi. Il tedesco di guar­dia, seccato da quell’urlare, entrò nella cappellina e con un colpo di fucile uccise la disgraziata fra il terrore dei superstiti un tedesco fece una sonora risata. Ricordo due bambini: Fernando Pírelli di 8 anni e Paola Rossi di 6. Questa, rizzandosi a sedere e contemplando il terrificante spettacolo esclamò, pensando di essere sola:

Tutti morti! La mia mamma! La mia zia! La cara maes­tra (Anita Serraò), la mia nonna! La nonna Giovanna! Il mio fratellino! Tutti morti!’ E Fernando: ‘Pao­la sei viva? Scappiamo? Non ci sono piú i tedeschi.’ Io riconoscevo la loro voce. La bambina aveva il corpo esa­nime della sua mamma sulle gambe e non poteva muo­versi. Allora il bimbo gliela tolse e poiché capi che la Paola non avrebbe potuto camminare se la caricò sulle spalle e si affacciò alla porta, ma i tedeschi erano sem­pre in agguato e i due bambini si ritrassero spaventati.

Affinché non attirassero l’attenzione dei tedeschi, li na­scosi sotto una coperta e raccomandai loro di fare i morti.

"Intanto nell’attigua stanza i carnefici gozzovigliavano: suonavano l’armonica come se fosse festa, man­giarono ciò che trovarono (per esempio centinaia di uova in calce), sparsero a terra tutto ciò che non pote­vano mangiare: grano, fagioli, lerciando ogni cosa. Carte, libri, documenti, tutto veniva buttato all’aria colla frenesia dei vandali. Trovammo, dopo, tegami nei quali avevano defecato.

"Da un grosso buco che avevano aperto nella porta, i tedeschi, sorvegliavano le vittime e sghignazzavano si­nistramente. La notte sopraggiungeva e ci colse in quelle condizioni. Malgrado fosse la fine di settembre in quell’ambiente chiuso si era sprigionato dai corpi un calore vaporoso e un odore insopportabile: gli escre­menti dei morti e dei vivi avevano sparso nell’ambiente un fetore indescrivibile. I vivi erano assetati ed assopiti in un torpore semincosciente, ma i tedeschi erano sem­pre in guardia, perciò nessuno che avesse voluto avreb­be potuto uscire. La piccola Teresa Piretti rimase tutta la notte accanto a me.

"Nel colmo della notte sentii uno strano pesticcio, e poi un sinistro masticare di bestie: i maiali randagi ed affamati rosicchiavano il capo della povera Amelia rimasta attraverso la porta. Un orrore impotente percorse i corpi di noi sopravvissuti. Sentivo colarmi gocce sul viso e non sapevo se erano lacrime o stille di sudore.

" Il mattino seguente verso le ore 10 i tedeschi di nuovo nella nostra stanza, ridotta ad una fossa sepolcra­le. Non vidi quanti erano, ma compresi che erano diver­si. ‘Tra venti minuti tutti kaput,’ gridò uno di loro in cattivo italiano.

"Intanto caricarono rumorosamente i fucili, presso l’altare. Ebbi ancora una volta la sensazione di trovar­mi vicino alla morte. Non avrei mai creduto che i te­deschi fossero capaci di tanta barbarie. Mi sembrava impossibile tanta ferocia in esseri umani. Poi pensai che i fini della Provvidenza sono imperscrutabili e pen­sai, con rassegnazione in uno stato di semincoscienza, a un ammonimento di Gesú: ‘Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi.’

"Passarono pochi minuti ed i tedeschi mantennero la promessa: spararono infuriati, mi parve anche col mitra, e gettarono altre bombe, facendo molto fracasso.
Sentii il sibilo dei proiettili che mi sfiorarono in molte parti, ma non mi colpirono e rimasi in terra immobile.
"Seguirono grida, lamenti, specialmente dei bambini che non sapevano reprimersi. Sentii chiaramente i lamenti di Olimpia Perini di 11 anni. Il cugino Fernando diceva: ‘Olimpia, non morire!’ Io perciò pensavo a raccomandarmi l’anima. Ed anche per gli altri pregavo.
"Convinti d’avere ucciso tutti, i tedeschi vennero fra i corpi pasticciandoli non curandosi del sangue che correva e cominciarono a togliere alle vittime gli oggetti preziosi: oro, borse, catenine. Io tenevo una borsetta con un po’ di denaro, i miei risparmi, che avevo ancora in braccio. Ero consapevole di averla e che una volta che fossero stati vicini i tedeschi l’avrebbero vista.
Difatti mi alzarono il braccio e me la tolsero, trattenni il respiro. Capii che era un’attimo decisivo. Il mio braccio era freddo dalla perdita di sangue e dalla immobilità. Mi ero completamente rilassata e lasciai ricadere, come morto, il braccio. Mi domandai se avevo gli orecchini, perché sarebbe stato un pericolo. I tedeschi toccandomi gli orecchi avrebbero capito che ero viva, ma per fortuna mi ricordai di non averli.

"Rimasi immobile, bocconi, con un braccio allunga­to ed uno quasi sopra la testa, per coprirmi, per tutto il tempo.

"Udii dei comandi secchi, poi silenzio. Capii che erano partiti. Sentii ancora dei bambini vivi parlare fra loro. Paola Rossi di 6 anni tentò di muoversi, ma non si reggeva sulle gambe e ricadde. Poi, dopo un lungo si­lenzio di ore fui scossa dalla voce, rotta dal pianto, di Franco Lamberti, un ventenne di Vado che fra i morti aveva riconosciuto la madre.

L’uomo mi riconobbe e mi aiutò ad alzarmi. Mi sorresse dandomi il braccio. Mi ò sembrato di ridestarmi da un brutto, terribile sogno. Ma non mi reggevo in pie­di. Da alcuni giorni non avevo mangiato, il sangue perduto mi aveva estremamente indebolita. Erano passa­te 33 ore. Lamberti non si stancava d’imprecare contro i tedeschi. Lo invitai a tacere perché avevo il terrore del loro ritorno."

Mentre a Cerpiano accadeva tutto ciò, il giorno 29 in tutta la borgata delle due parrocchie di S. Martino a Canaglia altri dolorosissimi episodi ed altri eccidi face­vano di quella zona la terra dei morti. A Caprara 55 persone, donne e bambini venivano radunate in una stanza e uccise con bombe a mano. Un bimbo ed una donna di Villa d’Ignavo buttatisi dalla finestra riusci­rono a salvarsi, ma gli altri perirono tutti. Qualcuno avrebbe potuto salvarsi, ma la ferocia tedesca ha le sue raffinatezze: venne dato fuoco allo stabile, sicché tutti i poveretti vennero bruciati.

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Un episodio: fra questi si erano pure salvati, but­tandosi dalla finestra, Vittorina Venturi di Caprara colla mamma Costanza che aveva in braccio la nipotina di tre anni (mentre le altre tre sorelle e la mamma del­la piccina avevano trovato la morte in quella stanza ed una quarta sorella riuscita a scappare in quel giorno era morta dopo due mesi di atroci sofferenze al Cason­cello). Vittorina, fuggita a S. Martino, fu ripresa lo stesso giorno dai tedeschi e trucidata; la mamma colla piccina dopo pochi giorni trovava la morte con una cannonata a Caprara di Sotto. Il capo di casa Venturi, Gaetano, dopo aver in tal modo perduta la moglie, le quattro figliole, la nuora e la nipotina, ha avuto in questi giorni lo strazio di ritrovare in due diversi luoghi di S. Martino i cadaveri ancora non sepolti dei due figlioli che nel settembre erano stati rastrellati dai tedeschi: morti di fame e entrambi senza un piede.

A S. Martino di Caprara in chiesa nello stesso gior­no, 29 settembre, si erano rifugiate parecchie persone piangenti e terrorizzate. I tedeschi le fecero uscire e le assassinarono presso la casa del contadino e bruciarono quella massa informe di 52 cadaveri (forse anche qual­che ferito) dopo averli cosparsi di benzina. Particola­re straziante: qualche uomo, parente delle vittime, fu obbligato a presenziare alla macabra scena. Fra questi il padre di don Marchioni ha visti uccidere la moglie e la figliola. La famiglia Lorenzini ebbe cosí 15 morti, e la famiglia Luccarini 8 (la madre e sette figlioli).

Ai Pornarini 14 persone furono tolte dal rifugio e trucidate in casa.

Alla Staccola altri morti, fra i quali il vecchio Alfonso Tiviroli di 82 anni. Una nipotina di 10 anni, Gina, fintasi morta, per ben 3 giorni vagò sola sotto la pioggia senza mangiare: fu rintracciata dal padre sfinita.
A S. Giovanni ben 50 vittime trucidate in un rifugio. Fra essi la numerosa famiglia Fiori: una figlia, suor Maria delle Maestre Pie di Bologna, che in quell’epoca era a casa coi suoi cari, ha trovato con loro la piú orribile delle morti. La nipotina di suor Maria di 6 anni era rimasta viva. Per tre giorni era stata aggrap­pata al collo della mamma morta, chiamandola, bacian­dola e piangendo. Il babbo, unico superstite, la trovò morta di fame e di sfinimento.

Ai Casoni altre 18 persone morte.

Ma le peripezie di suor Orsolina non erano finite. Un gruppo di superstiti era rifugiato ancora nella cantina del Palazzo di Cerpiano, ormai in piena rovina e tutto devastato. Senza mangiare, senza medicinali e senza gar­ze per fasciare le ferite, dovette cercare di lenire il do­lore e prevenire l’infezione con l’orina per quattro giorni.

Il 5 ottobre i tedeschi ritornarono e ripresero i prigionieri per costringerli a compiere certi lavori. I tedeschi si erano sistemati nelle camere superiori, ma poi, quando cominciarono i cannoneggiamenti, scesero in cantina. Per alcune notti i tedeschi entrarono nei na­scondigli dei disgraziati superstiti per cercare le "Signo­rine." Orsolina e Lidia’ seppero nascondersi fra i mo­bili e con stracci addosso e intorno al capo per non far trapelare che erano giovani. Si sentivano soffocare e po­tevano udire le grida delle altre ragazze che i tedeschi costringevano a salire nelle camere. Poi i tedeschi inti­marono ai contadini di seppellire tutti quei morti, "che erano stati uccisi dai partigiani."

Fu fatta una fossa unica nell’orto dell’asilo dove abi­tualmente giocavano i ragazzi.

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