Quinto Marzari

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Quinto Marzari

(29 settembre 1944)

Quinto Marzari è nato a Sibano, piccola frazione di 400 abi­tanti del comune di Marzabotto, nel 1909, e quindi all’epoca dei fatti qui ricostruiti aveva 35 anni. Prima di tornare a lavorare la terra come mezzadro aveva fatto la campagna dell’Armir, nel­l’URSS, in un battaglione territoriale dell’VIII armata, e aveva avuto modo di saggiare la consistenza della mitologia fascista e le virtú del valoroso alleato germanico. Quando, dopo il settem­bre del 1943, un maresciallo dei carabinieri lo avvicinò per per­suaderlo ad andare a lavorare volontariamente in Germania e "farsi una posizione" Quinto rispose, come gli altri mezzadri suoi vicini, che piuttosto si sarebbe unito ai partigiani del Mon­te Sole.

Nel luglio del 1944 Quinto venne arrestato e accusato, insieme con altri, di avere incendiato una cisterna di carburante nella galleria della ferrovia Firenze-Bologna. Essendo stato però accertato che l’incendio era dovuto a cause accidentali, gli ostaggi vennero rilasciati e minacciati di sicura fucilazione qualora la ferrovia fosse stata attaccata dai partigiani. Furono invece i te­deschi a sparare, nella notte fra il 28 e il 29 settembre, dalla ferrovia e Quinto, interpretando quegli spari come segni premo­nitori di piú violente azioni, decise di andare dalla vicina fa­miglia dei Creda per incontrare la fidanzata e rasserenarla.

Percorso il non lungo tratto attraverso viottoli, an­cora nell’oscurità dell’alba, Quinto si accorse che era troppo tardi. La casa era circondata da camion e da militari tedeschi in assetto di guerra. Divisi in gruppetti di due o tre si erano organizzati per accerchiare e rastrellare tutte le stanze della casa Creda e di altre due casette annesse. Entrarono nelle camere, frugarono tutte le stanze, e spinsero gli occupanti sotto il grande portico della casa colonica. Uomini validi ce n’erano pochi: quasi tutte donne, bambini e vecchi. Nella se­mioscurità la confusione e la paura erano al culmine.

I bambini piangevano, le mamme cercavano di calmarli, ma trepidavano anch’esse. I vecchi cercavano di dar­si un contegno per portare un po’ di calma.

Erano le sei del mattino e pioveva, perciò la luce era ancora scarsa e l’atmosfera triste e cupa.

Augusto Cardi, padre della fidanzata di Quinto, cercava di confortare un po’ tutti. Si conoscevano tutti bene perché i loro poderi erano confinanti. Erano una decina di famiglie, ottantadue persone, e ora una sorte oscura le riuniva. I tedeschi spinsero tutti sotto il portico, vicino alla stalla e al fienile. il portico era una tipica struttura architettonica contadina, con grandi travi a vista e la vite rampicante dalle colonne. Sotto vi erano tre carri agricoli e ammassate una grande quantità di foglie di granoturco. I tedeschi avevano spinta la gente seminuda, strappandola dal letto. Una volta ammassati sotto il portico, i tedeschi cominciarono a spogliare tutti dei loro averi personali: anelli, orologi, portafogli ed altre cose. Un soldato piú anziano armato di mitra con voce rauca ordinò la separazione degli uo­mini dalle donne. Le parole non erano chiaramente comprensibili, ma l’intervento di altri due soldati mise in atto l’ordine impartito.

Un altro militare, vestito da tedesco, ma dall’ac­cento chiaramente italiano, chiese a Medeo Valdissera — uno dei prigionieri — dove si trovasse suo fratel­lo. Gli fu risposto che era andato a Ragliano, ma il finto tedesco disse che sapeva, invece, che era a Monte Sole. "Vi faremo vedere cosa siamo capaci di fare," aggiunse. Forse perché i militari tedeschi si stringevano intorno alla casa o forse perché altri ne erano giunti, la forza dei tedeschi consisteva ora di circa cento uo­mini.

Morgari senti che alcuni parlavano in dialetto bolo­gnese e fece uno sforzo per imprimersi nella memoria quei volti nella speranza di poterli un giorno rincontra­re e riconoscere. I tedeschi cominciarono ad urlare emettendo grida, che volevano essere ordini intimida­tori. Cominciarono anche a picchiare la gente. Lo scopo era quello di intimidirla, tenerla meglio in pugno. Quin­io Marzari era probabilmente l’uomo piú forte e piú deciso. Il senso di tutti i gesti, l’epilogo della vicenda gli erano certamente piú chiari.

Intanto si era fatto giorno. Quinto credette di ca­pire che i tedeschi attendevano un ordine prima di pro­cedere.

Difatti ad un certo momento un grosso razzo verde si alzò da Sibano. Era un avviso. Poi segui un razzo rosso. "Segno di fuoco," pensò Quinto. Quattro mili­tari tedeschi con l’elmetto si misero in postazione co­me per iniziare a sparare. Altri tedeschi si allontanaro­no dal luogo.

Qualcuno pensò che fosse giunto il momento di rea­gire. "Aggrediamoli, ormai non abbiamo piú nulla da perdere," disse Carlo Cardi. Ma la maggioranza resta­va passiva e credeva di essere destinata alla deporta­zione. Altre persone arrivarono da fuori. I tedeschi li lasciano entrare nell’aia, ma non lasciano ripartire nessuno. C’era anche la piccola Scandelari, la quale, vedendo arrivare il padre, disse: "Papà, perché sei ve­nuto a morire con noi?" Ormai tutti avevano capito.

I tedeschi si misero il sottogola dell’elmetto. Era la fine. Gesti di disperazione, urli, nomi pronunciati col nodo alla gola, pianti di bambini. Nessuno però implo­rava pietà dai tedeschi.

Una raffica di mitra investi i prigionieri. Da due fucili mitragliatori piazzati sul biroccio partirono altre raffiche. Nella massa si apri un vuoto. Quasi tutti caddero a terra.

Quinto Marzari era in un angolo del folto gruppo e vide cadere i suoi compagni di sventura senza essere colpito.

"Malgrado il forte volume di fuoco," dice Quinto, "una massa di oltre ottanta persone non poteva essere sterminata con una sparatoria cosí a caso. Cosí orga­nizzato, il massacro non poteva che rendere piú lungo e atroce il nostro martirio. Vedendo tanta gente cadere e restando lucido di mente, capisco che sono rimasto illeso e mi getto a terra anch’io per fingermi morto. Altre persone mi cadono addosso, realmente morte o fe­rite. Ma la sparatoria continua. Il sangue schizza sul muro, sgorga a flotti dalle persone colpite e sento che mi gronda addosso. Agli urli di spavento e di dolore seguono i lamenti, i gemiti dei moribondi. E’ un in­ferno, una bolgia che non avrei mai immaginato pos­sibile. Visto che non tutti sono morti ed è impossibile individuare i viventi in quell’ammasso di carne e san­gue, i tedeschi, per portare a termine la strage, incomin­ciano a gettare bombe incendiarie e a sparare altre raf­fiche in tutte le direzioni. Mi pare che da quell’inferno non sia possibile uscire vivi. Meglio non prolungare l’a­gonia. Al primo istintivo impulso di conservazione su­bentra la coscienza dell’inevitabile.

"Attingendo alle ultime forze, dopo l’estenuante ten­sione, mi rialzo in piedi, in mezzo ai cadaveri e alle fiamme che divampavano e si estendevano. Voglio espormi come bersaglio per essere colpito e ferito, per risparmiarmi sofferenze prolungate. Rimango qualche attimo in piedi, ma inspiegabilmente non sono colpito. Forse gli stessi tedeschi sono ebbri, allucinati dalla scena, non discernono le cose e le persone fra le fiam­me. Di nuovo mi prende l’istinto di conservazione e la forza di voler vivere. Nella mia mente vi sono come lampi e visioni dei miei cari: il padre, i fratelli, la so­rella e la fidanzata, che so incinta e che volevo sposare. Mi getto di nuovo a terra. Mi ritrovo cosí fra i cada­veri, un po’ coperto dal biroccio sotto il portico. A que­sto punto, scosso dagli spari e dal fuoco, cade il sof­fitto del fienile in fiamme. Vedo la piccola Anna Val­dissera, una bambina di 9 anni, in braccio alla madre colpita a morte. Si svincola e cerca fra i corpi il padre ferito: ‘Scappa papà, la mamma è già morta, se stiamo qui ci uccidono tutti,’ dice la bambina. Vedo suo padre morente che si nasconde fra le foglie del granoturco. per non farsi vedere morente dalla figlia. La bambina, non trovando il padre si accoda a due feriti che tentano di fuggire nella stalla. I feriti scappano poi dalla stalla nel bosco, inseguiti dalle raffiche dei tedeschi.

"I lamenti dei feriti aumentano. Ormai sono preso dalla volontà prepotente di salvarmi ed inveisco con­tro i feriti perché smettano di lamentarsi, altrimenti i tedeschi non se ne andranno.

"Difatti segue il silenzio. Di traverso mi trovo il corpo di Gino; gli sussurro: ‘Fai piano, mi fai male alle gambe: possiamo salvarci.’ Rinnovo l’invito e mi accorgo che è morto. Ad un altro amico, Fernando Ca­tarzi, dico di voler fuggire, ma lui mi risponde di vo­ler restare perché fuori sicuramente si muore.

"In un angolo del loggiato c’è un cestone di foglie di granoturco con sopra seduta una bambina piangente di 5-6 anni. Non so chi è. Mi accorgo che le si appic­ca il fuoco alle foglie sotto i piedi e le gambe. Il calore rende tutto facilmente infiammabile. Non ho tempo neanche di pensare se posso fare qualcosa. For­se non lo farei neanche, per non espormi. Ormai siamo tutti ridotti agli istinti bestiali. In un attimo s’incendia tutto il cestone. La bambina agita le gambine, poi brucia tutta, come una torcia. Urli, e poi si­lenzio.

"I tedeschi non riescono a vedere, a distinguere nul­la fra il fumo e le fiamme. Forse non prevedevano nean­che loro che il massacro dovesse prolungarsi tanto tempo. Sono minuti interminabili, orribili.

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Marzabotto

"Una bomba incendiaria gettata dai tedeschi mi colpisce alla testa, sopra all’orecchio e il fuoco mi in­veste. Sento come un crepitio alla testa, mi porto la mano alla ferita e mi tolgo una scheggia. Sanguino ab­bondantemente. Chiamo Catarzi per cercare di scappare insieme.

"Una donna ferita mi dice: ‘Quinto, non scappare, se ti vedono vengono tutti e ci sparano per finirci.’ ‘Ma perché non tentate di scappare anche voi?’ dico io. ‘Siete ferita?’ La donna si porta la mano al ventre e si accorge che parte delle viscere le fuoriescono dal fianco sinistro.

"In quell’inferno non posso piú resistere. Il dolore della ferita aumenta col crescere del calore. Le urla e i gemiti diminuiscono, ma il fumo e il puzzo sono irresistibili. Meglio tentare tutto. Non voglio morire cosí! Faccio un salto in un momento di confusione dovuto alla caduta di una trave e schizzo nella stalla attigua al loggiato. Qui vedo la mia fidanzata, Elena, le sue due sorelle e la loro madre: tutte morte. Provo un dispe­rato dolore. Ma è stupefacente che, pur davanti a quella vista, non mi abbandono e non rinuncio al ten­tativo di salvarmi. Anzi, la mia tensione nella ricerca di un varco in questa rete, aumenta. Dalla stalla guar­do verso l’aia, dove ci sono i tedeschi: io li scorgo, ma loro non possono vedermi. Tento di uscire da un’ apertura laterale, ma quando mi avvicino vedo una can­na di fucile mitragliatore puntata proprio nella mia di­rezione. Vedo un altro tedesco che tiene il mitra pun­tato verso la stalla per sparare contro chiunque si fosse mostrato. Non posso muovermi, non posso fug­gire, ma il tedesco non mi vede, perché impedito dalle fiamme e dal fumo.

"Sono oltre le 8 del mattino ed è pieno giorno. La carneficina dura da piú di un’ora.

"Mi concentro al massimo per studiare ogni partico­lare della situazione: terreno, attrezzi, vegetazione. Ve­do da una parte il fosso, verso il bosco. Non è con­trollato. Decido di compiere uno sforzo disperato, con tutte le mie forze. Faccio un salto verso un ciglio, sul­la destra. Mi muovo con gran dolore. Sulla sinistra c’è un soldato col mitra; corro per 200-300 metri e m’in­filo di scatto nelle frasche di quercioli e saggina. Temo che facciano rumore, ma sono umide e non frusciano. Sono come un forsennato, in uno stato di esaltazione.

Me ne accorgo dall’accoglienza che mi fanno il Lippi e Pierino, pur essi qui nascosti, ma che neanche vedo, da­to lo stato di eccitazione in cui mi trovo. Loro non sono feriti. Mi accolgono, mi assistono inoltrandomi piú nel bosco. Mi curano le ferite con l’orina.

"In quella zona si stabili la linea del fronte, per 7 mesi e non vi potemmo tornare che al momento della resa dei tedeschi, il 23 aprile. I morti erano sempre sotto il porticato e nella stalla, carbonizzati o in stato di putrefazione."

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