La battaglia di Pil Marica – Emilio Rubera

La battaglia di Pil Marica

di Emilio Rubera

Dopo la decisa e responsabile riposta del Gen. Giovan Battista Oxilia, comandante la Divisione «Venezia», alle ingiunzioni prepotenti ed offensive dei tedeschi, i fanti dell’83° dell’84°, gli artiglieri del 19° ed i Servizi si resero conto che un’alleanza mai voluta era entrata in conflitto.

Già gli informatori seguivano da vicino le mosse del nemico. Ai primi di ottobre i tedeschi si preparavano a distruggere, una volta per tutte, l’Unità italiana dislocata in Montenegero (Andrijevica, Barane, Brodarevo, Bijelo Polje, Kolasin).

Il I/84 si trovava in quei giorni a Berane, dislocato al di là del fiume Lim, e tutto faceva pensare che quella postazione non sarebbe stata abbandonata per la difesa stessa di Berane, sede del Comando di Divisione e, soprattutto, sede dei depositi divisionali di viveri, equipaggiamenti, armi e munizioni.

Così non fu. La sera del 17 ottobre 1943, il Comando di Battaglione riceveva l’ordine di trasferirsi oltre Matesevo per fermare i tedeschi almeno per 48 ore. Tempo necessario per trasportare sui monti ad ovest di Berane la maggior quantità possibile di scorte di ogni genere.

L’azione tedesca a sud dello schieramento della «Venezia» era prevista per il 19 ottobre e per quel giorno dovevamo esser pronti al primo urto con un nemico agguerrito, dotato di armi moderne, ben equipaggiato, con carri armati ed autoblindo ed appoggiato da aerei da combattimento: i terrificanti stukas.

Ero rientrato da poco al mio battaglione proveniente dal Il Battaglione, là inviato per un incidente di percorso. Il II/84 era allora comandato dal Cap. Licata.

Assunsi il comando della 32 compagnia al posto del Ten. Gabellini trovato dagli eventi in Italia, quindi non rientrato al reparto.

Il 1/84, comandato dal Magg. degli Alpini Lionello Albertini, ottimo ufficiale in s.p.e. sotto ogni aspetto, si attestò fra Pil Marica e Pil Krusica la mattina del 19 ottobre. Alla 3a compagnia fu ordinato di schierarsi a caposaldo sul Velij Ivani. Ordine perentorio del Magg. Albertini: "Ten. Rubera, ho detto caposaldo, capito?" Avevo capito anche troppo.

Pur considerando quell’ordine errato, non feci commento alcuno con i mea subalterni. Non sarebbe stato prudente far sorgere preoccupazioni in aggiunta a quelle, che avevano già invaso la mente dell’intera compagnia.

Nella salita per raggiungere la vetta di Velij Ivani (1432 m.) rimuginavo l’ordine ricevuto e mi domandavo se il comandante di battaglione aveva meditato tutto l’insieme prima di pronunciare: "caposaldo", per giunta senza prima spiegare la situazione in un sia pur breve rapporto ufficiali.

Raggiunta la vetta, mi accorsi che ero il più alto di tutti. Seguito dai miei ufficiali, mi premurai di ispezionare la zona per scegliere la posizione più adatta per respingere l’attacco ed anche la più idonea per ripararsi dai colpi di artiglieria nemica. Per le granate di mortaio c’era poco da fare. Ognuno non aveva altro da fare che raccomandarsi l’anima.

La vetta di Velij Ivani ci fu amica. La nostra destra era impraticabile, la parte anteriore presentava un terreno a pascolo, cioè prato, con un dislivello del 30 per cento circa, leggermente boscosa la parte sinistra del nostro schieramento che permetteva però di ben osservare la strada proveniente da Lijeva Rijeka, villaggio certamente di attestamento delle truppe tedesche.

Mi era stato assegnato un plotone mitragliere al comando del S.Ten. Firpi. Potevo inoltre contare sul fuoco di due obici da 75/13, della batteria assegnata al battaglione e dei mortai della compagnia AA al comando dello stesso comandante di compagnia, Ten. Torello Sardi.

Avevo lasciato Sardi dietro la prima curva sulla strada per Matesevo. Ricordo che ci guardammo negli occhi. In un istante quello sguardo ci aveva detto tutto. Dopo un abbraccio, Sardi mi gridò: «Ricordati, due razzi rossi richiesta di fuoco a volontà nella direzione indicata dalla scia, uno verde allungare il tiro». Gli sorrisi e gli gridai: "Grazie!"

Il Velij Ivani presenta un crinale che guarda a sud-ovest (provenienza tedesca) di 70-80 metri lineari. Ad un metro dal crinale, naturalmente sbalzato, fatte tutte le considerazioni del caso, feci schierare l’intera compagnia con l’intermittenza di una mitragliatrice a 35 metri di distanza l’una dall’altra.

Il S.Ten. Firpi fu avvisato che al mio ordine: copertura, doveva riunire tutti i suoi mitraglieri alle nostre spalle. Eravamo pronti per ricevere il primo urto.

Sgombrai subito la mente da quanto poteva turbare la necessaria lucidità. L’esperienza era ormai tanta ed il fronte greco albanese mi aveva insegnato molto cose. Avevo allora 20 anni e ricordo di avere avuto un grande maestro sul Breskenikut, il mio Cap. Magg. di circa 8 anni più anziano di me e reduce di tante patrie battaglie. Nei momenti più difficili lo volevo vicino per «succhiare» un po’ della sua esperienza e del suo coraggio. Grazie ancora «baffone»! Non ho saputo più nulla di te, se sei rientrato, se sei ancora vivo., Sappi, se la tua anima testé invocata mi assiste in questo racconto, che per me sei sempre vivo e che morrai solamente con me!

Sgombrata la mente, pensavo solo a ripassare mentalmente i regolamenti che, un comandante di compagnia, in quei frangenti, aveva l’obbligo di rispettare: primo per respingere il nemico: secondo per salvare più vite umane possibili.

Portavo sempre con me una bomba a mano tedesca, di quelle col manico. Era stato un omaggio del Cap. Daumiller, giovanissimo comandante dell’avanguardia della Divisione corazzata «Principe Eugenio» che nel 1942 aveva attraversato Andrijevica ed i signori ufficiali erano stati ospiti della nostra mensa. Eravamo allora amici, diciamolo pure, amici forzati. Fu in quella occasione che ricevetti in omaggio quella bomba a mano che al Pil Marica desiderai ardentemente restituire, ma senza la prima sicura.

Ogni attesa è snervante, in prima linea è addirittura un tormento. La mente è occupata da mille pensieri: la famiglia, la morte, il ferimento, il dovere, la sconfitta, la vittoria. Il turbine dei pensieri, tutto aumenta di intensità; tormenta, rende esausti, nervosi, scomposti ma ha quasi sempre la meglio la saggezza. Certo, prevale la ragione che ti suggerisce di stare calmo. Senti come una voce che ti bisbiglia: se sarai calmo vincerai! È proprio così. La calma è la virtù dei forti.

Erano le ore 10 del 19 ottobre e la vallata per il silenzio sembrava in pace con gli uomini e la natura. Quel silenzio mi insospettì e fu la causa di un mio passo falso: mi alzai in piedi per vedere meglio. Una raffica di mitraglia sbagliò le mie caviglie di 5 centimetri circa. Lascio a chi legge immaginare quanto sangue affluì in quell’istante al mio cervello. Oltre al sangue quante funeree considerazioni affollarono la mia mente ! Andò bene; così, per caso, seppi che il tedesco era là in agguato e feci passare la voce: in guardia!

Sparai due razzi rossi per indicare ai mortaisti la collina da battere. Il Ten. Sardi non si fece attendere, le granate di mortaio esplosero tutte sulla collina da dove doveva essere partita la raffica. Non vi fu reazione

Verso le 11, durante un’ispezione, trovai il Serg. Magg. Dirubbo alle prese con un fucile mítragliatore inceppato. La tensione nervosa aveva ottenebrato la mente del bravo sottufficiale. Gli tolsi l’arma ricordandogli che alla Scuola allievi per smontare e rimontare il fucile mitragliatore ci impiegavamo 45 secondi.

Volli darne la dimostrazione. Mi trovavo così fra le mani quell’arma pronta per il fuoco, quando sentii una voce dalla mia destra che sibilava: «I tedeschi stanno salendo». Carponi, volli accertarmi della cosa. Era proprio vero. 1 tedeschi, a passo lento ed a zig zag per eccessiva pendenza del terreno, si avvicinavano frontalmente. Imposi il silenzio ed il pronti al fuoco immediatamente dopo la mia raffica.

Solo chi ha vissuto quegli istanti può capire perché il cuore aumenta impetuosamente i palpiti da infarto. Attesi che quel plotone di giovanissimi, che avanzava lentamente, fosse più vicino possibile.

La mia posizione era un vero e proprio osservatorio. Da quel punto, col binocolo, potevo vedere bene l’intera vallata e le colline circostanti. Avevo già notato lo sganciamento della V compagnia del Cap. Amadei e della 2 del Ten. Giuffrida. I tedeschi del plotone in arrampicata erano ormai vicinissimi.

Con la calma che i miei soldati mi hanno sempre riconosciuto, avendo constatato che una pattuglia di guastatori tedeschi ci aveva superato sulla sinistra, bisbigliai al S.Ten. Firpi di prendere posizione con i suoi uomini sulla collina dietro le nostre spalle e di coprire la ritirata, se necessario, col fuoco delle mitragliatrici.

Puntai subito dopo il mitragliatore sul tedesco primo di fila giunto a non più di trenta metri circa dalla nostra postazione e feci partire a ventaglio una raffica di venti colpi. I fanti della 3a scaricarono simultaneamente i loro fucili. t

A quel punto reputai che non avremmo mai potuto difendere quella quota perché sarebbe stata da lì a poco battuta dagli stukas.

Fu per questa considerazione che ordinai la ritirata. Oltre tutto il nostro compito era quello di rallentare la marcia tedesca di almeno 48 ore per dar modo ai servizi di Berane di salvare il salvabile. Uscire di scena voleva significare alleggerire ai tedeschi il loro compito cioè quello di arrivare rapidamente e quasi di sorpresa nel centro nevralgico della «Venezia».

Lo sganciamento avvenne ordinato e secondo gli ordini.

La seconda collina verso Matesevo fu la nostra nuova postazione in attesa del secondo scontro. Da questa posizione potemmo constatare che la nostra azione su Velij Ivani era riuscita. Non meno di cinque autoambulanze tedesche si erano portate sotto per recuperare i feriti. La rappresaglia non poteva mancare. Dovettero però segnare il passo.

Avevamo trascorso la notte sotto i bengala. Nella notte del 20 ottobre, circa 300 metri dietro la nuova posizione, veniva incendiato il ponte di legno sulla strada. Questa azione, seppi molto più tardi, l’aveva condotta volontariamente il S.Ten. Sarlo.

Era l’alba del 20. Verso le 10 due stukas effettuarono un carosello infernale sulle nostre teste e sganciarono il loro carico sui boschi che fiancheggiano la strada. Salva la 3 compagnia attestata sullo schienale che domina Matesevo. Ci rimisero le penne due partigiani di Tito che si trovavano ai margini della strada.

Verso le 11 pattuglie tedesche con cani lupo avanzarono guardinghe. Utile in questo frangente fu la presenza del fucile 91. Detti ordine di sparare ai cani con alzo 8, tutti insieme. L’azione-ebbe successo. I tedeschi, causa gli echi multipli per il restringimento della vallata, non riuscirono ad individuare il punto esatto di provenienza degli spari e si fermarono alla prima collina.

Nel bosco il buio piombò rapido ed inesorabile. Riposammo qualche ora su di un prato accovacciati l’uno dietro l’altro per riscaldarci. Le poche coperte servirono per il primo e l’ultimo di ogni «ciambella» umana.

Finché furono sparati i bengala avemmo la certezza che il nemico era fermo. Alle prime ore del 21 ottobre eravamo al terzo giorno. Avevamo vinto!

Lasciammo quella posizione su Matesevo e, ancora buio, occupammo la strada Matesevo-Kolasin per sorvegliare eventuali pattugliamenti notturni tedeschi. Fu allora che inviai una pattuglia a Kolasin per rintracciare il battaglione col quale avevo perduto ogni collegamento dal 19 ottobre. La popolazione civile di Kolasin non aveva notato alcun passaggio di soldati italiani. La 3 compagnia, raggiunta Kolasin, si indirizzò verso Mojkovac. A pochi chilometri da questo paese, sotto un castagneto molto ombratile, il 1/84 aveva issato le tende per fare il punto della situazione. Trovai, ricordo, i comandanti di compagnia a rapporto e mi limitai a dire al Magg. Albertina queste telegrafiche parole: «La 3 compagnia ha fermato i tedeschi per ben 72 ore»!

Dopo 49 anni ogni altro commento sarebbe stato fuori luogo. Ma forse una constatazione è doverosa e può-essere avanzata.

Il soldato italiano è meraviglioso: anche nelle ore più difficili e critiche.

La guerra comunque e dovunque combattuta è una criminalità, ma quando ci sei non puoi fare il tuo dovere senza armi, senza viveri, senza vestiario e senza munizioni. Ironia della sorte: eppure il soldato italiano, nel nostro caso i garibaldini della Divisione italiana partigiana «Garibaldi», privo dell’essenziale e confortato soltanto dal coraggio, dall’intelligenza e dall’innato spirito di abnegazione, è riuscito, nella seconda guerra mondiale, tante volte e in molte occasioni ad esternare il proprio io eroico.

Dedico questo breve racconto ai Caduti della 3° compagnia del 1/84 fanteria «Venezia» con l’orgoglio di far sapere, soprattutto ai denigratori, che circa duecento uomini, armati solo di coraggio e di amor proprio. sono riusciti a fermare un battaglione di guastatori tedeschi 24 ore in più di quanto era stato loro ordinato.

A me ancora oggi la gioia di poter affermare che in quella occasione non un solo uomo è caduto di quel pugno di eroi che seppero obbedire agli ordini del loro comandante, giovane come loro ma vecchio, per le responsabilità di cui sempre ha doverosamente sopportato il peso

Il nemico “la neve”

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