Giovanni Riccioli – 9 settembre Stazione Termini

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Scarpe rotte
E pur bisogna andar…..

Racconti del premio Prato
1951 – 1954

Giovanni Riccioli
9 settembre Stazione Termini

* Premio Letterario Prato 1954.
Racconto segnalato.

Erano le tre del pomeriggio. La radio continuava a ripetere il comunicato di Badoglio. Passarono di corsa alcuni carabinieri con la giubba sotto il braccio: indossavano giacche civili e ancora i pantaloni con le bande rosse e le fasce. L’ex ufficiale dell’esercito disse loro che tanto valeva camminare armati, col berretto, la giubba, e anche le manette per i ladri. Due carabinieri, indifferenti, risposero che i tedeschi avevano ucciso tre loro compagni mentre tentavano di fuggire dalla caserma.
Entrarono nel rifugio del cinema Volturno: un rifugio comodo, con le poltrone della sala di aspetto e i cartelloni degli ultimi film UFA. Tutti si fecero attorno a loro. L’infermiera, che abitava proprio sopra il cinema, sali a casa e ritornò subito con pane e acciughe per i due militari. La signora Maria, che aveva il marito capitano del Genio, chiese notizie: i carabinieri le assicurarono che il capitano, se era ancora a Monterotondo, era già in salvo. « Ci sono gli americani. hanno lanciato i paracadutisti », annunciò uno di loro. Il dentista, che abitava anche lui sopra il cinema, disse che sapeva di Ostia, ma di Monterotondo no.
Si udirono degli spari. Poi si fece silenzio. La moglie del capitano si sbottonò la camicia e cominciò ad allattare il bimbo che teneva sulle braccia. Un giovane alto apparve all’improvviso sulla porta della sala d’aspetto-rifugio: accese una sigaretta e guardò tutti in faccia. La signora che affittava le camere chiese al giovane se sapeva niente dei tedeschi, degli americani e di tutta la faccenda: il giovane alto rispose di no con la testa, e continuò a fumare. « Questo ricovero fa ridere », disse, « però ci si sta benone perché ci sono sedili di gomma ».
Il dentista gli spiegò che era la sala d’aspetto del cinema; il giovane annui col capo. « Aspettiamo che arrivino », disse.
Altri spari: « Mitragliatrici pesanti », sentenziò l’ufficiale in pensione. Si sentivano i colpi sparati a intervalli regolari, stanchi quasi. E fu per una mezz’ora. Poi tutta la strada risuonò di grida, di voci, di commenti. Tutti uscirono dal ricovero.
« I tedeschi sparano al Continentale ».
« Ci sono anche le camicie nere ».
« Sono rispuntati fuori, vigliacchi! ».
« E gli americani? ».
« Dicono che li hanno visti a Ostia, stamattina ». « Ci sono anche i bersaglieri con loro ».
Il crepitio delle mitragliatrici si fece più insistente, intervallato dallo scoppio pesante delle bombe a mano. Poi la mitraglia riprese monotona: la gente tornò a parlare.
Un giovane arrivò di corsa dalla piazza della stazione; ansimante, carico di notizie, eccitato. « Ci sono i tedeschi. Sparano dalle finestre degli alberghi. Dal Continentale, dalla Casa del Passeggero, dal Roma… Hanno i cannoncini. Aprono le finestre all’improvviso e sparano. Poi riaprono da un’altra parte. Noi siamo una cinquantina. Abbiamo bisogno di munizioni, di fucili, di gente… ».
« E gli americani? », chiese il giovane alto, che era entrato nel rifugio del cinema per ultimo. « Che fanno? ».
« Hai voglia di aspettare, caro mio! », disse il giovane che veniva dal Continentale. « Questi, se non li butti fuori tu, non se ne vanno ».
L’ex ufficiale disse che si doveva fare qualcosa, muoversi. agire. « Io ho un vecchio fucile a casa e qualche rivoltella. Se vi servissero disponete pure di me ».

Dall’angolo della strada, dalla parte di via Cernaia, si sentirono degli applausi, forti e insistenti. Alcune finestre si erano aperte e bambini e ragazze lanciavano fiori. Veloci, passarono due autoblindo scoperte: su ciascuna c’erano otto uomini: avevano le facce riarse dalla polvere e dal sole. Si fermarono davanti al Caffè Giuliani; la gente li circondò, essi presero dell’acqua e ripartirono subito. « Arrivederci », gridò uno di loro. La gente batté le mani.
« Poveracci », commentò il giovane alto, « perché non se ne vanno a casa, chi glielo fa fare? ».
« La disciplina », mormorò timidamente l’ufficiale in pensione.
Passò qualche minuto, e si sentirono dei colpi di mitraglia, poi altri ancora, seguiti da due violente esplosioni. Poi fu di nuovo silenzio. Allora il giovane che veniva dal Continentale disse che forse i soldati erano morti.
« Tutti », obiettò uno, « è impossibile. Sarebbero stati degli sciocchi a farsi sotto insieme ».
Una mitragliatrice crepitò, poi altri spari si susseguirono per qualche minuto, infine silenzio di nuovo, come in un giorno qualunque, quasi che da un momento all’altro si potesse perfino udire il tram 16 venire dalla stazione.
Ogni tanto un passante portava notizie: diceva che nel tal posto e nel tal altro si combatteva, che li i tedeschi erano stati cacciati, ma che invece là avevano occupato la caserma e si erano impadroniti di tutto. Voci misteriose circolavano velocemente, si ingrossavano, allarmando o tranquillizzando: alcune avevano vita breve, un momento duravano: poche parole in un rifugio, in un capannello, in una casa; altre, invece, circolavano a lungo e tenevano sospesi gli animi e alimentavano la speranza.
« Ma sei sicuro? ».
« Sí, l’ha detto Angelo ».
« E Angelo come l’ha saputo? ».
« E che ne so io? Lui ha detto così. Che dici di fare? ». « Se è vero si potrebbe tentare ».
« Passiamo da Rino… Sta qui dietro, al ricovero dell’ATAG ».
Voltarono l’angolo e subito si sentirono dentro la guerra; bastava voltare l’angolo per esserci in mezzo. Rino lo trovarono subito, in mezzo alla gente che occupava l’entrata dei ricoveri, e che non si decideva né a entrare né a uscire.
« Lo sai che ha detto Angelo? ».
« Be’, che v’ha detto? ».
« Dice che alla Batteria Nomentana dànno le armi ». Rino allora li guardò dritto in faccia e disse gravemente:
« Voi siete d’accordo? ».
« Si », disse Pippo, « noi ci stiamo. Anche Carletto ci sta, -vero? ». i i
« Allora, sentite, non c’è bisogno di andare fino alla Batteria: se camminate neanche cento metri, là nel giardino ci stanno un mucchio di fucili e di bombe: tutto quello che volete ».
Ammutolirono.
« Allora », fece Rino, « v’è passata già la voglia? ».
« Che, sei scemo? », disse Carletto. « Andiamo subito ».
« No », intervenne Pippo, « andiamo a chiamare Angelo.
Dobbiamo andare tutti insieme ».
« Sta all’osteria: gli è tornato il fratello da Civitavecchia », disse Rino.
Ma all’osteria, Angelo non c’era: non sapevano più dove cercarlo. Il fratello era ancora vestito da marinaio, disse che lui lo avrebbe scovato, e insieme con i tre amici corse verso la stazione.
« Passiamo dai giardini », disse Pippo, « passiamo dai giardini ».
« Senti come sparano », commentò Carletto.
« Chi ha paura, se ne può anche andare », disse il marinaio. « Io non voglio avere rimorsi sulla coscienza ».1

Ormai da una parte e dall’altra si sparava senza risparmio: i tedeschi dagli alberghi, dalle finestre semichiuse, dalle terrazze, dai balconi; e gli altri dal piazzale di fronte al Continentale, dalla stazione, da via Gioberti, da via Cavour, dal largo Massimo, dalla Casa del Passeggero.
« Come si. fa a sparare? Io non so sparare », si lamentò Carletto.
« Vedi che cosa significa non avere frequentato le adunate della GIL? », scherzò Rino. « Almeno ora sapresti sparare ».
Gli altri risero. « È semplice », spiegò il marinaio caricando il fucile a tutti, «è semplicissimo. Mettete in tasca un po’ di caricatori. L’importante è avere le munizioni. Quanto a sparare basta abbassare il grilletto e ricaricare… così », e fece scorrere l’otturatore, bloccandolo, con una mossa ormai esperta. « Viene naturale. Come quando ti buttano a mare e dopo un po’ di batticuore ti accorgi che sai nuotare. Ci siete allora? ».
«Si».
« lo ho un po’ di paura », disse Carletto. « E’la prima volta, e abbozzò un sorriso. Gli altri gli dettero un colpo sulla spalla e lo trascinarono via. Attraversarono di corsa il piazzale, sostarono un attimo al riparo dell’entrata principale della stazione, e poi, dall’interno, si riunirono a un gruppo di giovani asserragliato tra le macerie di Termini.
« Dove stanno? », chiese ansimante Carletto.
« Terzo piano: la quinta, la sesta, la settima finestra a cominciare da sinistra. Al quarto piano: la prima, la seconda, la terza, sempre a cominciare da sinistra. Gli altri non li abbiamo ancora individuati ».
« Dentro ci stanno anche i fascisti », disse un facchino.
« Ogni tanto aprono le finestre e ci fanno sentire Giovinezza ».
« Che ragazzi allegri! », commentò il marinaio.

Improvvisamente una finestra del quarto piano si spalancò e una mitragliera cominciò a sparare sul piazzale.
« Sotto, perdio! », fece il facchino. « Lasciateli sfogare ». Altri spari fecero eco lontano.
« Chissà in quali altri posti si combatte », disse uno.
« Ci sono tanti soldati a Roma. Domani non ci sarà un tedesco ».
« Dovremmo essere di più, qui », aggiunse un tranviere, abbassando il capo perché i tedeschi avevano ripreso a sparare da tutte le finestre.
« I signori a combattere non ci vengono. Oggi dovrebbero combattere tutti ».
facile dirlo ».
E i commenti fioccarono per tutto il gruppo acquattato tra le macerie.
« Guarda questi: sono ancora ragazzi e stanno qui ».
« Tu faresti meglio a toglierti la casacca: così sei un buon bersaglio ».
« Non temere ».
« Dove sarà Angelo? », chiese Carletto che ormai aveva smaltito la paura.
« Lo troveremo », rispose il marinaio.
« Certamente », disse Rino, « lo troveremo. Il 25 luglio, quando successe tutto quel putiferio lo ritrovai al Vi-minale tra i granatieri che sparavano contro la Milizia. Bisogna fare qualcosa diceva, , bisogna fare qualcosa’, come se tutto dipendesse da quella scaramuccia ».
« Anche questa è una scaramuccia, allora », disse il tranviere.
Tutti risero.
« Questo non lo so », obiettò il marinaio. « So solo che qui ci sono venuto volontario, e volontari ci siete venuti tutti ».
La mitragliatrice tedesca tacque. Allora il marinaio si rizzò in piedi dalla sua buca, appoggiò saldamente il fucile alla spalla e rapidissimo scaricò uno, due, tre, quattro, cinque colpi sulle ombre gialliccia che manovravano attorno all’arma, alla finestra del quarto piano. Dalle altre finestre partirono contemporaneamente alcune scariche secche e rabbiose; altre seguirono dalla terrazza dell’albergo. Allora il tranviere, il facchino, Pippo, Carletto e Rino scattarono fuori dalle macerie e, in piedi, scaricarono i loro colpi contro le finestre del terzo e del quarto piano del Continentale. Altri colpi partirono dall’angolo destro della stazione demolita e dalla parte nuova. Quindi, gettato il fucile a terra, il tranviere di corsa si slanciò in mezzo al piazzale, addentò due volte i pugni stretti e lanciò le bombe, una dopo l’altra, contro la finestra che vomitava fuoco: due boati riempirono l’aria per un momento: una bomba colpi la finestra accanto, l’altra slabbrò quella sottostante. Una raffica precisa inchiodò il tranviere sulle rotaie.
« L’hanno fregato… ».
« Si muove! ».
Una raffica ancora.
« Bisogna andarlo a prendere ».
« Vado io ».
« Sei un bambino ancora. Esco io. Sparate tutti insieme. Via! ».
E il facchino usci, raggiunse il tranviere, se lo caricò addosso e di corsa ritornò fra le macerie mentre gli altri continuavano a sparare per coprirgli le spalle. Uno aiutò il facchino a deporre il tranviere a terra; gli altri continuarono a sparare in silenzio, con movimenti ormai meccanici. Il facchino guardò il tranviere a terra e con una smorfia fece capire che non c’era più niente da fare.
« Mi chiamo Giuseppe Lenti… Abito al Trionfale… », mormorò il tranviere. « Mio padre si chiama Libero… ».
Il facchino e l’altro ritornarono tra i compagni, ripresero i loro fucili e insieme con gli altri continuarono a sparare contro i tedeschi. Poi il facchino, ricaricando il moschetto, annunciò che il tranviere era morto.
Si spalancò di nuovo la finestra del quarto piano e la mitraglia tedesca cominciò a tempestare di colpi l’angolo destro delle rovine di Termini, da dove sparavano altri civili. Allora, proprio da un gruppo vicino a quello del marinaio, uscirono cinque ragazzi, la camicia sbottonata e rigonfia di bombe, attraversarono di corsa, gridando, tutto il piazzale, poi, tutti insieme, lanciarono i loro ordigni contro le finestre dell’albergo. Quella dov’era appostata la mitragliatrice, raggiunta in pieno da alcune bombe, tacque finalmente, ma altre si spalancarono, e da esse i tedeschi aprirono un fuoco violento contro i cinque ragazzi che, veloci, ritornavano al riparo. Uno di loro, l’ultimo, proprio mentre stava raggiungendo le macerie, fu colpito da una scarica e si afflosciò sui compagni, che avevano seguito frementi l’azione.
« Angelo! », gridò allora il marinaio. « Che t’hanno fatto? Angelo che t’hanno fatto?… Angeloooo! », e scappò di corsa con Pippo, Rino e Carletto, gridando e piangendo, finché raggiunse il fratello ferito. «Angelo sono qua io, Angelo. Parla per carità, parla ».
Carletto nascose il viso dietro le spalle di Pippo, e si mise a piangere.
Allora, Angelo guardò tutti, fece una smorfia, poi disse: « Questa storia la dobbiamo fare finire noi… ». Poi sollevò la mano e salutò tutti. « Non fate venire il prete », disse.
Lo portarono via. Carletto piangeva, gli altri, le facce pallide, guardavano la gente che parlava e voleva sapere tante cose. Imboccarono via Volturno, passarono davanti al cinema, poi presero per via Montebello.
« E gli americani? », chiese il giovane alto. « Quando arrivano? ».
« Se stamane erano a Ostia, dovrebbero essere già. qui », disse l’ufficiale in congedo.
Angelo fu deposto su un tavolo all’osteria, e subito tutti quelli che lo conoscevano, che prendevano il vino da lui, i ragazzi, le ragazze, gli amici, si fecero attorno al suo corpo. Una vecchietta, che spesso passava qualche ora in cantina per bere un quartino, cominciò a mormorare una preghiera. Allora il marinaio disse che il fratello era morto per la libertà di tutti.

Edizioni Avanti!
1955

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