L’Opera dei Gappisti Fiorentini IV°

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Bruno Fanciullacci

La vita e la sorte di Bruno Fanciullacci, possono invece ben rappresentare l’atteggiamento assunto di fronte al fenomeno fascista, da parte di quella generazione, che, nata nel decennio 1918-1928, trascorse la propria giovinezza nel periodo in cui il fascismo giungeva all’apogeo della sua potenza. L’opposizione al regime prese essenzialmente le mosse o da un substrato culturale, che permetteva una rigorosa critica dell’ideologia e della prassi di governo fascista, come fu per la maggior parte di coloro che in seguito si iscrissero al Partito d’Azione; oppure traeva origine da una tradizione familiare e ambientale di antifascismo, ravvivata e sviluppata dalla pesante oppressione del regime sul proletariato agricolo e industriale, come prevalentemente si verificò nella classe operaia.
Bruno Fanciullacci nacque a Pieve a Níevole, in provincia di Pistoia, il 13 novembre 1919, da Raffaello e Rosa Michelini. Malgrado le pressioni dei fascisti locali nessuno dei Fancíullacci si iscrisse al fascio e la famiglia dovette subire un boicottaggio sempre più spietato fino a quando la situazione divenne insostenibile. Così i Fanciullacci nel 1934 decisero di trasferirsi a Firenze, sperando di trovarvi una sistemazione. Nel frattempo Bruno aveva frequentato le scuole elementari e, crescendo, aveva cominciato a -partecipare alle preoccupazioni della famiglia e ad avversare la maggior causa delle angustie e delle difficoltà familiari, il fascismo.
A Firenze, però, le avversità dei Fanciullacci anziché appianarsi, aumentarono poiché per lavorare occorreva la cittadinanza fiorentina, per ottenere la quale erano necessari sei mesi di residenza, che trascorsero tra gravi privazioni e avvilimenti, avendo la famiglia di Bruno limitate risorse economiche. Tutto ciò contribuì non poco ad inasprire i sentimenti antifascisti del ragazzo, che trovò lavoro come garzone da un lattaio ed in seguito, nel 1937, riuscì ad avere un posto di lift all’albergo Cavour.
Nell’autunno del 1937 si era formato a Firenze, per opera di Danilo Masi, un nucleo antifascista, sviluppatosi ben presto nell’ambiente operaio e di cui fecero parte fin dall’inizio Cesare Massai e Danilo Dolfi (18).
Questa piccola _organizzazione, malgrado l’inesperienza cospirativa dei suoi componenti e la vigilanza della polizia, riuscì a svolgere una notevole attività, effettuando lanci e distribuzione di manifestini antifascisti, provvedendo a comporre e diffondere un giornaletto dattiloscritto, « Il Notiziario Settimanale della Giovane Italia », attaccando nelle vie centrali e nei locali pubblici della città, francobolli con stampigliato l’emblema della falce, del martello e del libro, con la scritta: « Viva la Libertà ».
Malgrado questo timbro, l’indirizzo -politico del gruppo era di un antifascismo generico, di ispirazione, prevalentemente mazziniana. Infatti solo una minoranza dei componenti del nucleo aveva dei contatti con gli emissari del partito comunista e cercava di influenzare l’organizzazione, indirizzandone l’azione e orientandone l’evoluzione ideologica.
L’attività del gruppo svolta per lo più nei rioni popolari di S. Frediano, S. Spirito e Monticelli, fu ben presto nota alla polizia, la quale, nonostante tutte le indagini, inizialmente non riuscì a individuare i componenti dell’organizzazione clandestina, perché tutti incensurati, tanto che si giunse a sostituire uno dei funzionari dell’ufficio politico della Questura di Firenze. Colui che lo sostituì riuscì a infiltrare nel gruppo fiorentino una spia, che dopo essersi messa in contatto col Masi, lo segnalò alla polizia; in tal modo i responsabili e gli aderenti all’organizzazione caddero nella rete.
Fanciullacci era entrato ben presto in contatto col gruppo clandestino, poiché di questo facevano parte, fin dagli inizi, un suo compagno di lavoro all’albergò Cavour, Giuseppe Gemmi, e un suo amico di famiglia, Valdesi.
Il venire a conoscenza dell’esistenza di un centro di lotta antifascista ed il desiderare di entrarne a far parte devono aver costituito un moto unico e subitaneo nell’animo esacerbato di Bruno, che compiva così quella scelta che lo avrebbe condotto alla morte.
Entrato nella cospirazione senza far sapere niente alla famiglia, eccettuate alcune velate allusioni ad una sorella, Fanciullacci divenne uno degli elementi più attivi e quindi dovette essere uno fra i primi ad essere individuato dalla polizia, che lo arrestò, con la. prima retata, il 12 luglio 1938 e lo deferì al Tribunale Speciale assieme ad altri novantasei imputati.

Il Tribunale Speciale discusse la causa il 27 Aprile 1939 e condannò Fanciullacci, ad « anni due e mesi sei di reclusione, per il reato di cui all’art. 270 capo. II, C.P.; anni quattro e mesi sei di reclusione per il reato di cui all’art. 272 p.p., C.P., avendolo riconosciuto colpevole di aver svolto notevole attività propagandistica, di aver contribuito con altri alle spese per l’acquisto del carattere di gomma per la stampa dei manifestini sovversivi. Il Fanciullacci poi — continua la sentenza del Tribunale Speciale * il 29 ottobre 1938-XVI, in occasione della celebrazione della giornata di solidarietà con la Spagna Nazionale, organizzò una vasta azione di propaganda sovversiva, mediante il lancio per le strade, negli androni e nelle case dei seminterrati di Firenze, di una larga quantità di manifestini sovversivi ».

La sentenza del Tribunale Speciale — cortesemente concessa in visione da Cesare Massai, arrestato e processato assieme a Fanciullacci —è evidentemente errata riguardo all’ultima accusa mossa a Bruno, poiché questi, essendo detenuto dal luglio del 1938, non poteva aver compiuto l’azione imputatagli. Si può pensare che si tratti di un errore di trascrizione della data, riguardante l’anno, che dovrebbe essere il 1937 anziché il 1938; ma nell’ottobre del 1937 il gruppo del Masi era alla prima fase di organizzazione ed era ancora lontano dall’efficienza e dalla consistenza numerica del dicembre ’37, quando fu effettuato il primo lancio di manifestini in S. Spirito e S. Frediano (19).
Una soluzione possibile di questo punto controverso che non si è potuto chiarire data l’estrema difficoltà di reperire le informazioni necessarie, soprattutto a causa della morte di coloro che sarebbero stati in grado di darle — potrebbe essere che Fanciullacci, quando entrò a far parte del gruppo del Masi, fosse già stato in contatto col nucleo comunista di Faliero Pucci, che era caduto nelle maglie della polizia, agli inizi di quello stesso anno, il 1937, ed avesse potuto evitare l’arresto poiché nessuno degli arrestati aveva fatto il suo nome. In tal modo il lancio di manifestini, imputato a Fanciullacci, potrebbe essere considerato come un gesto di quest’ultimo, mirante a mostrare ai fascisti che l’opposizione al regime era ancora viva, malgrado la condanna inflitta dal tribunale Speciale a parte del gruppo di Pucci il 16 Ottobre 1937. Fanciullacci fu inviato a scontare la pena nella sezione giovani del carcere di Castelfranco Emilia, assieme ad alcuni dei suoi compagni di processo. Non devono essergli mancati i momenti di scoramento, data la giovinezza e l’imperfetta preparazione politica; -malgrado ciò non mancò di dar prova della sua generosità e onestà verso i compagni di prigionia, come quando dichiarò di essere il proprietario di un libro vietato ai carcerati, « L’armata a cavallo » di Babel (20), rinvenuto nella prigione, ricevendo due mesi di carcere di rigore; infatti egli stava cercando di colmare, come tutti i detenuti politici, le proprie lacune di cultura, soprattutto politica, mediante lo studio e le discussioni con i compagni, che conoscevano più a fondo l’ideologia comunista.
In questo periodo, a seguito della nascita della Principessa Maria Gabriella di Savoia, fu concessa ai detenuti politici una amnistia di due anni, di cui anche Bruno poté beneficiare..
Nel 1942, a seguito della richiesta presentata dalla famiglia al Ministero di Grazia e Giustizia, Fanciullacci fu trasferito al carcere di Saluzzo, in provincia di Cuneo per terminarvi la pena, poiché il clima di Castelfranco non si confaceva alla sua salute, indebolita dalla detenzione. Lasciava la prigione agli inizi dell’estate del 1943 e veniva posto in libertà il 15 luglio, dieci giorni prima della caduta di Mussolini.

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Elio Chianesi

Elio Chianesi occupa un posta importante nella Resistenza fiorentina e la sua figura è una delle più belle. Chi lo conobbe ne ricorda, soprattutto, la bontà, la modestia, l’onestà, la bonaria allegria, il grande attaccamento alla famiglia, la profonda umanità, insomma. Quella stessa umanità che gli fruttò il soprannome di « Babbo » da parte dei compagni e che lo spinse, poco dopo essere uscito dal carcere, ad entrare in una organizzazione della Resistenza fra le più esposte alla reazione nazifascista, guidato dalla convinzione di affrettare in tal modo il sorgere di una società impostata sulla libertà e l’uguaglianza.
Anche Elio Chianesi, come Fanciullacci, proveniva da una modesta famiglia di operai; nacque a Firenze il 16 febbraio 1910, da Andrea e Fornarina Campioni, che abitavano in un quartiere del popolare rione di S. croce, ove il ragazzo trascorse l’infanzia e la giovinezza. Il sorgere del fascismo gettò un’ombra dolorosa sui Chianesi: uno zio materno di Elio fu ucciso dai fascisti in un bar, perché fervente socialista, alla presenza della moglie, che attendeva un bambino. Questo assassinio sviluppò ulteriormente nella famiglia Chianesi quell’avversione al fascismo, che mai venne meno e che si manifestò, dopo che Mussolini si assicurò definitivamente il potere, nell’unico modo allora possibile: la iscrizione al P.N.F.
La giovinezza di Elio trascorse senza gravi scosse, ché, se le difficoltà della vita quotidiana contribuirono a mantenere viva e ad accentuare la sua ostilità al regime, il suo bonario ottimismo gli impedì sempre di crucciarsi eccessivamente per i problemi suscitati dalla troppo frequente mancanza di lavoro, dovuta al boicottaggio fascista condotto spietatamente contro coloro che non avevano la tessera del partito fascista, cui cercò di rimediare arrangiandosi in cento mestieri, oltre al suo, di meccanico. La serena fiducia di Elio nell’avvenire gli permise anche di formarsi una famiglia, sposando colei che aveva conosciuto e amato fin da ragazzo, malgrado la mancanza di quella tranquillità che gli avrebbe potuto dare un lavoro regolare. Tornato ad abitare con la famiglia al numero 7 di via Fra’ Bartolommeo, ben presto si fece benvolere dal vicinato per la sua serietà e la sua laboriosità, così che completamente senza lavoro non si trovò mai e poté sempre assicurare il necessario alla moglie ed alle tre bambine, che presto gli nacquero e che egli adorava. Finalmente nel 1940 riesce, ad entrare alla FIAT di Firenze, come meccanico attrezzista, dopo essersi classificato fra i primi cinque di tutti coloro che erano stati sottoposti alla prova di lavoro.
Poco dopo la sua assunzione alla FIAT, il Chianesi’conobbe Otello Berti, un compagno di lavoro, il quale faceva parte di un’organizzazione che si era venuta formando per l’impulso di alcuni comunisti da poco usciti dal carcere, dove avevano scontato le condanne inflitte loro dal Tribunale Speciale. La profonda avversione al fascismo, inasprita dalle preoccupazioni per la famiglia destate dalla guerra, spinsero Elio a aderire prontamente all’organizzazione clandestina, di cui il Berti era membro, rivelandosi subito un elemento prezioso sia perché con la sua calda cordialità riusciva a conquistarsi l’amicizia di tutti, sia perché, essendo addetto all’attrezzatura, poteva girare più liberamente per l’officina con la scusa di riparazioni da effettuare alle macchine e, quindi, svolgere più facilmente in un primo tempo un’opera di propaganda, poi mansioni di collegamento fra le cellule costituitesi nei vari reparti.
Al fine di poter mascherare meglio l’attività degli aderenti, che, grazie al diffuso scontento popolare per la politica del regime, cominciavano a costituire un nucleo piuttosto consistente, con diramazioni per tutta Firenze e circondario, il direttivo del gruppo dispose nella seconda metà del 1940 che tutti i membri che non erano iscritti al P.N.F. approfittassero di una riapertura delle iscrizioni, avvenuta in quel periodo, per
prendere la tessera del fascio; anche Elio, sebbene a malincuore, obbedì alle disposizioni (21).
Nella seconda metà del 1941 l’organizzazione si era notevolmente accresciuta ed il suo direttivo, posto davanti all’esigenza di sviluppare ulteriormente la propaganda per legare più larghe masse alla lotta contro il regime e la guerra, decise di modificare la struttura del gruppo; infatti fino a quel momento i contatti erano avvenuti sempre fra le stesse due persone, cioè con il sistema detto « a filo »; ma se questa impostazione presentava maggior sicurezza dal punto di vista cospirativo, da quello della propaganda era troppo lenta. Il problema fu risolto organizzando il gruppo in cellule di fabbrica e di strada, assetto che permetteva una diffusione delle notizie quasi contemporanea nelle varie parti della città, anche se era più facile che il gruppo crollasse completamente in caso di arresto.
Voci sull’esistenza ed il facile diffondersi di questa rete clandestina, giunsero presto alle orecchie dell’ufficio politico della Questura, ma data l’entità del gruppo, ritenuta, a ragione, notevole, fu investito dell’indagine l’Ispettorato Generale di P.S., che ricorse al tradizionale sistema di far infiltrare nell’organizzazione una spia per individuare i dirigenti e le fila. Disgraziatamente l’agente provocatore riuscì a prendere contatto con un capo settore; la polizia, seguendo quest’ultimo, poté individuare il direttivo del gruppo e catturarlo al completo; ma, benché le indagini e gli interrogatori si prolungassero per più di un mese, solo una minima parte dell’organizzazione crollò, grazie al comportamento della maggior parte di coloro che erano stati presi.
Elio venne arrestato nell’Aprile 1942 in officina e, come tutti i suoi compagni, lungamente interrogato. Al termine dell’istruttoria fu deferito al Tribunale Speciale, perché imputato del delitto contemplato nel secondo capoverso dell’art. 270 C.P., cioè partecipazione ad un’associazione sovversiva; dei delitti previsti dagli art. 265 e 272 C.P., cioè svolgimento di attività contraria agli interessi nazionali, concorrendo in particolare, direttamente o indirettamente, alla compilazione, alla stampa e alla diffusione di un manifestino diretto allo scopo, e svolgimento di propaganda per la instaurazione della dittatura comunista.
In attesa del processo venne inviato al carcere delle Murate, ove rimase fino a quando non fu inviato a Roma per il dibattito processuale. Per tutto questo tempo ciò che maggiormente preoccupò il Chianesi fu non tanto il processo, quanto le condizioni della sua famiglia e, particolarmente, delle bambine. Non potendo fare altro, cercava di mantenere sereni i suoi cari, inviando loro, con la corrispondenza, delle strofette, che la moglie conserva ancora, di sua composizione, con le quali metteva in burla la sua vita di carcerato.
Il 17 Novembre 1942 il Tribunale Speciale emise la sentenza: Elio fu condannato a 12 anni di carcere, malgrado la difesa di un avvocato, che aveva chiesto ben duemila lire per patrocinare la causa e che cinque giorni dopo la sentenza telegrafò alla signora Chianesi: « Vostro marito avuto due (sic) anni ».
Il Chianesi fu inviato a scontare la pena a Castelfranco Emilia e subito si dedicò allo studio con tale intensità e assiduità da far temere per la sua salute, tanto che fu richiamato più volte dai dirigenti del « collettivo », l’organizzazione comunista che esisteva semiclandestinamente in tutte le carceri italiane. Talé organizzazione aveva il compito di impedire la dispersione e il cedimento morale dei comunisti condannati ed, anzi, di rafforzarla e approfondirne l’educazione politica, oltre ad aiutarli a sopportare meglio i disagi materiali della detenzione, mediante la costituzione di un fondo comune, cui affluiva tutto quanto inviavano i parenti dei detenuti; col quale si provvedeva ad aiutare tutti i compagni in modo uguale.
La vita del carcerato non doveva, però, durare a lungo per il Chianesi e i suoi compagni di cospirazione: il 25 luglio suscitò un’ondata di gioia, aprendo le prospettive di una imminente liberazione, con tutte le conseguenze che essa comportava: tornare ad abbracciare i propri cari, riprendere e concludere la lotta, essere di nuovo padroni di se stessi. Ma, quasi contemporaneamente alla notizia della caduta di Mussolini, giunsero alle orecchie dei dirigenti del « collettivo » voci di rappresaglie progettate dai fascisti.
Non essendo ben chiaro di cosa si trattasse e prevedendo il peggio, il direttivo emanò l’ordine che tutti si rifiutassero di scendere in cortile al momento dell’« aria ». Il 27 luglio i detenuti seitirono un confuso rumorio fuori del carcere; postisi in ascolto, compresero che era la popolazione che dimostrava per la loro liberazione e allora, non potendo fare altro, si misero tutti a cantare in coro.
Improvvisamente si udirono scendere i detenuti di un camerone, poi quelli di un altro; una terza camerata fu invitata arecarsi in cortile perché il direttore voleva parlare coi prigionieri: dopo un primo rifiuto, pensando a un contrordine del direttivo che forse non era loro giunto, gli appartenenti alla camerata decisero di uscire, ma quando furono per le scale e si videro circondare da guardie armate, che presero a spingerli verso i sotterranei del carcere, si misero a gridare per avvertire quelli che erano ancora chiusi nelle camerate.
Questi ultimi, al sentire il fracasso e le grida dei compagni, afferrarono le brande di ferro e presero a usarle come arieti contro le porte dei cameroni, riuscendo a sconficcarne i cardini dal muro. Le guardie, che nel frattempo erano riuscite a condurre i detenuti usciti dalle camerate nei sotterranei ed a porli, tre per tre, nelle celle di punizione, sentendo ripercuotersi per i corridoi del carcere i colpi che i prigionieri vibravano contro le porte ed il frastuono di alcune di queste, che cadevano divelte, risalirono in fretta e bloccarono alle due estremità il corridoio del reparto politici, chiudendo i cancelli e disponendosi a sparare. Nel frattempo quelli che erano stati chiusi nei sotterranei riuscirono a liberarsi e risalirono di corsa per portare aiuto ai compagni dei camerini. Trovata la strada sbarrata da un cancello chiuso, uscirono nel cortile per aggirare l’ostacolo, ma qui trovarono schierata e pronta a far fuoco una compagnia dell’esercito, giunta in aiuto delle guardie di custodia.
Per fortuna i detenuti riuscirono prima a parlamentare con l’ufficiale comandante, poi ad esporgli l’avvenuto ed i loro timori per la sorte di coloro che erano ancora chiusi nel reparto.
Recatisi, con l’ufficiale, nel carcere, giunsero in tempo per assistere all’intervento del direttore della prigione, che apparve sul luogo dello scontro solo all’ultimo momento riuscendo ad evitare una , e successive inutili discussioni
Le successive trattative fra il direttore del carcere e il direttivo comunista, stabilirono che sarebbero state affrettate il più possibile le pratiche di scarcerazione; che sarebbero state allontanate dalla sezione politici alcune guardie carcerarie, che si erano dimostrate particolarmente ostili ai detenuti della sezione; di far presidiare quest’ultima da picchetti dell’esercito, contro eventuali ulteriori tentativi dei fascisti.
Per evitare, poi, di offrire pretesti ad azioni repressive, che non si poteva prevedere fin dove sarebbero giunte, a sventare le brutte sorprese possibili, il direttivo ordinò ai prigionieri di rispettare rigorosamente il regolamento carcerario; di non approfittare, in nessun modo e per nessun motivo, della mancanza o dello stato di deterioramento delle porte delle celle; di organizzare un turno di vigilanza notturna. Così la vita riprese regolarmente: da un lato erano i detenuti, che rispettavano il regolamento e curavano i compagni che si erano feriti durante la sommossa, fra cui era anche il Chianesí, che aveva avuto un dito rovinato mentre tentava di abbattere la porta dia sua camerata; dall’altro la direzione, che provvedeva a riparare i danni dello scontro. Ma questa tranquillità era solo apparente: tutti aspettavano con ansia il momento della liberazione ed il ritardo, incomprensibile, era fonte di tensione e nervosismo. Dopo la metà d’agosto, vedendo che di scarcerazione non se ne parlava neanche, il direttivo, sapendo che i fonogrammi di « via libera » per la liberazione erano già arrivati dalle varie Questure, dispose che venisse effettuata una nuova agitazione e finalmente la direzione cominciò a dimettere i detenuti (22).
Appena rilasciato, Elio si precipitò a casa, ove, da quasi un mese, era atteso di momento in momento e il suo ritorno aperse per la sua famiglia una parentesi di gioia, che, purtroppo, non doveva durare a lungo.

L’intensa attività gappista agli inizi del ’44

L’organizzazione gappista in Firenze ebbe i suoi elementi di punta in questi tre uomini, di cui abbiamo cercato di ricostruire la vita fino al momento dell’inizio della lotta di liberazione.
In un primo tempo la soluzione del complesso problema, cui lavorò attivamente il Sinigaglia, non fu immediata, né totale. L’organizzazione gappista si andò completando e perfezionando con l’inizio ed il susseguirsi delle azioni, come gli appartenenti ai GAP si formarono e addestrarono a quel particolare tipo di guerriglia, praticandola. I servizi ausiliari furono affidati ad elementi sicuri, fra cui alcune donne provenienti dall’organizzazione clandestina di città del P.C., non ancora organizzata in SAP,’ sebbene già esistesse una prima struttura di quest’ultime. Le donne, potendo circolare più liberamente degli uomini, ricopersero un ruolo importantissimo nella lotta gappista: furono loro compiti far la posta ai gerarchi, curare il trasporto delle armi sui luoghi delle azioni, tenere i collegamenti col centro e provvedere al rifornimento degli esplosivi, che esse andavano a prelevare in bicicletta fuori Firenze e trasportavano in città sotto gli occhi dei fascisti, celandoli nelle sporte sotto poche verdure, che specie nei primi tempi, servivano ai gappisti per mettere insieme il desinare con la cena (23).
Nel corso di questo primo sommario assestamento della struttura dei GAP, la cui direzione era stata affidata a Massai ed a Fanciullacci, si era superata la prima decade di gennaio e fu deciso di riprendere quanto prima l’attività, sebbene gli uomini fossero ancora pochissimi; infatti il 14 gennaio mentre Fanciullacci, travestito da fascista, deponeva, pochi minuti prima delle diciannove, una bomba nell’atrio della Federazione Fascista in via dei Servi, altri gappisti ponevano ordigni esplosivi al Comando Tedesco di Piazza Stazione, in un albergo in Piazza Indipendenza, occupato dai tedeschi, all’albergo Excelsior e all’albergo Arno, sede della Gestapo.
Alle diciannove tutte le bombe esplosero e i nazifascisti, che nel mese e mezzo intercorso senza incidenti dall’uccisione del colonnello Gobbi avevano cominciato a respirare più tranquillamente, precipitarono di nuovo in preda all’orgasmo: il giorno dopo il coprifuoco venne anticipato e fu proibito l’uso delle biciclette, che non dovevano essere condotte neanche a mano, dalle 17,30 al termine del coprifuoco (24); su « La Nazione » del 17 gennaio apparve un corsivo, intitolato « I cauti bombisti », che giustificava i provvedimenti tedeschi ed invitava larvatamente la cittadinanza a non proteggere i gappisti.

Qualche giorno dopo il Fanciullacci ed un altro gappista attaccarono nei pressi della sua abitazione il capitano Averardo Mazzoli, che la voce popolare indicava come l’autista degli assassini di Matteotti (25), e che aveva ripreso la sua attività dopo l’8 settembre; ma la vigilanza del Mazzoli, causata da un precedente attentato, fallito per il passaggio di un carretto carico di legname, permise al capitano di salvarsi.
Lo stesso giorno entra in azione un GAP, che si era formato a Varlungo, il quale interrompe in tre punti la ferrovia Firenze-Roma. Tale linea ferroviaria fu in seguito interrotta ripetutamente, talvolta per periodi lunghissimi, sempre dal medesimo GAP.
Il 21 gennaio due tedeschi che uscivano da una casa di tolleranza in via delle Terme, rimasero feriti dall’esplosione di una bomba.
Il 26 le autorità italo-tedesche spostarono alle 23 il coprifuoco e limitarono alla durata di questo la proibizione di circolare in bicicletta, minacciando sanzioni più gravi di quelle appena abolite se i fatti del 14 gennaio si fossero ripetuti. Tuttavia queste minacce non rallentarono l’attività dei GAP; il 27, rientrando in bicicletta da un sopraluogo fatto allo scopo di controllare le possibilità di un attacco al tram di Scandicci — che a tarda sera era carico di fascisti, acquartierati nelle caserme di quel luogo, i quali rientravano dalla libera uscita — Fanciullacci e un compagno giustiziarono la sentinella fascista del Ponte alla Vittoria (26).
Il 31 un GAP, di cui faceva parte una donna, fece esplodere una bomba al teatro della Pergola, gremito di fascisti, dove l’avv. Meschiari, capo del Fascio fiorentino, teneva un comizio; in questo stesso periodo Sinigaglia si recò temerariamente a Signa con una macchina a prelevare l’esplosivo necessario alla fabbricazione delle bombe e al ritorno forzò il posto di blocco del Ponte alla Vittoria, sorprendendo i militi di guardia con una brusca accelerata dell’auto (27).
Davanti a tutta questa attività compiuta da elementi non facilmente identificabili, i fascisti non potevano ricorrere che a misure « preventive », che per la loro drasticità aggravavano il malumore della cittadinanza: a seguito dell’uccisione della sentinella del Ponte alla Vittoria — che secondo la stampa pare sia avvenuta il 3 febbraio — era proibita di nuovo la circolazione in bicicletta. Ma i divieti e le minacce fasciste non costituirono una remora all’attività dei gappisti.
Nella notte del 5 febbraio un GAP di cui facevano parte Fanciullacci e Massai, si appostò nelle vicinanze del Casino dei Borghesi per attendere l’uscita del console generale Onorio Onori, che era stato uno dei vice comandanti della squadra fascista « La Disperata », la quale nel ’21 ebbe a godere a Firenze di una ben trista notorietà.
Questi era solito passare la serata in quel circolo, ma quella sera l’attesa fu inutile perché il console non uscì ed il GAP decise di compiere un’azione volante per non rientrare senza aver compiuto, anche quel giorno, un’azione armata contro il nemico, che testimoniasse a quest’ultimo e alla popolazione l’impegno e la combattività della Resistenza fiorentina.
Il gruppo si diresse verso Piazza Donatello dove incrociò una pattuglia di ronda, che salutò disciplinatamente Fanciullacci e i suoi compagni, tutti in divisa di militi e graduati della GNR. Appena la pattuglia fu passata, il GAP aperse il fuoco: due fascisti caddero subito, gli altri risposero al’ fuoco; il GAP non poté sostenere lo scontro perché i due mitra, di cui erano muniti due gappisti, si incepparono quasi subito, costringendo questi ultimi a ritirarsi per non subire perdite (28).
La proibizione della circolazione in bicicletta, in quel momento quasi unico mezzo di locomozione personale, non poteva protrarsi troppo a lungo senza che i fascisti corressero il rischio di vedere il già vivo risentimento della popolazione tramutarsi in aperta ostilità. D’altro canto i gappisti erano all’attacco in tutte le città d’Italia ed usavano le biciclette per sfuggire alla reazione nemica, così il Ministro dell’Interno emanò la seguente disposizione, riportata da « La Nazione » dell’8 febbraio: « Per disposizione del Ministro dell’Interno, e fino a nuovo ordine, qualunque ciclista o pedone sorpreso a circolare nel territorio della Provincia in possesso di armi da fuoco senza regolare autorizzazione delle Autorità competenti, sarà immediatamente passato per le armi sul posto ».

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L’uccisione di Alessandro Sinigaglia

A Firenze intanto aveva cominciato a divenire tristemente famoso il nome di Mario Carità, comandante dell’ufficio politico della 92° Legione, che lavorava a stretto contatto con le SS tedesche, circondato da uomini della peggior risma, fra i quali si distinguevano per il loro accanimento nella persecuzione degli antifascisti, Natale Cardini, Valerio Menichetti, Luciano Sestini e Arnolfo Natali, nominati, con triste ironia, « I Quattro Santi ».
L’8 febbraio l’organizzazione gappista dovette registrare una dolorosa e pericolosa perdita: nel tentativo di far esplodere una bomba al caffè Paskowski, frequentato dagli ufficiali tedeschi, vennero sorpresi i gappisti Antonio Ignesti e Tosca Bucarelli; mentre il primo riuscì ad eclissarsi, la seconda fu catturata e consegnata agli uomini di Carità, il quale così potè meritarsi la promozione a « senior » della GNR (29).
Ma l’arresto della Bucarelli non pose in crisi né rallentò l’attività gappista, perché, malgrado la ferocia degli interrogatori, la donna non parlò e l’organizzazione non ebbe alcun danno. Poté così proseguire lo stillicidio delle azioni che colpirono, quasi giornalmente e nei luoghi più esposti, il nemico, diffondendo nelle sue file, allarme e paura.

Agli ultimi di gennaio o ai primi di febbraio al Cardini ed al Menichetti fu affidato il preciso incarico di ricercare il Sinigaglia, che negli ambienti fascisti era ritenuto uno dei maggiori capi del comunismo toscano (30).
Il Sinigaglia aveva commesso l’imprudenza, malgrado i ripetuti avvertimenti dei compagni, di recarsi più volte a mangiare in una trattoria di via Matteo Palmieri, cioè in una zona dove era assai conosciuto e la sua presenza venne probabilmente notata e segnalata al vicino gruppo fascista « Dante Rossi ».
Nel pomeriggio del 12 febbraio, di ritorno da Pisa, dove si era recato per controllare l’organizzazione della Resistenza nel pisano, Sinigaglia sostò a Empoli, presso un compagno conosciuto in Spagna, Pietro Lari, col quale poi si diresse in bicicletta verso Firenze, dove giunse nella tarda serata e, sempre assieme al Lari, si recò ancora una volta nella trattoria di via Matteo Palmieri (31).
Questa volta, però, la sua imprudenza doveva essere fatale a lui ed al suo compagno; infatti, poco dopo entravano nella trattoria il Cardini, con la moglie, ed il Menichetti, con la sua amante, certa Silvana Ravicioli, sorella di un altro appartenente alla banda Carità. Non è stato possibile stabilire se i due « santi »• giunsero a seguito di una precisa chiamata o se si recassero alla trattoria di via Matteo Palmieri non soltanto per festeggiare l’arresto, céppiuto in quel giorno, di due famiglie di ebrei, ma anche, e più per fare un controllo in un luogo che si sapeva frequentato dal Sinigaglia. Per quanto riguarda il seguito e la conclusione di questo avvenimento, riportiamo la ricostruzione contenuta nelle conclusioni d’istruttoria per il processo di Lucca contro i componenti della banda Carità:

"Il fatto avvenne nel tardo pomeriggio del 12 febbraio 1944. Nella trattoria di Innocenti Francesco in Via Matteo Palmieri stavano seduti a desinare due individui sconosciuti all’Innocente in quanto si trattava di due clienti per lui nuovi: erano il Sinigaglia Alessandro e certo Pietro Lari di Empoli, successivamente identificati. Dopo un po’ entrarono nella trattoria Cardini Natale cm sua moglie ed il Menichetti Valerio con la sua amante Ravicioli Silvana,i quali si sedettero ad un tavolo di fronte a quello dove era seduto il Sinigaglia con il Lari.
1 due uomini con le due donne discorrevano fra loro e nulla lasciava intravedere che qualcosa di tragico stesse per maturarsi di lì a poco. Allorché l’Innocenti si apprestava a servire loro le pietanze, il Cardini, estratta di tasca una fotografia, gli chiese se riconosceva nella fotografia uno di quei due che stavano al tavolo di fronte. L’Innocenti rispose negativamente, ma il Cardini, alzatosi, si avvicinò ai due e vi fu tra loro un breve colloquio, dopo di che fl Cardini invitò l’individuo della fotografia a recarsi al suo tavolo. Non sea= celare una certa preoccupazione l’individuo lo segui e quando furono al tavolo dove erano le due donne vi fu tra il Cardini, il. Menichetti ed il Sinigaglia un breve colloquio del quale se ne ignora l’argomento per quanto facilmente intuibile. Si sa soltanto che il Cardini si recò all’apparecchio telefonico per telefonare e che nel breve tragitto tra il tavolo ed il telefono estrasse la rivoltella caricandola. A tale vista il Sinigaglia con mossa fulminea si diede alla fuga inseguito dal Menichetti Valerio, il quale, rincorrendolo, estrasse la rivoltella. Il Sinigaglia riuscì ad uscire in strada inseguito dal Menichetti e dal Cardini, nel mentre una delle due donne e precisamente la Ravicioli Silvana, gridava: « Piglialo, piglialo è proprio lui, lo conosco io ». Giunti in strada si udirono alcuni colpi di rivoltella ed il Sinigaglia cadde ferito a morte raggiunto da ben cinque colpi, come risulta dalle autopsie".

Chi sia stato a sparare e a colpire il Sinigaglia non si sa perché al processo il Cardini scaricò tutta la colpa sul latitante Menichetti; inoltre circolava la voce, non potuta provare, che fuori della trattoria fossero appostati altri fascisti, i quali avrebbero concorso all’uccisione.
In questo modo, quasi banale, Alessandro Sinigaglia chiudeva una vita tutta dedicata al suo ideale, cui aveva saputo sacrificare tutto quel mondo di affetti, di speranze, di desideri che è la parte più intima di ognuno. Alla sua memoria fu assegnata la medaglia d’Argento al valor militare.
La reazione dei fiorentini all’uccisione di Alessandro fu profonda e si manifestò con scritte inneggianti al Sinigaglia, che apparvero in tale numero da suscitare la sorpresa degli stessi componenti del Comando Militare Garibaldi (32),
Questo subì un duro colpo con la morte del Sinigaglia e, per ragioni di `sicurezza, dovette essere sciolto e ricostituito come Delegazione Comando Brigate Garibaldi con altri dirigenti giunti da altre città, dove erano stati ormai individuati dalla polizia. Il posto di Sinigaglia fu preso verso la metà del mese successivo da Luigi Gaiani, giunto a Firenze da Bologna, ove era stato l’organizzatore e il responsabile dei GAP. Questi fu affiancato da Gino Menconi, Dino Saccenti e Francesco Leone.
L’uccisione di Alessandro Sinigaglia e i ripetuti rastrellamenti che improvvisamente erano stati iniziati ai primi di febbraio (33), non interruppero quella serie di attacchi di secondaria importanza contro gli invasori, con i quali i gappisti fiorentini si stavano « facendo le ossa » e che dovevano preludere alle clamorose azioni di marzo-aprile-maggio.

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