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Chiara Ferrari . Lassù sulle colline del Piemonte

Patria Indipendente

Cantavano i partigiani

Chiara Ferrari

Breve rassegna (e breve storia) di alcune famose canzoni della Resistenza,

dei loro testi e dei luoghi dove sono nate

Lassù sulle colline del Piemonte è la trasformazione della canzonetta Laggiù nel paradiso delle Haway da parte di alcuni studenti partigiani milanesi che ne riprendono la melodia. Esiste anche una versione dei partigiani dell’Appennino Emiliano: Lassù sulle colline di Bologna

Per ascoltare

La canzone

https://youtu.be/A20Di2dBG4Q

Lassù sulle colline del Piemonte

ci stanno i partigiani a guerreggiar

guardando la pianura all’orizzonte

aspettano il momento di calar,

ma un dì pure tu laggiù ritornerai

la mamma e la bella abbraccerai,

ma un dì pure tu laggiù ritornerai

la mamma e la bella bacerai.

Lassù in un lontano casolare

la mamma con le mani giunte sta

pregando per il figlio che combatte

per dare all’Italia libertà

ma un dì pure tu laggiù ritornerai

la mamma e la bella bacerai,

ma un dì pure tu laggiù ritornerai

la mamma e la bella abbraccerai.

Chiara Ferrari – La su quei monti

Patria Indipendente
Cantavano i partigiani
Chiara Ferrari
Breve rassegna (e breve storia) di alcune famose canzoni della Resistenza,
dei loro testi e dei luoghi dove sono nate
Là su quei monti, scritto sull’aria di Là su quei monti c’è un’osteria o Vinassa vinassa, è il canto delle Brigate Giustizia e Libertà attive nella pianura cuneese
Per ascoltare
La Canzone
https://youtu.be/Fa3JFbnx0nU
Là su quei monti fuma la grangia,
dove s’arrangia, dove s’arrangia…
là su quei monti fuma la grangia
dove s’arrangia il partigian.

Il partigiano, l’arma alla mano
guarda lontano, guarda lontano,
con la certezza che porterà
giustizia, giustizia e libertà.

Là su quei monti stanno sparando,
là c’è il comando, là c’è il comando…
là su quei monti stanno sparando,
là c’è il comando dei partigian.
Il partigiano, l’arma alla mano…

Là su quei monti le stelle alpine
crescon vicine, crescon vicine…
là su quei monti le stelle alpine
crescon vicine ai partigian.
Il partigiano, l’arma alla mano…

Là su quei monti, sotto quei fiori,
stanno i migliori, stanno i migliori…
là su quei monti, sotto quei fiori
/stanno i migliori dei partigian.
Il partigiano, l’arma alla mano…

Le Donne nella Resistenza

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Amelia Galvani Garro Padova Brigata «Sabatucci»

…In quei giorni (dopo l’8 settembre) al Campo di Marte si fermò un treno di Padova, Istituto "P. Selvatico" soldati rastrellati in partenza per la Germania. lo e la mia amica Scapin (part.) decidemmo di aiutarli […] in fretta e furia confezionammo diverse fasce bianche con la croce rossa. Sapevamo che i soldati addetti alla sanità avevano maggiore libertà di movimento. Poi con l’aiuto di mia figlia Carmen e altre belle figliole ci recammo lungo i binari dove sostavano i carri bestiame con le porte aperte. Mentre le ragazze intrattenevano i militari tedeschi di scorta, noi consegnammo le fasce da mettere intorno al braccio ai prigionieri, e così moltissimi riuscirono a fuggire…

Agnese Guzzon Gallocchio, Padova, Brigata «Sabatucci»

Il 28 ottobre ‘43, poiché avevamo ospiti inglesi, subimmo una perquisizione… per fortuna i nostri amici alleati erano fuggiti dal retro della casa… Purtroppo non trovarono alcuna persona disposta ad ospitarli e furono ben presto di ritorno; decidemmo perciò di costruire un rifugio sotteraneo quando il 3 febbraio i fascisti vennero di nuovo ebbero un bel frugare, passando più volte sopra il nascondiglio […] I fascisti della Ettore Muti ritornarono a casa nostra il 27 agosto del ’44, picchiarono a sangue mio padre e lo portarono al loro comando […] da dove fuggì e trovò rifugio in un Convento […] Furenti per lo scacco subito vennero a casa e arrestarono me e mia madre […] condotte al comando della Ettore Muti […] il brigo Ventrella ch’era di animo bestiale mi picchiò per sapere dov’era mio padre […] In cella c’erano altri partigiani […] quattro di loro vennero fucilati a Chiesanuova, dove una lapide ricorda il loro sacrificio. Noi dovevamo subire la stessa sorte ed eravamo già pronte sul camion, quando il comandante decise di inviarci al carcere dei Paolotti, dove rimanemmo più di 70 giorni: Là eravamo molte detenute politiche…

Teresa Martini Redetti, Padova, Brigata «Pierobon»

L’8 settembre […] ci vide tutti impegnati, soprattutto noi donne,nell’opera di assistenza ai soldati sbandati […] e ai prigionieri alleati […] Si costituì ora una rete clandestina per farli espatriare in Svizzera con documenti falsi e il Padre Placido Cortese dei Frati di S. Antonio fu tra gli organizzatori il più importante. A quest’opera di solidarietà partecipai entusiasta.. Padre Placido per truccare i documenti toglieva dagli ex voto le foto cercando le rassomiglianze con i partigiani e gli ebrei. La via per la Svizzera da Padova passava per Milano […] Il 14 marzo del ’44 la mia attività e quella di mia sorella vennero stroncate: […] vennero due agenti delle SS tedesche che ci arrestarono […] Giungemmo quasi all’alba a Mathausen e ci rendemmo conto della penosissima realtà; dopo i consueti rigorosi controlli e visite mediche ci raparono a zero e iniziò la nostra vita nelle baracche…

Maria Zonta, Padova, Brigata «5abatucci»

…A quindici anni entrai a lavorare come apprendista nella fabbrica della Snia Viscosa […] nell’aprile del ’44 i salari erano bassi… eravamo costretti ad acquistare al mercato nero a prezzi paurosi […] con tutte le mie compagne di lavoro decidemmo di chiedere l’aumento […] ci dimezzarono il cottimo […] il 10 mattina decidemmo di iniziare lo sciopero, che durò più giorni […] il giorno 20 vennero a casa mia due fascisti in divisa e due tedeschi delle SS, mi arrestarono e mi condussero a Venezia nel carcere di S. Maria Maggiore… i16 ottobre venne deciso il nostro invio in Germania […] Durò cinque giorni e cinque notti. A Berlino subimmo anche un bombardamento e infine giungemmo a Ravensbrück […] A me parve di entrare all’inferno […] le baracche erano incatramate e le strade nere per il fumo dei camini del forno crematorio…

Tratto da

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Donne nella Resistenza

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Anna Bilato Zanella, Cadoneghe, Brigata «Sabatucci»

…Giunse poi 1’8 settembre con tutte le disastrose conseguenze ed insieme alle compagne allora provvedemmo a vestire in borghese i soldati che erano stati abbandonati […] Bisognava poi risolvere il problema dei prigionieri inglesi, neo-zelandesi e russi che, scappati dai campi di concentramento italiano, cercavano rifugio nelle case di campagna […] molte brave persone ebbero il coraggio e la bontà di ospitarli ed assisterli, consapevoli di rischiare la fucilazione, com’era scritto nel bando del comando tedesco e fascista affisso sui muri […]. Il mio lavoro (di staffetta clandestina di stampa, messaggi in codice, medicinali) continuò fino al novembre del ’44

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[…] venni fermata in un recapito di Padova, ma per fortuna non portavo niente di compromettente. Dovevano però sapere molte cose sul mio conto, perché a Palazzo Giusti, dove mi condussero i fascisti, continuarono a interrogarmi (soprattutto il Corradeschi) con percosse per obbligarmi a parlare. Sono noti ormai i sistemi adoperati dai criminali della banda Carità.

Franca Decima Proto, Padova, Brigata «C. Lubian»

…le trasmissioni di radio Londra e la stampa clandestina erano le uniche fonti [di] informazione […] s’inseriva una voce che diceva; "trasmettiamo ora alcuni messaggi speciali" si trattava in apparenza di frasi senza senso il cui significato era capito solo dai partigiani: "il nido delle aquile", "la dott~ina segreta" […] Quando questo avveniva, partivo subito per avvisare Fraccalanza,che abitava in una frazione vicina, egli poi organizzava il gruppo…

Taina Baricolo Dogo, Padova, Brigata «S. Trentin»

Venne il giorno dell’annessione dell’Austria alla Germania di Hitler. Al liceo l’avvenimento ci venne comunicato con poche gravi parole dal professore di storia […] quasi intuitivamente costruimmo il legame tra il contenuto delle lezioni teoriche […] e la realtà minacciosa che sentivamo incombere […] All’università la strada naturale fu quella dell’opposizione alle adunate e alle riunioni del Guf […] Dopo 1’8 settembre, quando mi venne affidata una borsa piena di manifestini da distribuire velocemente in vari edifici di Padova, fui felice di fare qualcosa anch’io… entrai a far parte della brigata Trentin… il 3 gennaio 1945 fui arrestata da «quelli della Banda Carità» e portata a Palazzo Giusti, dove ritrovai professori, compagni di scuola e, con viva sorpresa, anche personaggi inattesi che io pensavo appartenessero all’altra sponda…

Milena Fimiani Valle, Padova, Brigate «Ferretto» e «Mazzini»

…i contatti più frequenti li avevo a Venezia con un compagno che aveva un negozio di cosmetici […] In montagna, con la brigata Mazzini, la cui base era al rifugio Mariek sul monte Cesen […] nel rifugio ho conosciuto Fanny Mora e Angiolina Morona, che a volte fungevano da staffette… alla sera prima di coricarci aggiustavamo i vestiti dei partigiani, da loro ho imparato come si applicano le toppe ai pantaloni […] Verso la fine di agosto i partigiani occuparono Miane, Follina, Pedeguarda, Solighetto; dopo alcuni giorni da parte tedesca e fascista iniziò una vasta offensiva, con incendi di case e fienili. A Miane le donne riuscirono con coraggio e tempestività a domare il fuoco…

Vittoria Foco Zerbetto, Padova, Brigata «Sabatucci»

La nostra casa era punto di incontro e luogo di riunione per i compagni […] dopo il ’42 […} iniziai l’assistenza clandestina ai prigionieri di guerra slavi degenti all’ospedale di S. Antonio a Monte […] affetti per lo più da tubercolosi…

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Livia Borsi Rossi – Le donne nella Resistenza

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Livia Borsi Rossi

 

(…) All’8 settembre ero all’ospedale, perché avevo avuto un aborto, non fatto da me, ma casuale. Sento gridare, gridare, gridare. Mi son presa paura, mi sono messa la vestaglia, sono scesa sotto. C’erano dei camion carichi di militari: chi era senza una gamba, chi ferito alla testa. «Assassini! Fino a mezzanotte ci sono stati amici, hanno giocato con noi alle carte », raccontavano questi militari, «poi ci hanno sparato addosso come a delle bestie! » Erano i tedeschi che li avevano assaliti. (…) Ho domandato il permesso di andarmene, perché avevo tre figli, e sono tornata a casa.

 

(…) Un giorno i tedeschi, ubriachi, vanno nel bar li a Teglia, rompono tutto, poi vengono su in casa mia: hanno aperto i cassetti e buttato all’aria di qua e di là le cose che c’erano dentro: cercavano, ma non han trovato niente. E han preso mio marito, l’hanno portato giù dove avevano il Comando e gli han dato tante di quelle botte, tante di quelle botte! C’era sangue dappertutto; io dicevo a mio figlio: «Guarda, è tutto sporco di sangue; vedrai che l’hanno ammazzato papà! » I bambini gridavano. Quella notte non ho dormito in casa: siamo scappati e siamo andati a dormire alla Croce azzurra di Barabino, che era la Pubblica assistenza. Sono andata là e gli ho detto: «I tedeschi hanno preso mio marito, l’hanno picchiato, io non so dov’è, per non stare in casa sono venuta qua». Ci siamo alloggiati li io, Ernesto, la Delina, mia sorella e mio padre, che aveva settantott’anni. (…) L’indomani mattina sono venuta via dalla Croce azzurra, perché avevo anche paura che facessero del male a quei ragazzi dell’Assistenza: avevo la testa sul collo, pensavo a queste cose. Vado dalla bottegaia vicino a casa mia, che mi dice: «Di suo marito io non so niente». Allora mio figlio si fa coraggio ed entra in casa. Trova un biglietto nascosto, con scritto: «Sono all’ospedale».(…) Era tutto rotto, l’avevano massacrato: una costola fracassata, un braccio a pezzi. Venticinque giorni l’han tenuto all’ospedale! Allora ho domandato ai miei compagni del partito cosa dovevo fare. Perché avevo già cominciato a portare delle munizioni. Su un monte vicino a Genova i nostri militari avevano lasciato delle munizioni, e mio figlio Ernesto, che aveva sedici

anni, e mia figlia Delina, che ne aveva quattordici, me le portavano in casa, alla villa Rosa, dove c’erano i tedeschi. Avevano un coraggio da leone. Io rischiavo: da casa mia, passando sotto il naso ai tedeschi, portavo queste munizioni a Teglia in casa di una che si chiamava i Checca, e poi veniva a prenderle suo cognato, che stava a Cornigliano, e andavano a finire nelle mani dei partigiani di città, i gappisti. Buttavano le bombe sui treni, procuravano le armi, facevano colpi di mano, i gappisti: erano in pericolo più degli altri. La prima volta ho portato quaranta chili di balistite, a sacchetti, due per volta, e a casa della Checca c’erano anche la Colomba e la Parma, che erano due donne che stavano in quella scala, ed è stato quando hanno fatto il primo sciopero, nel dicembre del ’43. Un giorno Ernesto mi ha portato un mucchio di caricatori, e io ho portato anche quelli. Mio marito non ha mai saputo niente: lui non sapeva quel che facevo io, e io non sapevo quel che faceva lui; perché anche lui c’era. Io mi domando delle volte come ho fatto ad avere un coraggio simile. Si vede che poi qualcheduno ha fatto un po’ la spia ed è magari per questo che hanno preso mio marito e l’hanno picchiato. Quando ho domandato ai compagni cosa dovevo fare, m’han detto: «Per il momento stai ferma, perché potrebbero pedinarti…»

 

(…)Una sera, ai primi di luglio, ammazzano un repubblichino, che stava poco distante da me. L ‘hanno ammazzato che erano le 8 e tanti, vicino al palazzo di Nasturzio. Io ero andata in galleria a portare la mia bambina più piccola, perché lei ed Ernesto dormivano là: quella era una galleria grande, e la gente ci dormiva anche. Invece la Delina stava a dormire con me: era come me, non aveva paura di niente. Alla mezzanotte arriva la squadra d’azione, e spara di qua, spara di là. Uno che abitava in un palazzo vicino alla villa Rosa ha sentito quel rumore, è andato alla finestra nel sonno, gli hanno sparato, e gli hanno staccato la testa. Un altro era ferito da una bomba e gridava: «Aiuto! aiuto! » ma nessuno si muoveva, perché avevano paura. Tutti gli uomini scappavano dalla parte dietro del palazzo, dove c’era un seminato, per non esser presi. Picchiano alla porta di casa mia e mi cercano. «Sta qua Borsi Livia?» Ho aspettato un po’ per non far vedere che ero sveglia e ho detto: «Sì». «Apra la porta. Siamo le…» Non mi ricordo più cos’han detto. lo ho aperto la porta. Erano repubblichini. «Chi è Borsi Livia? È lei?» «Io». «Si vesta, venga con noi».

 

 

Tratto da

 

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Lidia Beccaria Rolfi–Donne nella Resistenza 3

Lidia Beccaria Rolfi

(…) Ora la guerra, anche se è lontana, incomincia a piacermi sempre di meno; capisco che è un grosso pericolo per chi va e una grande «fregatura» per chi resta. Ho appena sedici anni, ho ancora tante idee confuse, ma i fatti mi portano a riflettere. (…) Gli entusiasmi patriottardi di tre anni prima sono caduti da tempo: porto la gonna pantaloni della divisa per andare in bicicletta, non partecipo più agli ultimi cortei. Il 10 maggio,a scuola, strappiamo il cartello «Vincere» che è appeso nell’aula e alcuni compagni portano una cravatta rossa e un garofano rosso all’occhiello. (…) Mi diplomo, il 31 maggio, senza gioia. Il 25 luglio lo ricordo ancora adesso come un giorno straordinario. È il giorno in cui scopro la libertà, intesa per ora solo come libertà di parlare. Mi illudo che la caduta di Mussolini voglia anche dire fine della guerra per l’Italia. Le mie reazioni, anche se sono nella direzione giusta, sono soltanto reazioni istintive alla tragedia della guerra, alle sofferenze che vedo attorno a me, alle morti che hanno colpito i soldati al fronte e i civili in città. Non c’è ancora una presa di coscienza sulla realtà della situazione italiana e sul fascismo. Questa presa di coscienza verrà molto più tardi.

L’8 (…) nel pomeriggio, non appena si sparge la notizia dell’armistizio, le strade di accesso alla città diventano teatro di un fuggi fuggi generale: la gente scappa dalla fiera intasando le vie con ogni mezzo di trasporto: birocci, carri, biciclette. La maggior parte però scappa a piedi. Non si sa bene perché scappi: è impaurita dall’ignoto, dai “si dice”, dalle voci che si diffondono e che annunciano l’arrivo imminente delle truppe tedesche. Si è già individuato nel tedesco il nemico di ora, anzi il tedesco ridiventa «il nemico» naturale, quello che la gente comune non ha mai digerito, nemmeno al tempo dell’Asse.

Alla fine di ottobre ricevo la mia prima nomina come insegnante elementare: sono destinata a Torrette di Casteldelfino in valle Varaita. Raggiungo la sede il 16 novembre e la sera stessa, all’albergo dell’ Angelo di Sampeyre, incontro alcuni ebrei fuggiti da Saluzzo, da Torino, e sento parlare del campo di concentramento per ebrei a Borgo San Dalmazzo. La notizia mi sconvolge. Nei quindici giorni successivi conosco alcune persone che avranno un peso determinante nella scelta che farò. Conosco «Medici» (Morbiducci) e «Rubro» (Terrazzani). Incomincio a collaborare con loro.

Divento la staffetta di «Medici» e poi di «Ezio» (Bazzanini), imparo a montare bombe a mano, che preparo alla sera al lume di un lanternino a petrolio, affronto il primo rastrellamento nel dicembre (i tedeschi arrivano con pochi mezzi fino a Casteldelfìno) con una cassa di bombe sotto il letto. Trascorro l’inverno in valle, facendo la spola a volte in bicicletta, più spesso a piedi o in corriera, fra la valle e Saluzzo, affronto rischi, pericoli, posti di blocco e spie con la beata incoscienza dei diciotto anni, spesso ascolto «Medici» parlare, raccontare a noi che siamo più giovani e che lo ascoltiamo increduli, la vera storia della rivoluzione bolscevica, della guerra d’Abissinia, della guerra di Spagna e delle responsabilità del fascismo. Seguo perplessa i suoi discorsi: a volte stento a capire. Le argomentazioni contro i tedeschi mi convincono di più: le ho già sentite sei mesi prima, quando i reduci sono tornati dalla Russia e hanno raccontato.

Dalla pianura arrivano giorno per giorno notizie di rappresaglie e morti: ho visto Cerreto bruciare un mattino, arrivando da Cuneo. Alla fine di marzo, quando già le formazioni partigiane hanno raggiunto una certa forza e si stanno organizzando, quando in valle ha fatto la sua comparsa «Ezio» e il movimento si sta estendendo con azioni quasi quotidiane in pianura, i tedeschi e i fascisti iniziano il rastrellamento a tappeto della valle. Vedo i primi morti, due soldati meridionali sbandati, uccisi come cani a Venasca, vedo i partigiani fucilati a Melle. «Ezio» mi ordina di andarmene dalla valle che pullula di spie. Torno a casa e rientro, come eravamo intesi, dopo una decina di giorni, quando ormai i tedeschi se ne sono andati e in valle non sono rimasti che pochi presidi della Gnr (Guardia nazionale repubblicana) di Bergamo.

Rientro l’11 sera e trascorro la giornata del 12 passeggiando per la montagna, con la speranza segreta di trovare qualche compagno. Verso le 8, quando è già buio, Gianni Ferrari, un partigiano giovane, lombardo credo, bussa alla mia porta, si ferma una mezz’ora per avere notizie e rifocillarsi, e riprende la marcia per raggiungere la valle Maira; due ore dopo altri quattro partigiani, venuti a conoscenza del mio rientro, mi raggiungono, entrano a mangiare un boccone e ripartono quasi subito anche loro per la valle Maira. Li accompagno per un pezzo, lungo la strada che conosco bene, e rientro nella notte. Il mattino dopo, alle 6, quattro militi della Gnr di stanza a Sampeyre mi svegliano, perquisiscono la mia camera, buttano all’aria tutto, rovistano, urlano, poi mi trasferiscono, a piedi, con le mani legate, all’albergo dell’Angelo dove ha sede il Comando. Mi interrogano per un giorno e una notte, mi torturano, cercano di spaventarmi con minacce di morte, mi fanno sfilare davanti il plotone di esecuzione; il comandante, il tenente Vicentini di Mantova (così mi ha detto di chiamarsi), assume in proprio l’onore e l’onere di picchiare a sangue «un’indegna spia del nemico che collabora con banditi ribelli», poi mi lega a una sedia e il mattino dopo mi fa caricare, legata come un salame, su una camionetta.

Mi portano a Cuneo, prima dal prefetto poi in carcere, e il giorno seguente, per ordine del prefetto, che ne ha dato l’incarico al tenente colonnello Carlo Sciavicco della Gnr, sono consegnata nelle mani della Gestapo che mi trasferisce a Saluzzo nelle carceri giudiziarie. Per gli interrogatori vengo condotta in una villa isolata alla periferia della città: la Gestapo mi interroga per due giorni, poi si disinteressa di me. Rimango in carcere dieci giorni, in una cella enorme con detenute colpevoli di reati comuni, infine mi trasferiscono, il 24 sera, alle carceri Nuove di Torino. Il giorno successivo subisco l’ultimo interrogatorio all’albergo Nazionale di Torino, da parte del capitano Schmidt, firmo un verbale scritto in tedesco e tradotto da un interprete, in cui continuo a negare ogni addebito, mi comunicano che sono condannata a morte, poi mi riportano in cella e non si occupano più di me. Rimango alle Nuove per circa tre mesi. (…)

La notte fra il 25 e il 26 giugno i tedeschi prelevano me e altre tredici detenute dalle celle e ci accompagnano nella camera adiacente allo studio di suor Giuseppina, la madre superiora. È lei stessa che ci comunica con le lacrime agli occhi che saremo deportate in Germania dove «andremo a lavorare». Ancora nella notte ci caricano su un camion e all’alba ci trasferiscono a Porta Nuova e ci chiudono in un vagone bestiame, agganciato ad altri vagoni strapieni di uomini, giovani quasi tutti, in tuta blu e scarpe bianche da ginnastica, partigiani o rastrellati o segnalati durante lo sciopero del marzo’ 44 e tutti destinati, come lavoratori coatti, all’industria tedesca. Sullo stesso treno, durante una sosta del viaggio, vedo un compagno partigiano della mia valle, Gianni Negro. Cerco stupidamente di attirare la sua attenzione senza rendermi conto del pericolo a cui lo espongo. Mi vede e mi fa un cenno. È l’ultimo saluto di una persona amica.

Viaggiamo per quattro giorni e quattro notti nel vagone chiuso. Ci aprono per i bisogni fisiologici solo a rari intervalli e solo dopo che il treno ha varcato la frontiera del Brennero. Nella stazione di Chemnitz, di notte, subiamo un bombardamento aereo chiuse nel vagone. Il nostro treno non è colpito. Staccano i vagoni degli uomini e proseguiamo sole, sempre in vagone piombato, fino a Berlino; e qui, scortate da SS, ci trasferiamo in metropolitana a un’altra stazione della città. Siamo un piccolo gruppo miserabile di quattordici donne, sporche e stanche, con fagottini di effetti personali e con gli ultimi resti dei viveri che ci ha dato alla partenza suor Giuseppina. Ci accompagnano due SS stanchi come noi, ma non suscitiamo nessun interesse nella folla della metropolitana. I tedeschi sono abituati a questo genere di spettacolo e ci ignorano. Ci caricano su un vagone passeggeri e dal finestrino scorgiamo il paesaggio, dopo giorni di viaggio alla cieca.

Il treno sembra andare verso Nord, passa in una pineta fitta, poi attraversa un paesaggio ondulato e penetra ancora in una pineta. La scarpata rivela un terreno sabbioso, i pini si fanno meno fitti, il paesaggio diventa brullo, desolato, non si vedono case. A una stazione, dopo trenta, quaranta chilometri circa, salgono nello scompartimento delle donne in divisa con un numero e un triangolo a punta (…) A una fermata successiva, in una stazioncina piccola di cui riusciamo a leggere il nome Fürstenberg -, ci fanno scendere e ci ordinano di camminare. Le donne vestite a righe ci precedono. Ci avviamo per una strada che costeggia un lago, la strada è lunga e i bagagli, pur scarsi, pesano. Arriviamo stanche davanti a un muro altissimo, nero, che si estende a perdita d’occhio. Nel muro si apre un portone sormontato da torrette, ci sono tante donne in fila che varcano il portone, mentre soldati SS le contano.

Varchiamo il portone anche noi; i due SS che ci hanno accompagnato tornano indietro dopo aver consegnato a un SS sul portone una cartella: i nostri dossier. Siamo a Ravensbrück. Siamo il primo trasporto di donne italiane che arriva a Ravensbrück. È la sera del 30 giugno del ‘44.

Tratto da

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Bianca Paganini Mori – Donne nella Resistenza

 

 

 

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Le Donne nella Resistenza

n2°

Bianca Paganini Mori

 

(…)Noi ragazzi studiavamo ed eravamo diventati quasi tutti studenti universitari. Per forza di cose, eravamo iscritti alle organizzazioni scolastiche del regime, perché altrimenti non saremmo potuti andare a scuola, però non eravamo attivi seguaci delle teorie fasciste, pur non avendo altre idee politiche: eravamo ancora troppo ragazzi e non potevamo avere, evidentemente, idee politiche. Tuttavia la più completa estraneità che regnava in casa verso il partito fascista era diventata anche nostra, e padre e madre ci avevano insegnato e abituato a pensare in una maniera talmente libera che non potevamo intimamente aderirvi. Scoppiò la guerra e mia madre ci portò, per difenderci dai bombardamenti cui La Spezia era continuamente sottoposta, a San Benedetto.

 

Restare in città era pericoloso anche per un altro motivo: la mia mamma era stata colpita da un terribile male al cuore, un grave scompenso cardiaco. Sicché lassù ci colse 1’8 settembre del 1943. Fu un evento drammatico. Mi ricordo che la sera di quel giorno la piazzola del paese, la strada, erano affollate, e l’annunzio colse un po’ tutti di sorpresa. (…) Mia madre si alzò, andò alla finestre a disse: «Qualcosa sta succedendo». Allora ci alzammo e ci vestimmo tutti, e andammo a vedere: stavano passando file, ininterrotte, di carri armati, di automezzi, di soldati, tedeschi, diretti verso La Spezia.

 

La mattina molto presto io e il secondo dei miei fratelli, Alfredo, partimmo per la città: volevamo sapere che cosa era successo. Arrivati giusto a La Foce, che è un valico che precede La Spezia, cominciammo a vedere tedeschi che, occupato il valico, fermavano le persone in divisa, toglievano le mostrine agli ufficiali, li schiaffeggiavano. A un generale sputarono addirittura in faccia. Ci fermammo, e mio fratello cominciò a dirmi: «Torniamo indietro», e: «Bisogna portar via ‘sta gente». Ormai a La Spezia non si poteva più andare: quelli che arrivavano su dalla città, dicevano che i tedeschi l’avevano occupata, avevano bloccato la stazione e le strade. E allora prendemmo con noi quelli che potevamo prendere e li guidammo attraverso la montagna verso Riomaggiore, che è la stazione proprio alle spalle della nostra montagna, perché potessero prendere il treno.

 

Questo già il 9 settembre. Subito, intanto, durante la stessa mattinata, i soldati che erano nella vallata a 50, a 100 metri da noi, avevano cominciato a scappare: avevano saputo quello che stava succedendo: che i tedeschi caricavano e portavano via su camion i militari, prigionieri. E allora, bisogna che dica la verità, tutte le case del paese si aprirono: chi dava una camicia, chi un paio di scarpe, chi una giacca, chi un paio di calzoni a questi poveri ragazzi; e qualche soldo, anche, per il viaggio. Li si accompagnava per un tratto o gli si insegnava la strada dei boschi, affinché evitassero la strada principale. Cercammo tutti, immediatamente, di aiutarli. Mio fratello Alberto, il maggiore, era tenente degli alpini a Brunico. Il 9 settembre si trovò con l’ordine di bloccare il valico: aveva una mitragliatrice in mano e sei alpini. Pensò: «Da solo non ce la faccio». Vista la mala parata, scappò, come tutti quanti gli altri. Dapprima si unì a un gruppo di alpini e di ufficiali degli alpini nel Trentino. Poi però, sapendo che a casa c’erano quattro ragazzi con la mamma sola, cercò disperatamente di ritornare. Ci impiegò un mese, però ci riuscì. E immediatamente si mise in contatto con altre persone e gruppi di La Spezia che già conoscevamo, per esempio con il colonnello Fontana, non solo per non obbedire alla Repubblica di Salò, ma anche per organizzare una resistenza.

 

Ci si cominciò a organizzare. Pochi, da principio. Mamma non posso dire che fosse felice di questo. Vedeva evidentemente il pericolo, perché non era una sciocca, però non interferì mai in quello che volevano fare i suoi ragazzi, soprattutto il maggiore. Anche perché aveva fiducia.

 

Dirò di più: non solo non si oppose, ma ci seguì. Alfredo, come soldato di sanità, era a Genova: continuava l’Università, frequentando il sesto anno di medicina. Dopo che si furono costituiti i primi nuclei di partigiani, ai primi di gennaio venne via da Genova e si uni anche lui a quei gruppi.(…) Passavano praticamente tutti di li quelli che dovevano andare in montagna, e li venivano accolti. Gli si dava da mangiare, quel poco che avevamo. Alfredo li accompagnava, poi ritornava giù. Noi ragazze si faceva quel che si poteva: gli si preparava da mangiare, li si puliva.

 

Eravamo proprio ragazze, allora. C’era un posto di blocco a La Foce, e un posto di blocco proprio a San Benedetto, e il bello si è che in mezzo a questi posti di blocco noi giravamo impunemente. Bice, per esempio, che era

impiegata a un pastificio di La Spezia, molto spesso la sera arrivava su con un camioncino sul quale c’erano farina e pasta, e faceva passare il posto di blocco, senza che nessuno dicesse niente, al camioncino con quella farina e quella pasta, che poi arrivavano in montagna.

 

Ricordo che una volta io salii su con tre o quattro bombe a mano nella borsa, e la borsa me la portò un repubblichino. «Come pesa ‘sta borsa!» «Sa, ho trovato delle castagne, delle patate! » E me la portò lui, fino a casa. Altre volte scendevamo in città a prendere dei chiodi da mettere nelle strade in cui sarebbero passati gli automezzi dei fascisti e dei tedeschi. Attraverso i posti di blocco noi passavamo impunemente, perché ormai ci conoscevano.

 

Verso marzo, aprile, i nuclei si organizzarono meglio. I miei fratelli facevano parte delle formazioni Giustizia e Libertà della IV zona operativa, a capo della quale era il colonnello Fontana, ma c’erano altre formazioni, come la brigata Garibaldi «Muccini», che operava verso Sarzana. C’era bisogno ormai di persone che sapessero curare i feriti. E Alfredo, studente del sesto anno di medicina, cominciò a fermarsi anche lui in montagna per cercar di predisporre un servizio di assistenza. Alla fine di giugno venne giù perché c’era bisogno di medicinali, e il 2 o il 3 di luglio scese in città: gli avevano promesso che gliene avrebbero dati. Una spiata, non lo sappiamo… Fatto sta che parti da San Benedetto e arrivò in piazza Garibaldi; qui, prima che, (meno male!) entrasse nella farmacia dove era già pronto il pacco per lui, lo arrestarono. La notizia del suo arresto giunse subito su. Mia madre, strano a dirsi, mentre era sempre piuttosto malaticcia con il suo scompenso di cuore avrebbe dovuto condurre una vita molto calma, molto serena -, quel giorno sembrava quasi ritornata alla primitiva energia. Non pianse, non si disperò. Ci disse: «Ragazzi, ripuliamo la casa». In casa non c’era quasi niente di compromettente e pericoloso, perché i miei fratelli non vi lasciavano niente di quel genere, è ovvio. C’era però una divisa della X Mas, perché la sera prima era passato da noi un militare, che prima di andare in montagna si era spogliato della divisa e ce l’aveva lasciata. E allora la divisa, fuori di casa! Poi c’erano dei fucili, ma fucili da caccia, nostri. Però mamma disse: «Sarà meglio portarli via. Chi sa cosa potrebbero pensare, a parte il fatto che sono fucili di valore e magari se li prenderebbero». Infine chiamò mio fratello, il minore, che era proprio un ragazzino -aveva quindici anni -e gli disse: «Figliolo, va’ dove vuoi, ma qua in casa, per lo meno per qualche giorno, non ti far vedere». Prima ancora avevamo avvertito in paese che nessuno si avvicinasse alla nostra casa, perché sarebbe stato pericolosissimo. E poi aspettammo.

 

Passò tutto il giorno, e non successe niente. Intanto durante la giornata poco per volta erano arrivate notizie: che Alfredo era stato portato al Comando delle Brigate nere, di li al Comando delle SS e la sera in prigione. Aspettammo. Mamma aveva detto: «È inutile che noi scappiamo. Siamo tre donne: io ho sessantatré anni, voi siete ragazze -io avevo ventun anni, mia sorella diciotto -: non ci faranno nulla». Andammo a letto, con un’ansia terribile. Verso mezzanotte, cominciammo a sentire, sulla strada che conduceva alla casa, dei passi. «Eccoli! -mia madre disse, -eccoli! Calme! Perché se stiamo calme, se siamo serene, riusciremo a esprimere con maggior chiarezza quello che vogliamo dire, a dare forse l’illusione che qua non c’è mai stato nessun altro che noi». Ma lei poteva essere calma; io, giuro, calma non ero. Bussarono alla porta, mia madre andò ad aprire. C’erano tre repubblichini, uno dei quali era il capo dei repubblichini della zona, un certo Gallo, che fu poi preso prigioniero e fucilato, e insieme con loro cinque SS: tre ufficiali, fra cui un tenente, e due soldati. Cominciarono a chiedere degli uomini. «Uomini non ce n’è». Mia madre ci aveva ordinato di rispondere cosi. «Uno è militare, -spiegò lei, -e non ne ho più saputo niente, l’altro è all’Università a Genova, dove fa il sest’anno di medicina, e il piccolo è da amici». Per cinque ore perquisirono la casa, da cima a fondo. Non trovarono che dei libri, come La storia della rivoluzione russa, Disobbedisco di Giuliotti, la Storia di Cristo di Papini, che presero per libri antifascisti: fra l’altro erano anche perfetti ignoranti.

 

Davanti alla Divina commedia con le figure del Doré chi sa perché dissero: «Che roba! Che schifo!» Da ultimo trovarono lettere indirizzate a mio padre da un amico svizzero, ma lettere scritte da cinque, sei anni, nelle quali non c’era altro che dimostrazioni di affetto, di simpatia, e il racconto di quello che lo scrivente faceva, della sua vita. Non so che cosa credettero: forse le presero come la prova di una specie di contatto con stranieri. Insomma, alle 5 del mattino partimmo, con loro. Devo premettere che i partigiani erano stati avvertiti che Alfredo era stato preso e avevano preparato una specie di…, come posso dire?, di agguato. «Se vengono e portano via le donne, salviamo per lo meno loro». Ma ci presero per donne di malaffare che avessero fatto una passeggiata coi tedeschi e non ci fermarono: ci conoscevano, ma si erano dovuti tenere nascosti, perché la strada era sorvegliata, e, poverini, non ci riconobbero. Per lo meno, questo ci dissero in seguito.

 

Fummo portate a La Spezia, nelle carceri.(…) Una volta sola ci fecero vedere mio fratello, ed era in condizioni pietose, tanto che mia madre, quando ritornò in cella, si senti molto male. Non lo rivedemmo più. Giunse il 20 luglio, giorno in cui in Germania fu fatto l’attentato a Rider. Mamma, quando lo seppe, diventò come matta. lo dico che quel giorno ci fu in lei proprio una vena di pazzia, perché subito, appena seppe la notizia, chiese alla suora, ma in una maniera perentoria, che non era nel suo carattere, di essere ricevuta dal comandante tedesco. «Voglio essere ricevuta dal comandante tedesco!» E la suora le diceva: «Ma cosa vuole da lui?» « Voglio essere ricevuta!» La suora chiese allora al comandante tedesco se poteva ricevere mia madre, ed egli acconsentì. Stava facendo un interrogatorio. Mia madre dalla porta gli disse: «I miei figli saranno assassini, saranno briganti, saranno indegni di vivere, ma come chiami tu quelli della tua gente che hanno attentato a Rider? Allora non soltanto in Italia ci sono banditi e assassini; ce ne sono anche da te!» La suora, suor Teresina, racconta che il comandante la guardò, si fece tradurre dall’interprete quello che lei aveva detto -e mia madre pretese che fosse ripetuto parola per parola -, poi si alzò, le fece il saluto militare, le tese la mano e le disse: «Mille donne come te e io qua non ci sarei». Da quel giorno non ci tormentarono più: cessarono per noi gli interrogatori. Perché mia madre gli aveva anche detto: «È inutile che tu continui a interrogarmi: io non so niente e anche se sapessi qualcosa, non te lo direi”. Gli dava del tu: “tu dai del tu a me che ho sessantre anni, perché io non posso dare del tu a te che potresti essere mio figlio?”.

 

Bianca Paganini Mori fu incarcerata presso il carcere di La Spezia e successivamente deportata a Ravensbruck.

 

 

Tratto da

http://www.anpi.it/storia/196/le-donne-nella-resistenza

Helen Zago – Le donne nella Resistenza 1°

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Le donne nella resistenza A cura di Hélène Zago

 

La Resistenza rappresenta la fase in cui nascono e si sviluppano le premesse per la nascita della Costituzione e della Repubblica democratica. E per la prima volta le donne partecipano da protagoniste a un momento decisivo della storia italiana. E’ un fatto inedito, che non ha precedenti: la partecipazione femminile non è più di una elite intellettuale e culturale del paese, com’era avvenuto durante il Risorgimento; si tratta invece di un fatto diffuso, realmente di massa.
Le donne svolgono un fondamentale ruolo di organizzazione e di supporto all’azione delle brigate partigiane. Sono loro che raccolgono gli alimenti, le munizioni, le informazioni, svolgono un’essenziale funzione di collegamento tra le brigate partigiane, organizzate in campagna e in montagna, e la città. Un ruolo che forse non è stato adeguatamente riconosciuto. Esse non ricoprirono, esclusi alcuni casi straordinari, la funzione tradizionale di combattenti. Fu questo il motivo per cui non si colse fino in fondo la grande trasformazione che stava vivendo l’Italia grazie all’ingresso nella vita pubblica delle donne.
Nel ricordare la lotta partigiana raramente si parla del ruolo delle donne e del loro contributo alla Resistenza. Anche per questo motivo si parla di “Resistenza taciuta”. Eppure il contributo delle donne fu un contributo molto rilevante, soprattutto nella gestione organizzativa quotidiana. Le donne si occupavano della stampa dei materiali di propaganda, attaccavano i manifesti e distribuivano i volantini, svolgevano funzione di collegamento, curavano il passaggio delle informazioni, trasportavano e raccoglievano armi, munizioni, esplosivi, viveri, indumenti, medicinali, svolgevano funzioni infermieristiche, preparavano i rifugi e i nascondigli per i partigiani.
La partecipazione femminile alla lotta di Liberazione dal nazi-fascismo è, dunque, ampia ed importante, ma difficilmente misurabile e valutabile per il ruolo nascosto e “dietro le quinte” che svolge. La presenza delle donne è costante nella gestione “ai margini” delle operazioni di lotta clandestina dei partigiani; è raramente in primo piano nelle azioni di combattimento (anche se ci sono alcuni casi molto interessanti) ma è un ruolo chiave nella cornice organizzativa della Resistenza. Anche se, alla fine della lotta armata, la stragrande maggioranza delle donne non si fece avanti per ritirare medaglie e riconoscimenti.
«Dopo la Liberazione la maggior parte degli uomini considerò naturale rinchiudere nuovamente in casa le donne. Il 6 maggio 1945 Tersilla Fenoglio non poté neppure partecipare alla grande sfilata delle forze della Resistenza a Torino.“’Ma tu sei una donna!”, si sente rispondere da un compagno di lotta nell’estate del 1945 la partigiana Maria Rovano, quando chiede spiegazione dei gradi riconosciuti soltanto ad altri. Ed a Barge, il vicario riceve il brevetto partigiano prima di lei. E Nelia Benissone? Dopo aver organizzato assalti ai docks, addestrato gappisti e sappisti, lanciato bombe molotov contro convogli in partenza per la Germania, disarmato militari fascisti per la strada, anche da sola, e dopo essere stata nel 1945 responsabile militare del suo settore, sarà riconosciuta dalla Commissione regionale come “soldato semplice”».

 

Anna Maria Bruzzone racconta in un suo testo:
“La specifica oppressione che le donne patiscono si manifestò infatti al loro rientro in patria, e in seguito, in forma particolarmente crudele: spesso esse si videro opporre un muro di disinteresse, di incomprensione, di diffidenza e talora persino di ostilità. A loro specialmente veniva applicata la morale di Renzo, del non mettersi nei tumulti, del non predicare in piazza, in breve del non far politica. Se fossero state a casa, -pensavano e dicevano o lasciavano intendere molti, -non sarebbero state deportate! I guai sono andate a cercarseli! » O, al contrario, sminuendo o cancellando la loro partecipazione alla Resistenza: «Non erano partigiane! Partigiani erano gli uomini che avevano accanto!» E anche, ambiguamente: «Chi sa che cosa avranno passato lassù!» Né si risparmiavano loro umiliazioni che le riportavano nel Lager: si leggano, a questo proposito, i passi in cui vengono descritte le avvilenti visite che molte di esse subirono negli Ospedali militari italiani”.
E’ importante non dimenticare come la dittatura prima e la guerra poi, avessero contributo a creare un punto di rottura nella tradizione della gestione familiare. In particolare, gli eventi bellici avevano rovesciato alcuni normali equilibri familiari e sociali. Con l’avvento del fascismo ogni aspetto della vita venne subordinato allo Stato: il diritto di famiglia, basato sul codice del 1865, si fondava sulla supremazia maschile e negava l’autonomia della donna, che doveva sempre avere “un’autorizzazione del marito”. Con la soppressione dei partiti politici e dell’associazionismo, vennero represse tutte le forme di attivismo femminile; era il 1926 e le uniche organizzazioni riconosciute erano i movimenti femminili fascista e cattolico. Eppure, paradossalmente, è proprio con la guerra che le donne conoscono una nuova libertà. La “scomparsa” dai paesi e dalle città della popolazione maschile giovane, in forza e in età da lavoro, mandata al fronte a combattere contro gli Alleati, aveva in parte costretto le donne ad assumere un ruolo sociale nuovo e a ricoprire la funzione inedita di “capo famiglia”, spesso costringendole a provvederne il mantenimento. Possiamo dire che a partire dalla lotta di Resistenza e dalla Costituzione del 1948, le donne si trasformano in soggetti storicamente visibili.
Alla fine del conflitto si tentò di quantificare e di valutare l’entità della lotta di Liberazione. Veniva riconosciuto “partigiano” chi aveva fatto parte di formazioni regolarmente riconosciute per almeno tre mesi e aveva condotto almeno tre azioni di sabotaggio o di guerra. Si capisce, dunque, come l’azione femminile difficilmente potesse rientrare in questi parametri. I dati in merito alla partecipazione femminile sono parziali e poco attendibili, ma comunque significativi.
Riportiamo di seguito i dati offerti dall’Associazioni Nazionale dei Partigiani d’Italia:
partigiane: 35.000
patriote: 20.000
gruppi di difesa: 70.000
iscritte arrestate/torturate: 4.653
deportate: 2.750
commissarie di guerra: 512
medaglie d’Oro: 16
medaglie d’argento: 17
fucilate o cadute in combattimento: 2.900

 

Alcune di loro, provenienti da famiglie di tradizione antifascista, vennero coinvolte ancor prima dell’Armistizio dell’8 settembre 1943. L’ingresso delle donne nel movimento clandestino viene fatto risalire ad un significativo episodio del 1941. A Parma, il 16 ottobre 1941, scoppiò una violenta rivolta in seguito alla diminuzione giornaliera della razione individuale di pane, ulteriormente ridotta a 150 grammi, sebbene Mussolini, che aveva visitato la città pochi giorni prima, avesse promesso di non abbassare le razioni alimentari: le donne assaltarono un furgone della Barilla che trasportava un carico di pane. Appena sparsa la notizia, altre donne uscirono dalle fabbriche e formarono dei cortei spontanei in molte vie della città; furono le più politicizzate ad organizzare le operaie e le massaie. Le donne manifestarono numerosissime e molte di loro furono arrestate. Era soprattutto il peggioramento delle condizioni di vita a spingerle ad agire per porre fine alla guerra e alla fame. La protesta venne chiamata “sciopero del pane” e rappresentò un momento importante nella cronologia di sviluppo del movimento clandestino di Liberazione: per la prima volta le donne rischiarono il posto di lavoro e l’incarcerazione, scendendo in piazza.
A partire da quel momento sempre più donne entreranno tra le file della Resistenza: il coinvolgimento di un amico, di un fratello, di una madre nell’organizzazione partigiana, le spinse ad agire attivamente nella Resistenza civile come nella lotta armata. Anche per questo lo “sciopero del pane” viene comunemente considerato l’atto di ingresso delle donne nel movimento antifascista.
Il problema dell’alimentazione era, come in ogni guerra, una delle piaghe più drammatiche. E’ noto come fossero le donne coloro che avevano il compito di recuperare gli alimenti.
La presenza femminile era particolarmente alta nei Gruppi di Azione Partigiana (GAP) e nelle Squadre d’Azione Partigiana (SAP). Inoltre le donne organizzavano scioperi ed agitazioni di carattere femminile, come le grandi manifestazioni che si svolsero a Torino in seguito alla morte delle sorelle Arduino. Essenziale era, poi, la loro funzione di collegamento: le “messaggere” erano quelle che superavano le linee tedesche per portare i messaggi da una parte all’altra dei fronti di combattimento. Un’altra iniziativa importante prevalentemente gestita da donne fu il “Soccorso rosso”, una specie di organizzazione di mutua assistenza, con la funzione di reperire viveri o denaro per le famiglie dei militanti in difficoltà. Uno dei gruppi propulsori della partecipazione femminile si sviluppò a Milano, dove si formò dopo l’Armistizio un gruppo molto attivo di donne combattenti. Ben presto, ad un piccolo nucleo si aggiunsero donne di ogni grado della scala sociale e di ogni credo politico, che portarono ben presto alla nascita di Gruppi Operativi che svolsero una lotta senza tregua per la conquista dei diritti politici e civili per le donne.
Anche tra le pareti domestiche spesso le donne organizzarono dei veri propri laboratori, per preparare gli indumenti ai partigiani, per raccogliere le armi e le munizioni, per raccogliere e ridistribuire gli alimenti ai partigiani o alle loro famiglie. Per la prima volta nella storia, e con una netta cesura con il passato, la partecipazione alla guerra si caratterizza come un’assunzione di responsabilità e di un ruolo autonomo.
Il Comitato Nazionale dei Gruppi di Difesa nel giugno del 1944 invia una relazione al Comando di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia sull’opera dei gruppi di difesa. Il comunicato è in merito alla costituzione dei Gruppi di Difesa:
«All’appello hanno risposto le donne italiane delle fabbriche e delle case, delle città e delle campagne riunendosi e lottando. I Gruppi sono sorti e si sono sviluppati nei grandi come nei piccoli centri. A Milano, nelle fabbriche, si contano ventiquattro Gruppi con circa 2000 aderenti; un eguale numero esiste a Torino e a Genova: essi contano 3300 affiliate. Parecchie centinaia di aderenti si contano in Emilia e in Toscana, nelle Marche e nel Veneto. Sono sorti Gruppi di contadine, di intellettuali, di massaie, nelle case e nelle scuole; la loro azione viene coordinata dai Comitati femminili di città e di villaggio, regionali e provinciali, attorno alle direttive indicate dal Comitato Nazionale».

 

In tutta quella parte dell’Italia che era rimasta sotto il dominio tedesco, furono costituite formazioni militari femminili di Volontarie della Libertà, «formate da donne energiche e audaci, decise a partecipare attivamente alle operazioni di guerra».
Le donne che facevano parte di questi nuclei organizzavano atti di sabotaggio nelle fabbriche, con l’obiettivo di bloccare la produzione (in larga parte destinata alla Germania). Inoltre, supportando le brigate partigiane, organizzando le interruzioni delle vie di comunicazione e l’occupazione dei depositi alimentari e approntavano squadre di infermiere e posti di pronto soccorso. Le donne erano una figura essenziale nel recupero degli “sbandati”.
Una figura simbolo della resistenza al femminile e in particolare della Resistenza veneta, è Tina Anselmi. Nata a Castelfranco Veneto nel 1927, decise giovanissima di schierarsi contro il regime, quando, a Bassano, vide un gruppo di giovani partigiani impiccati:
“Dopo l’8 settembre, in seguito alla firma dell’armistizio, i tedeschi conclusero che noi avevamo tradito l’alleanza ed allora si sviluppò con più ferocia e determinazione la loro rappresaglia. Noi vedevamo passare per i nostri paesi i carri bestiame pieni di giovani dei nostri paesi rastrellati, portati in prigione e poi impiccati o fucilati nei viali. Facevo l’ultimo anno delle superiori, eravamo una quarantina di ragazze, quando ci portarono ad assistere all’impiccagione di un certo numero di ragazzi, c’erano anche dei nostri amici e c’era anche il fratello della mia compagna di banco. A parte il trauma che ciascuna di noi subì, fu subito naturale interrogarsi sulla liceità di quello che stava accadendo. La dottrina fascista diceva, nel primo articolo, che lo Stato è fonte di eticità, niente è sopra lo Stato, niente è contro lo Stato, niente è al di là dello Stato; dunque questo articolo giustificava quello che avveniva e le rappresaglie che erano consumate”.
“Naturalmente nacquero tra di noi discussioni molto violente: chi era per la non liceità da parte dello Stato di impiccare persone innocenti del reato per cui venivano condannate e c’erano quelli che dicevano che lo Stato lo poteva fare questo ed era lecito che l’avesse fatto. Da queste domande derivarono delle risposte che andavano sostanzialmente ad affermare che anche se si era in guerra gli ostaggi erano innocenti e non potevano essere uccisi; da ciò venne come conseguenza il fatto che se uno Stato governa con questi metodi, è uno Stato che non si può accettare. Ecco, io ho incontrato la politica così. Quando sono tornata a casa dopo avere visto le impiccagioni dei ragazzi, sapendo che quello che avevamo visto si sarebbe chiaramente ripetuto, la prima scelta che ho fatto è stata di dire: uno Stato che legittima queste uccisioni non è uno Stato che si può accettare, occorre impegnarsi per abbatterlo e per abbatterlo occorre perdere la guerra, combattere per la pace, perché dopo la pace si possa realizzare una società dove eccidi, uccisioni e barbarie non siano più ammessi”. “Ricordo sempre un treno, uno dei tanti treni che passava sempre per la stazione del mio paese con tutti i carri piombati, dentro c’erano ragazzi che gridavano, avevano bisogno di acqua, avevano bisogno di cibo, facevano passare per le fessure dei carri bestiame biglietti con gli indirizzi delle loro famiglie perché le avvisassimo”.
Tina Anselmi divenne staffetta della Brigata Autonoma “C.Battisti” e del Comando regionale del Corpo Volontari della Libertà.
Madri Italiane!

 

I tedeschi e i fascisti vogliono arruolare i vostri figli per mandarli al fronte, per mandarli in Russia a combattere con i tedeschi, a compiere opera criminale a tradimento. NON LASCIATE RAPIRE I VOSTRI FIGLI! Molto facilmente non li rivedreste più, perché i nazifascisti e quanti servono sotto le loro insegne saranno certamente schiacciati dagli eserciti vittoriosi delle Nazioni Alleate. NON DATE AI TEDESCHI I VOSTRI FIGLI! Incitateli invece a raggiungere i Patrioti, le gloriose Brigate d’assalto Garibaldi: compiranno così, opera onorata e patriottica, concorrendo a ridare al nostro popolo a alla nostra Patria, libertà e indipendenza.

 

I gruppi di difesa della donna E per l’assistenza ai combattenti della libertà

 

Manifestino rivolto alle madri

 

Tratto da

 

http://www.anpi.it/storia/196/le-donne-nella-resistenza