Vicchio: il battesimo del fuoco

VICCHIO: IL BATTESIMO DEL FUOCO

Il nucleo politico della nostra formazione era in montagna dall’11 settembre 1943; il 1° marzo eravamo un distaccamento garibaldino di centodieci combattenti che avevano già fatto numerose azioni di requisizione presso gli ammassi nazifascisti. A metà con la formazione del Partito d’Azione, a Monte Giovi avevamo avuto un lancio aereo degli alleati.

Il nome che avevamo dato al nostro distaccamento era “Faliero Pucci”, un compagno ucciso dai fascisti nella zona del Pistoiese. Ma tutti ci chiamavano “quelli della Stella Rossa”, per il fatto che sul berretto o sul petto a sinistra avevamo cucita una piccola stella rossa.

Quella mattina del 1° marzo con una ventina di uomini e Lazio, Comandante Militare, ed io, Commissario Politico, andammo in giro per le frazioni di Vicchio.

A un certo punto Lazio mi disse: “Si va a S. Martino a Scopeto?”

“Andiamo a S. Martino a Scopeto”, risposi.

“Sì”, continuò Lazio, “andiamo subito a trovare Don Giuseppe Donatini,

perché è uno dei nostri.”

“Come uno dei nostri?”

“Sì, è sempre stato un compagno Don Giuseppe Donatini. Durante il

‘ventennio’, è sempre stato antifascista e, malgrado due lauree, non ha fatto carriera.”

Non solo era un prete intelligentissimo, ma anche un uomo generoso, serio, coraggioso; non a caso, “aveva preso a cazzotti in piena piazza, un paio di squadristi: la maggioranza della gente gli voleva un bene dell’anima!”

Così, chiacchierando, si scese dal versante nord del Tamburino verso la chiesa di S. Andrea a Barbiana e si risalì verso S. Martino a Scopeto.

La pieve è posta su un poggio che è quasi a contrafforte del Monte Giovi, che domina a sua volta tutto l’Appennino.

Sopra al portone della chiesa una ceramica tonda di scuola Robbiana.

Il sole ci batteva sopra e rifletteva sulla bianca facciata tutti quei colori.

Mentre guardavamo quello spettacolo di bellezza, ecco che arriva quest’uomo di corsa, con una tonaca non più nera ma grigia, scolorita e rattoppata, le scarpe rotte, proprio il rappresentante della miseria più squallida.

Lazio mi presenta come “un vero comunista”. “Giuseppe, siamo grandi amici, fratelli anche se ci conosciamo da pochi minuti, la nostra amicizia è basata sulla volontà e sulla lotta perché l’umanità sia libera e possa vivere fraternamente in un mondo felice e di pace, senza conoscere più la fame, la dittatura e la violenza. Siamo combattenti insieme, vogliamo le stesse cose, partendo da due posizioni diverse.”

Don Donatini mi ascoltò attentamente e mi disse: “Guarda, dopo quello che ho saputo su di te, da come ti comporti, da quello che mi dici, sei più sulla Via del Signore tu di tanti che vengono qui a battersi il petto, a confessarsi, e poi escono e peccano più di prima. Quindi non ti preoccupare di nulla. So chi sei. Mettiamoci subito a lavorare.”

Vista la sua disponibilità, parlammo della Resistenza e del ruolo che la classe operaia, i contadini, la Chiesa, gli uomini di cultura avrebbero dovuto avere in questo secondo risorgimento, in questa Resistenza Armata.

Al termine della mia esposizione, lo trovai subito disponibile su tutto quello che c’era da fare: “Vengo a combattere con voi! Sono anche un buon tiratore. Se vuoi lascio la chiesa anche subito. Mi dispiace perché non potrò aiutare più i miei parrocchiani, ma sono a vostra disposizione.”

“No”, dissi io, “penso, anzi sono più che sicuro, che tu sia più utile qui in chiesa.”

“Dimmi che cosa c’è da fare.”

“Per prima cosa vogliamo impedire il conferimento dei generi alimentari agli ammassi, siccome le fattorie sono un po’ sparpagliate, ci vuole il tuo aiuto per le ubicazioni, quali sono le più importanti; ci vuole il tuo aiuto per convincere i contadini a venir con noi con le loro tregge tirate dai buoi, per ritirare le merci requisite e portarle fin qui in piazza dove divideremo la roba che doveva andare in Germania in questo modo: il 50% alla popolazione comprese le famiglie sfollate che soffrono la fame; il 25% alla famiglia del contadino che viene con la treggia, l’altro 25% da portare con le tregge al nostro campo per il sostentamento della formazione.”

“Sono d’accordo su tutto: per il giorno e l’ora che mi direte vi farò trovare i contadini con le tregge che vi porteranno diritti alle fattorie; dove si sa che c’è parecchia merce da requisire ne manderemo due.”

“Scusa Giuseppe, mi ero dimenticato di dirti che su tutto quello che nelle fattorie verrà requisito lasceremo un preciso elenco firmato da me come Commissario Politico e timbrato con il timbro del CLN che ho sempre in tasca. Questo documenterà presso i tedeschi che la roba l’abbiamo requisita e portata via noi; dopo la guerra il nuovo governo rimborserà tutti coloro che hanno avuto la merce requisita.”

Giuseppe, entusiasta, ci disse subito di fissare la data, la parola d’ordine e la controparola. Fissammo dopo due giorni alle ore sei e trenta.

Ci riabbracciammo e ci lasciammo commossi. Ricordo che durante il lungo tempo che ci voleva per tornare al nostro accampamento, Lazio (che mi sopravvalutava) mi disse: “Senti Gianni, la storia del PCI me l’hai già spiegata, ed ho preso tanti appunti, mi spieghi ora la storia del Partito Comunista Bolscevico e la Rivoluzione d’ottobre?”

“Volentieri, tira fuori il quaderno e il lapis, così prenderai appunti anche su questo.”

Così ritornammo alla base.

Il 3 marzo, dopo un’attenta preparazione, si scelsero gli uomini adatti. Due squadre, una al comando di Bastiano e l’altra di Timo, i due che si erano fatti più valere; inoltre Berto come Comandante Militare ed io come Commissario Politico.

Giungemmo a S. Martino. Bloccammo subito le strade per Vicchio e per Dicomano con l’ordine

che nessuno doveva lasciare il paese. Nessuno doveva uscire, nessuno doveva entrare.

Andai da Don Donatini, che mi dette le indicazioni su dove erano situati gli ammassi: Villa Lotti, S. Biagio, Boccagnello, Bricciana, l’Arena ecc…Mi feci dare l’elenco dei casi più bisognosi.

Una decina di tregge erano schierate lì sul piazzale, così fattoria per fattoria mi presentai con un gruppo di armati di scorta.

Mi facevo dare il registro: da lì risultavano le merci che dovevano essere portate agli ammassi, erano già elencate con l’ordinanza che arrivava dalle autorità fasciste e tedesche.

Requisimmo tutto l’olio, il vino, il grano, il formaggio e la lana e li portammo in due posti.

Distribuimmo agli sfollati, avevo tutti i nominativi: qualche volta anche senza nominativo.

Dove c’erano dei casi più precisi di miseria segnalata, venivano distribuiti due o tre quintali di grano e un paio di barilotti d’olio di 33 kg ciascuno, portati fino a casa su una delle nostre tregge.

Il 25% di grano e di olio lo caricammo su due tregge per portarlo su al nostro campo.

Due contadini si erano offerti di portare la roba fino al nostro campo.

Lasciammo la lana a delle suore che alla presenza di Don Donatini s’impegnarono a fare golf e calzini per i bambini ed i vecchi della zona.

Mentre eravamo addetti alla distribuzione, una macchina tedesca venne su verso il paese. Il posto di blocco la fermò: “Alt, mani in alto!”

Scesero giù due borghesi, quindi nascondemmo la macchina lì vicino e cominciammo ad interrogarli.

Non erano tedeschi; ci consegnarono i documenti. Uno era di Firenze, un giovane di ventidue anni che affermava di essere un compagno, l’altro più anziano – ci raccontò il giovane – era suo zio: si chiamava Falorni ed aveva una piccola fabbrica di medicinali e una villa, molto più su della chiesa dove appunto andavano a pranzare.

La macchina non era sua: poiché la fabbrica lavorava per i tedeschi, il maresciallo che controllava la produzione gli dava in uso la macchina.

Noi non eravamo in condizioni, in quel momento, di controllare se dicevano il vero o il falso.

Tenemmo lì i due, isolati, vicino alla macchina. Finita la distribuzione e caricate le nostre due tregge, prima di metterci in movimento bisognava trovare qualcuno che guidasse l’auto tedesca.

Vladimiro si offrì volontario: “Lo faccio volentieri”, effettivamente era un ragazzo sicuro, sempre pronto per le azioni più audaci.

Vladimiro partì con i due fermati e due partigiani armati di Sten e bombe a pina. Anche noi ci muovemmo.

Ovviamente al campo arrivò prima di tutti Vladimiro, noi arrivammo il giorno dopo, il 4 marzo all’alba. Ci venne incontro Dante tutto pulito, giacca militare, stivali lucidi da ufficiale, lo scudiscio… si era autonominato Comandante Militare e non voleva che si facessero azioni, bisognava aspettare lo sbarco alleato a Livorno.

Ci affrontò pieno di livore.

“Siete dei criminali!”, “Siete dei criminali e dei vigliacchi!”, “Siete dei provocatori!”

L’agguantai: “Dimmi un po’ cosa significano queste due assurde offese.”

“Sì, vigliacchi, criminali e provocatori perché avete portato qui due fascisti che non avete avuto il coraggio di fucilare.”

“Noi non li abbiamo fucilati, perché non ci sembrava giusto, uno si è dichiarato un compagno e ha fatto nomi e cognomi di compagni di Firenze che conosciamo anche noi; l’altro, che è suo zio, afferma di avere la villa sopra la chiesa e di avere una fabbrica di medicinali che porta il suo nome.

Don Donatini ci ha confermato che quanto ha dichiarato Falorni corrisponde a verità, quindi li abbiamo portati qui per avere il tempo di chiedere alla nostra organizzazione di Firenze maggiori e chiare informazioni.”

“Sono da fucilare subito e li dovete fucilare.”

“Non solo non li fuciliamo, ma ordiniamo ai compagni che li sorvegliano come prigionieri di impedire che venga fatta violenza!”

Mandammo a Firenze Pevere. Al ritorno, nella riunione del nostro comando, ci raccontò che i dirigenti fiorentini plaudivano al nostro comportamento in quanto il giovane era un bravo compagno con incarichi clandestini.

Lo zio era un uomo ricco, era stato fascista ma non era iscritto al Partito Fascista Repubblichino e con suo nipote, e attraverso lui, aveva regalato medicinali alla Resistenza e sottoscritto una certa cifra.

Attraverso loro, che col nostro comportamento salvammo dalla fucilazione, acquistammo contributi in medicinali.

La macchina la nascondemmo nel bosco.

Il 5 marzo ci spostammo nella zona del Tamburino (Monte Giovi). Era una giornata fredda, i partigiani tutti prima di partire salutarono il piccolo accampamento di Poggio a Gaipoli che li aveva ospitati per tanto tempo. Fu triste per noi abbandonare il primo campo della nostra vita partigiana, ma era necessario per la stessa vita della formazione. Così, dato un ultimo sguardo intorno per salutare tutte le cose, partimmo. Via via che salivamo attraverso il bosco innevato, vedevamo come un serpente bianco di neve la strada che porta a Colognole e che prosegue per Vicoferaldi, Tassinaia, fino a pochi metri dal Tamburino, a 804 m. Sulla cima del monte ne trovammo tanta di neve e dovemmo lavorare tutto il giorno per spalarla e per piantare le tende. Timo prese l’incarico di fare il pane nella casa del contadino del Tamburino; con sua espressa richiesta che questo suo lavoro non lo dovesse esonerare dalle azioni partigiane, alle quali voleva partecipare e vi parteciperà facendosi sempre onore.

Di lassù, da quella estrema cima di Monte Giovi, posta a 992 m, guardandoci intorno tra una continuazione di ondulate colline e di leggerissimi pendii, discendenti dal Subappennino e dall’Appennino, si elevavano innevate alture di un certo rilievo, tra le quali più imponenti Poggio

Tiglio, a 1111 m, e il Monte Giogo di Villore, a 1072. La bellezza di quella maestosa natura, l’odore degli abeti e dei faggi, il silenzio riposante del bosco ci facevano sentire più forti, più sicuri!

Intanto attraverso Radio Londra e Radio Mosca apprendemmo le notizie del grandioso sciopero iniziato il 1° marzo nell’Italia occupata dai nazisti e dai fascisti. Il 1° marzo 1944, alle ore dieci, oltre un milione di lavoratori erano scesi in sciopero nelle città dell’alta Italia, sostenuti dalle

formazioni partigiane. Anche se in un primo tempo il carattere dello sciopero poteva sembrare in apparenza economico, di fatto esso si dimostrerà una grossa manifestazione politica, organizzata d’accordo con il movimento partigiano. In Toscana, come ci era stato detto dal compagno Bertini,

che era rientrato in formazione con le disposizioni del centro del Partito di rimanervi fino a dopo l’azione di Vicchio, lo sciopero, dato il ritardo nella preparazione, sarebbe cominciato il 3 marzo, appoggiato da colpi di mano dei GAP e delle SAP. A noi della formazione partigiana Faliero

Pucci veniva riconfermato il compito di attaccare Vicchio di Mugello.

L’attacco era stato fissato per la sera del 6 marzo, in modo da spostare le forze di repressione nazifasciste dalla città e dalle zone industriali della provincia verso la montagna, verso i partigiani, e quindi alleggerire le forze repressive impegnate contro il movimento operaio. L’azione di occupare Vicchio era molto importante e anche difficile, intanto perché da Vicchio, grazie al Maresciallo dei Carabinieri Lucio Randazzo, fedele collaboratore dei tedeschi e dei fascisti repubblichini, partivano da tempo azioni di retate di renitenti alla leva o contro sospetti antifascisti. Non a caso il Maresciallo dei Carabinieri, odiato e temuto dai civili per le sue continue

minacce e persecuzioni, aveva ottenuto da tempo rinforzi della GNR. Quindi avremmo attaccato gente decisa a difendersi a oltranza. Oltre a ciò, bisogna tener conto che Vicchio è un comune con una superficie abbastanza vasta, confinante con Marradi, Borgo S. Lorenzo, Dicomano e Pontassieve ed è servito dalla linea ferroviaria Borgo S. Lorenzo–Pontassieve.

Essendo situato a 203 m sopra una ridente collina, ultimo contrafforte di una costa montuosa che dall’Appennino di Belforte si prolunga verso la Sieve, tra la confluenza di due torrenti, Muccione e Arsella, poteva ricevere rinforzi anche da altre località e quindi non solo da Firenze.

La superficie del territorio comunale di Vicchio, all’epoca contava circa 14 kmq con una popolazione residente di circa 10500 cittadini, più molte famiglie di sfollati. Altro elemento da tenere in considerazione è che l’esteso territorio del comune di Vicchio è percorso da oltre 100 km di strade carrozzabili, e in gran parte anche camionabili, che uniscono le ventitré frazioni del comune; rete stradale questa che si riallaccia a due strade che costeggiano la Sieve, cavalcata in quell’epoca da quattro ponti, di cui due antichi e due moderni costruiti in ferro, installati uno lungo la ferrovia Borgo S. Lorenzo–Pontassieve, poco lontano da quello di Ponte a Vicchio, e l’altro a Rupino. Elementi anche questi che per un’azione del genere andavano presi in seria considerazione perché c’erano le sentinelle e sopra i ponti c’erano i corpi di guardia. In direzione est–nord ovest Vicchio è inoltre percorso dalla strada provinciale “Traversa del Mugello” che corre,

come si sa, lungo la ferrovia e anche da qui potevano venire rinforzi al nostro

nemico.

Nonostante che dai dati e dalle informazioni prese in esame si evidenziassero

tutta una serie di difficoltà, come la nostra capacità o incapacità

di attacco, la durata delle nostre munizioni, il nostro scarso addestramento

e soprattutto le difficoltà dopo l’attacco per il nostro sganciamento

dal paese ed il rientro alle nostre basi; non ultima considerazione, quella

era praticamente la nostra prima azione di fuoco.

Nonostante tutto, decidemmo senza riserve l’azione di Vicchio, sia

per dare il nostro modesto contributo ai lavoratori che avevano scioperato,

sia per dimostrare ai contadini che sempre avevano avuto fiducia in noi

che eravamo lì per combattere contro il nemico, sia per dare una lezione a

quel Maresciallo dei Carabinieri fazioso e persecutore e anche per fare un

gesto di rispetto verso quei fedeli e bravi marescialli, brigadieri, militi della

Benemerita che per non piegarsi davanti al tedesco invasore erano stati

deportati in Germania, da dove non si sapeva se e quando sarebbero tornati.

La nostra azione avrebbe anche scosso e sollecitato altri carabinieri a lasciare

le caserme e venire con noi partigiani a combattere la comune guerra

di liberazione. Ad ogni buon conto, per compiere questa azione partigiana

dal centro del Partito era venuto l’ordine di compierlo di comune accordo

con i distaccamenti garibaldini “Checcucci” e “Siro Romanelli”, che

in quel periodo si trovavano accampati nella zona di Gattaia.

Così, tra gli ultimi giorni di febbraio e i primi di marzo, Ugo, Berto,

Dante, più volte accompagnati o dal nostro Raf (ex maresciallo di marina,

che avrà poi il fratello partigiano fra i caduti di Campestri), o dal nostro

Ricciolo, anche lui di Vicchio, andarono a Gattaia a parlare con Brunetto,

Mangia, Cecco per dividersi gli obiettivi della battaglia.

La mattina del 6 marzo, come stabilito, ci riunimmo al Tamburino

dentro la fattoria intorno al grande tavolone di quercia.

La staffetta, arrivata pochi minuti prima, ci portò una dolorosa notizia.

Ciro Fabbroni non sarebbe venuto: era stato assassinato a Firenze.

Di scatto, senza che nessuno desse un ordine, ci alzammo in piedi

sull’attenti e rimanemmo così per un minuto. Era il nostro estremo saluto

al compagno caduto per una grande causa.

Intorno a quel tavolo erano presenti: Ugo, Dante, Schillo, Bertini,

Berto, Pevere, Gigi, Gambero ed io.

Avrebbero dovuto essere presenti anche gli altri ufficiali: Lazio, Raf,

Bastiano; ma poiché Dante al primo punto aveva da dichiarare sue cose

molto personali, venne di comune accordo deciso di farli entrare a partire

dal secondo punto.

Aprendo la discussione sul primo punto Ugo disse: “Do la parola a

Dante”, e Dante tutto tremante affermò: “Vi devo confessare che stasera si

deve andare all’azione: io sono esaurito, se vedo un’arma mi impressiono,

non posso tenere neanche una pistola in mano. Non posso, non posso…”

Allora dico: “Ma come Dante, che cosa t’è successo? Ti senti male? Non

vorremmo che il nostro atteggiamento di fare le azioni mentre voi eravate

contrari ci mettesse uno contro l’altro, guarda che noi non abbiamo niente

contro di te. Si va a Vicchio, siamo amici più di prima. Speriamo che l’azione

vada bene!” “No, no! Io non parlo di Vicchio”, dice lui, “io mi stabilirò

qui, ad Acone, in casa di quella signora. Se volete, ma non ora, più in

qua, stando lì se potrò esservi utile a segnalarvi qualcosa, a farvi da collegamento

per qualcos’altro, potrò essere a disposizione; ma non mi parlate

di azioni di guerra, di uccidere gente, di andare… no, no!” “Noi stasera bisogna

andare a Vicchio, abbiamo degli impegni con la ‘Checcucci’; li avete

presi voi, noi li vogliamo rispettare. Dante, è la tua ultima parola?” “Sì”,

dice, “io ho finito.” “Va bene. Allora tu rimani ad Acone e se credi, un

giorno, di aiutarci ci aiuti, altrimenti fai come vuoi.” “Bisogna nominare

un nuovo comandante, chi credete…” Tutti ovviamente fecero il nome di

Berto. Dopo lo sottoponemmo anche agli altri che erano rimasti fuori.

Ugo aveva sempre sostenuto le tesi di Dante, che erano quelle di

aspettare lo sbarco degli alleati a Livorno prima di entrare in azione, era

sempre stato contrario ad ogni nostro attacco.

Gambero, poiché era generoso, disse: “Senti, ragione o non ragione,

qui succede che uno ha detto che va via perché non se la sente. Ugo, te la

senti di rimanere in questa formazione?”

“Sì, certamente.”

“Allora non parliamo del passato. Ti sei nominato da solo Commissario.

Noi ti facciamo eleggere.” “Sì, ti diamo questa fiducia, però a una

condizione: Berto comandante, vice comandante Gambero; te commissario

e vice commissario Gianni. Poi Schillo, tutti con funzioni quasi di vice

commissari e vice comandanti. Quando uno va in missione è sempre commissario

e comandante militare, responsabile di quell’azione.”

“Ora si va fuori a nominare i comandanti, i commissari di squadra, di

plotone… si fa un’elezione democratica e la distribuzione dei compiti che

ognuno deve affrontare. Oggi è la prima vera azione, però da qui in avanti

non un’azione, ma due, tre al giorno perché vogliamo essere una formazione

veramente partigiana.” “Sì, sì, va bene, accetto.”

Terminate le decisioni al primo punto dell’ordine del giorno, dopo

che Dante uscì facemmo entrare Lazio, Raf e Bastiano e ci mettemmo a

studiare il piano per l’azione di Vicchio.

Per attaccare la caserma dei carabinieri scegliemmo diciotto uomini.

Lazio come Comandante Militare ed io come Commissario Politico con

dieci uomini avremmo attaccato la caserma frontalmente. Fra questi dieci

uomini c’era Schillo con funzioni di Vice Commissario Politico, c’erano

Nick e Cam.

Raf con altri cinque uomini si sarebbe appostato dietro alla caserma

in modo da impedire ogni fuga da quel lato. La caserma dei carabinieri in

quel tempo era posta in un edificio di via Carducci, là dove la strada si

stringe e va giù in discesa verso la strada statale e la ferrovia. Attualmente

non esiste più là ed è stata installata altrove, in una nuova sede. Nella via

Carducci ci si poteva immettere da via Regina Margherita, dal Corso e da

via Benvenuto Cellini. Quasi di fronte alla caserma, un po’ più a destra

della stessa, c’era uno slargo, una piazzetta privata senza nome, sull’angolo

della quale c’era una fonte, poi la strada si restringeva e andava giù in

discesa verso la strada statale e la ferrovia. Se l’azione di sorpresa non fosse

riuscita, sembrava fatta apposta per far scattare la trappola ai nostri danni.

Per l’attacco alla stazione ferroviaria, ove si sapeva ci sarebbe stata una

pattuglia della GNR, fu approvata la proposta di una squadra composta da

Gambero, Bruno e Bastiano; per la sede delle Poste e Telegrafi, Vladimiro;

per presidiare la sirena d’allarme, Bob; per bloccare il telefono pubblico

che era in piazza della Vittoria, guardando la scuola ove c’era la GNR a

destra, fu mandato il nostro Pipone; per il blocco della strada proveniente

da Borgo S. Lorenzo la squadra fu comandata da Timo, Comandante Militare,

e da Bertini come Commissario Politico.

Timo con la Breda 37 rappresentava una vera garanzia, aiutato come

era da Lella e altri bravi partigiani. Un contadino del posto rimase con la

treggia per eventuali operazioni di sganciamento e per muoversi rapidamente

nelle strade. Per il blocco della strada Pontassieve–Rufina–Dicomano

la squadra con una Breda 37 era comandata da Milano come Comandante

Militare e da Gigi come Commissario Politico; anche qui un collaboratore

del posto era con loro. Berto e Ugo, responsabili massimi della

nostra formazione, nelle loro qualità di Comandante Militare e di Commissario

Politico, sarebbero rimasti fermi e quindi sempre reperibili dalle

staffette che potevano arrivare loro dalle diverse squadre in azione, per domandare

chiarimenti, ordini, nuove disposizioni, sotto al monumento di

Giotto, che si trova nella piazza omonima, nel centro del paese. Fu scelta

questa piazza proprio perché si trovava al centro di tutte le operazioni. Infatti

da questa bellissima piazza su cui si affacciano antichi e storici edifici,

come il Palazzo del Podestà, ove al pianterreno si ammira un bellissimo

dipinto giottesco, il Palazzo dei Fabbrini, il Palazzo Santoni e, di fronte a

questo, Casa Guidi, ha inizio la corta via Garibaldi, quella famosa strada

nella quale si trova la casa che dette i natali al Beato Angelico ed al fratello

Benedetto; ebbene questa corta via conduce d’un balzo nella vasta e

bella piazza della Vittoria, con al centro il monumento ai Caduti della

Guerra 1915–18, opera dello scultore Giuseppe Gronchi, e dove si trovano

gli edifici scolastici, che allora erano presidiati dalla GNR, ed il teatro

Umberto I che, come ho detto più avanti, erano obiettivi della formazione

Checcucci comandata da Brunetto e da Mangia. Così Berto e Ugo si trovavano

praticamente vicinissimi anche a questi due compagni, con i quali

avrebbero potuto velocemente consultarsi e prender decisioni. Berto e Ugo

da piazza Giotto si sarebbero trovati abbastanza vicini anche al gruppetto

comandato da Gambero alla stazione ferroviaria, perché dalla vicina piazza

della Vittoria, attraverso via Beato Angelico, si arrivava proprio alla

stazione ferroviaria. Da piazza Giotto poi, attraverso via del Corso, dall’altro

lato del marciapiede le staffette si potevano portare alla sirena d’allarme,

che era quasi di fronte a piazza Giotto, sirena che era obiettivo di Bob;

prendendo il Corso a sinistra si potevano portare anche alla sede delle Poste

e Telegrafi, obiettivo di Vladimiro e prendendo il Corso a destra potevano

arrivare da noi alla caserma dei Carabinieri.

L’azione, sia nelle sue linee generali che particolari, fu prevista e

preparata come un’azione a sorpresa, che doveva riuscire senza sparare un

colpo. Importante era disorganizzare quelle forze che i dirigenti fascisti

avevano con le buone o con le cattive organizzato; dare una dimostrazione

di forza, di coerenza con le cose che si erano predicate fino allora. Le armi

dovevano servirci per impaurire psicologicamente e per difenderci nel

caso che l’azione di sorpresa non fosse riuscita.

Questi furono, un po’ in sintesi, i criteri con i quali ci preparammo

per quell’azione; ogni comandante, ogni commissario politico, ogni partigiano

aveva un suo preciso compito da svolgere; compiti che furono divisi

democraticamente, da buoni compagni, con senso di responsabilità, di dovere,

di disciplina!

Come si sa, quando sulla carta si fa un piano, anche se questo è stato

discusso, precisato ed elaborato nei minimi particolari, quando poi si passa

all’attuazione pratica succede sempre qualcosa che nel piano non era stato

previsto, o piccole incomprensioni – trasmissione o ricevimento di ordini

fatti o ascoltati in modo non troppo chiaro e attento – e poi c’è l’imponderabile,

tutte cose queste che possono mettere in pericolo la realizzazione

del piano stesso. Così anche per l’azione di Vicchio, un episodio piuttosto

buffo per un pelo non mise in pericolo il congiungimento della formazione

Checcucci con la nostra, la Faliero Pucci. Come ho già detto prima i nostri

compagni Ricciolo e Carcuzzi ad una determinata ora della sera (faceva

buio presto in quel periodo) dovevano trovarsi nel paese di Vicchio con

due staffette della Checcucci per poter portare, con questi due compagni,

la formazione Checcucci su, verso Vicchio. L’appuntamento tra le due

staffette nostre e le due staffette della Checcucci era in piazza della Vittoria,

sotto il monumento. Ugo e Berto avevano detto a Ricciolo e Carcuzzi

di recarsi in paese ed aspettare le due staffette lì dove c’è il monumento;

Ricciolo e Carcuzzi, con due cappottacci borghesi, si recarono di corsa in

paese per compiere la loro missione, facendo finta di essere due civili di

ritorno dal lavoro. Appena furono in paese un dubbio li colpì improvvisamente

come una folgore: “Dio mio, quale monumento? Quello di piazza

Giotto, o quello di piazza della Vittoria?” Rimasero incerti per un po’ di

tempo, poi, riflettendoci meglio, si dissero: “Deve essere senz’altro il monumento

ai caduti in piazza della Vittoria; lì c’è l’obiettivo della formazione

Checcucci, quindi alle due staffette avranno detto di aspettare lì.” E

così andarono in piazza della Vittoria, deserta come non mai. C’era la

neve e faceva un freddo bestiale, il tempo passava e non si vedeva arrivare

anima viva: l’aria era ancora più gelida. Poi, ad un certo punto, videro arrivare

un uomo avvolto in un grande mantello, tutto incappucciato: sembrava

un orso. Questi, quando si accorse di quei due fermi lì vicino al monumento,

rallentò istintivamente il passo, con fare titubante; allora, proprio

in quel momento, Ricciolo e Carcuzzi, andandogli incontro gridarono

forte: “Giocondo!” Sentitosi apostrofare in quel modo, quello rispose forte

e tranquillo: “Zappaterra”. I nostri due compagni, felici dell’incontro, si

fecero più vicini, iniziando a rimproverarlo per il ritardo e per domandargli

come mai era solo: “È successo qualcosa? L’altra staffetta dov’è?” Ma

quello non sapeva nulla di nulla e rimase lì sorpreso, sconcertato da quell’improvvisa

domanda. Ricciolo lo riconobbe e la cosa fu chiarita in pochi

minuti. Lui era il padre dell’attore che lì, al teatro Umberto I in quella

piazza, per decine e decine di volte aveva recitato nel “Giocondo Zappaterra”

e quindi, quando lì nel buio si era sentito apostrofato con quel “Giocondo!”,

spontaneamente gli era venuta la risposta “Zappaterra!”, credendo

appunto che gli facessero uno scherzo. Intanto lì dalle scuole i nostri

compagni videro movimento di militi della GNR e così decisero di andare

nella vicina piazza Giotto, per vedere se l’appuntamento fosse stato fissato

sotto il monumento di quella piazza. Arrivati in piazza Giotto, videro nella

piazza deserta un tizio che con un impermeabilino gironzolava intorno al

monumento con il fare di uno che ha tempo da perdere. “Non è del paese,

quello!”, disse Ricciolo a Carcuzzi e andato avanti esclamò: “Giocondo!”

“Zappaterra!”, rispose quello. Si diedero la mano, era una delle due staffette

della formazione di Brunetto; poco lontano trovarono l’altro compagno

che si era tenuto un po’ al coperto. Così tutti e quattro andarono verso

il luogo dell’appuntamento: la casa di un contadino in località Mirandola.

Raggiunta lì la formazione Checcucci, resisi conto insieme a Brunetto che

sarebbe stato impossibile entrare nel paese di Vicchio per la strada della

Mirandola – la neve era altissima e ostruiva tutto – decisero di comune accordo

di scendere giù attraverso i costoni laterali, marcia, questa, durissima.

Arrivarono nei presi di Vicchio stanchi, fradici di neve sciolta sui

loro abiti e fradici, nel contempo, di sudore. Quando su due file furono sul

lungo vialone che porta agli edifici delle scuole, a circa 200–250 m dalle

scuole stesse, dalle finestre basse del sottosuolo di quell’edificio fu aperto

un fuoco infernale di mitragliatrici, che passò alto sulle teste di tutti quei

partigiani senza, quindi, colpire nessuno. Il buio pesto in cui, grazie alle

leggi sull’oscuramento, era immerso il paese e il dislivello stradale, aveva

fatto fallire l’agguato dei militi della GNR. Nel trambusto che tutti fecero

nel gettarsi a terra lungo i bordi del vialone, una voce baritonale si elevò

su tutto quel clamore: “Meno male che si doveva prenderli di sorpresa!

Ora quei figli di troia bisogna tirarli fuori di lì uno per uno, sennò ci si ricopre

di merda!” Brunetto e Mangia, come quel bravo partigiano, seppero

essere all’altezza dei compiti loro affidati e, mantenuti i loro uomini su

due file, aprendo un fuoco di copertura, carponi si portarono fino in piazza

della Vittoria, dove c’era il loro obiettivo: i militi dentro i locali scolastici

e la casa del fascio. Lì, contro il nemico trincerato, dentro le mura di un

edificio costruito dagli uomini per educare altri futuri uomini, e non per

nascondere dei traditori della Patria, che ora da lì, protetti da grosse mura,

sparavano contro i difensori della libertà, che allo scoperto rimanevano ad

affrontarli in nome della democrazia, dell’indipendenza nazionale, della

fraternità fra tutti gli uomini. Fu all’incirca a questo modo che dalla parte

della formazione Checcucci iniziò la cosiddetta azione di Vicchio.

Da parte nostra, all’ora stabilita la lunga colonna delle squadre che

dovevano essere impiegate a Vicchio si mise in marcia. Una squadra con

fucile mitragliatore e una mitragliatrice, al comando di Milano rimase a difesa

del campo, onde evitare eventuali attacchi del nemico; poi lì avrebbero

potuto ricevere ordini da Berto e Ugo di intervenire a proteggere la nostra

ritirata da Vicchio, oppure anche di accorrere in caso di necessità

come forza di riserva.

Quando arrivammo ad attraversare il paese di S. Martino, i contadini

del luogo che da tempo avevano visto questi ottantasei uomini che, in fila

indiana, squadra per squadra, con alla testa i loro comandanti militari e i

loro commissari politici, scendevano dalla montagna silenziosa, senza dar

cenno di fermarsi, compresero che andavamo a compiere un’azione.

Uscirono tutti dalle loro case e guardandoci commossi, col pugno

chiuso alzato in gesto di saluto, gridavano: “Evviva! Evviva! Buona fortuna!”

Fu allora che Don Donatini, con la sua tonaca sdrucita e rattoppata ci

venne di corsa incontro, facendoci cenno di fermarci. Ci abbracciammo e

ci baciammo in una stretta che voleva dire tante cose! Presentai Ugo,

Gambero ed altri che lui non conosceva. “So dove andate”, disse, “state attenti,

perché penso che sarà molto dura, miei cari figli! Io, Gianni, starò

qui su quel cocuzzolo a pregare per tutti voi. Quando stanotte ritornerete

mi troverete qui. Se avete bisogno di me, mandatemi una staffetta con la

solita parola d’ordine…” Ci salutammo nuovamente e ci rimettemmo in

marcia. Intanto la sera si faceva sempre più scura. Arrivati a Ponte a Vicchio

facemmo una breve sosta, mentre le squadre addette alla difesa di

quell’obiettivo si appostavano con le loro armi. Qualche partigiano ansioso

guardava ogni tanto il suo orologio: l’ora convenuta con la formazione

Checcucci sembrava non dovesse venir mai. Un altro sguardo: è l’ora.

Squadra per squadra, silenziosi, guidati da un conoscitore del luogo, entrammo

nel paese di Vicchio, dirigendoci verso i nostri rispettivi obiettivi.

Alcuni istanti prima un partigiano aveva tagliato i fili della linea telefonica

ed un altro aveva neutralizzato la linea telegrafica. Nel paese era buio pesto,

le vie erano deserte, le porte e le finestre delle case, chiuse, non lasciavano

neanche trapelare uno spiraglio di luce. Il paese sembrava dormire

tranquillo, e l’eco di quel silenzio faceva risuonare ancora più forte il rumore

dei grossi scarponi e dei passi di corsa. Poi passi e ombre si irradiarono

furtivi in quelle strade, a piccoli gruppi, ognuno verso un obiettivo

prestabilito. L’azione di Vicchio da parte del Distaccamento Faliero Pucci,

denominato anche Stella Rossa, era cominciato. Era la sera del 6 marzo

1944, pochi minuti prima delle ore ventuno.

A fianco di Lazio camminavo veloce su quella strada buia in fila indiana,

con tutti gli altri scelti o offertisi volontari per l’azione contro la caserma

dei carabinieri.

In quel buio d’inferno s’indovinavano sui bordi della strada i cumuli

di neve accatastata, scura, grigia anche lei. Infine arrivammo a pochi metri

dalla caserma, che nel buio si stagliava silenziosa e forse anche più minacciosa.

Erano le ore ventuno. Nel silenzio si sentivano soltanto i battiti dei

nostri cuori. Al sussurro di Lazio e mio, Raf, con i suoi cinque uomini,

curvi e silenziosi, girarono attorno alla caserma, andando a prendere posizione

per impedire l’uscita che da quella porticina posteriore dava nei

campi. Dopo una brevissima attesa, così come avevamo convenuto, Lazio

con cinque uomini si piazzò di fianco alla porta della caserma, lungo il

muro di questa, e precisamente dal lato destro della porta, guardandola di

fronte. Con gli altri cinque mi piazzai accanto alla porta dalla parte sinistra.

Lazio ed io ci trovammo appoggiati ai due stipiti della porta. Controllammo

tutti e due l’ora: erano le ventuno precise, l’ora concordata per la

sorpresa e allora, come deciso nel piano, Lazio suonò il campanello della

caserma, gridando: “Aiuto! È successa una disgrazia qui vicino, sulla strada.

Venite! Aiutateci!!” Se avessero aperto la porta, com’era nel piano, armati

di Sten come eravamo, saremmo entrati di corsa dentro e avremmo

disarmato i carabinieri. Però se è vero che lo squillo argentino del campanello

aveva rotto il silenzio della notte e le invocazioni di aiuto di Lazio

sembravano le più sincere di questo mondo, tutto rimase silenzioso. Lazio

risuonò, invocando nuovamente aiuto, ma nessuno rispose e di nuovo fu il

silenzio più assoluto. In quel silenzio sembrava davvero di sentire il battito

del cuore del compagno accanto. Ad un tratto una lampada situata sulla

porta ci investì con la sua luce violenta, accecante e una pioggia di fuoco

cadde su di noi, vicino a noi, che ci schiacciavamo ancor più con le spalle

al muro. I carabinieri e la GNR sparavano dappertutto: dalle finestre, dai

tetti, dalle feritoie, ben appostati e premuniti, ed insieme ai rabbiosi colpi

di moschetto una continua pioggia di bombe a mano pioveva dall’alto.

Tutti e quindici ci trovammo sotto il fuoco degli avversari: coloro che dovevano

sorprendere erano stati sorpresi.

Lazio ed io ci consultammo un momento, poi mentre io, Nick e gli

altri della mia parte sparammo in alto raffiche di Sten tanto per creare un

diversivo, Lazio e i suoi cinque, fra i quali Schillo, attraversarono la strada

andando a piazzarsi sulla nostra destra e quindi un po’ a sinistra della porta

della caserma vista di fronte e da lì aprirono un fuoco d’inferno contro

le finestre. Nick ed io, unendo il nostro fuoco a quello di Lazio e dei compagni

che erano con lui, facemmo riattraversare la strada ai partigiani che

erano dal nostro lato; lì rimanemmo soltanto Nick ed io. “Tocca a noi”,

dissi. “Vai prima te.” “No, vai te.” Infine Nick, che oltre ad essere una

provetta guida era un ottimo combattente ed in quanto sottufficiale dei paras

aveva una grande esperienza di guerra e di attacchi rapidi tipo commandos,

mi disse: “Va bene, attraverso io; mi butto a sinistra, gli altri sono

tutti a destra, e di lì apro il fuoco di protezione; appena senti cantare il mio

Sten vieni lì da me.” Nick attraversò la strada e col suo Sten aprì il fuoco

contro le finestre del primo piano. Allora mi lanciai per attraversare e per

raggiungerlo. Appena fatti pochi passi numerose pallottole sibilarono intorno

alle mie orecchie con il loro miagolio caratteristico, poi, appena sceso

quella specie di grosso marciapiede che si trova in quel punto davanti

alla caserma e messo piede sul duro piano stradale della via Carducci, una

raffica di mitraglia mi prese al petto e mi buttò indietro, sentii dalla mia

destra venire verso di me rotolando una bomba a tempo. Non è che io la

vedessi, ma il cervello, da sé, come un lampo luminoso, nel sentire quel

rotolio metallico che piano piano, a sbalzi, veniva verso di me, mi disse

che era una bomba a tempo come quelle pine o ananas che avevamo noi,

grazie al lancio degli alleati. Non mi disse altro il cervello. Io ero quasi in

mezzo alla strada e, correndo, andavo verso Nick che mi diceva: “Vieni,

sono qui!”, quando una violenta e accecante esplosione mi avvolse in pieno.

Una forza sovrumana e terribile da terra mi lanciò in alto e poi di nuovo

a terra alla distanza di quattro–cinque metri da dove mi trovavo.

“Mamma! Mamma!”, ricordo che gridai mentre mi sentivo lanciato in alto,

poi quando mi sentii schiacciare a terra, con il “samurai”2 pieno di caricatori

di Sten che mi schiacciavano le costole. “Mamma, mamma!” e basta,

perché poi la mia sensazione è il rotolio della bomba… questo rotolio a

saltello, che viene vicino a me, che si ferma… l’esplosione, sono bombe

che esplodono a tempo, a quattro secondi. Poi ad un certo punto sentivo

sparare, raffiche, bombe… e un freddo alle orecchie! Sentivo Nick che diceva

“Gianni! Gianni! Che è successo? Sei ferito? Gianni, devo venire costì?”.

Stordito pensai di essere stato colpito a morte. Provai a rialzarmi per

strisciare un po’ più in là, ma gambe e braccia erano morte, senza forza.

Non so ancor oggi cosa fu, lo choc dell’esplosione, la paura, il colpo forte

battuto al suolo, non lo so; il petto mi doleva forte e a respirare sentivo

male ai polmoni come se fossi stato colpito tutto dentro, mentre alle narici

una puzza di materiale esplosivo mi dava la nausea. Il paese era tutto un

boato, violente esplosioni si susseguivano con ritmo sempre più accelerato.

Il crepitio dei fucili mitragliatori e delle mitragliatrici accompagnavano

i colpi secchi dei fucili e dei moschetti. Non so neanche quanto tempo ci

misi a riprendere i sensi e le forze; so solo che quando il freddo, quel vento

gelido sul collo mi fecero tornare in me sentivo la voce di Nick ripetere:

“Gianni! Gianni! Mio Dio cosa è successo?”, provai ad alzarmi; fu allora

che una raffica mi passò sopra la testa. Aspettai un attimo e poi tentai di

rialzarmi per raggiungere Nick, ma due o tre colpi mi presero nel petto,

andando a conficcarsi nel mio “samurai”; poi un altro paio di colpi, sempre

provenienti di lato, mi portarono via di mano lo Sten. Più tardi trovai

due colpi conficcati nel caricatore, rimasto così inutilizzabile; lo rimisi nel

“samurai” come ricordo. Aspettai ancora un po’, poi trovate le forze sia

per rialzarmi che per gridare per farmi riconoscere da Nick, andai verso di

lui. Anche Nick nell’attraversare quella strada se l’era vista brutta: due

colpi di mitra erano andati, come me, a conficcarsi sul caricatore del suo

Sten. “Siamo proprio due fortunati”, disse Nick, “non riesco a capire come

abbiamo fatto a non lasciarci la pelle.” “Io”, risposi, “non capisco ancora

come hanno fatto quei colpi e quella bomba a venire da quella parte lì,

dove ci sono i nostri. Ma non ci pensiamo.” Tirammo due corte raffiche

contro le persiane del primo piano e un pezzo di persiana cadde giù in

strada. La caserma era nel buio, l’esplosione di una nostra pina aveva

strappato via la luce di sopra la porta. Dalla parte della formazione di Brunetto

si sentiva sparare e i boati delle bombe a mano; sopra a tutto, però, si

sentiva in tutto il paese la voce di Lazio, che lì, a pochi metri da noi, gridava

a squarciagola: “Arrendetevi! Carabinieri italiani non ce l’abbiamo con

voi, arrendetevi! O vi arrendete, o raderemo al suolo la caserma!” Nel

contempo Lazio metteva delle bombe vicino alla porta per vedere se con

l’esplosione riusciva ad aprirla. Sparate altre raffiche con Nick raggiunsi

Lazio, che vistomi vivo rimase contento e felice e così concertammo sul

da farsi. Intanto alcuni nostri compagni e precisamente Schillo, Cam, Zigano

e Vento erano rimasti feriti dalle schegge di quelle bombe a percussione

gettate dalle finestre dai carabinieri. È chiaro che mentre continuavamo

a combattere, quelli dovevamo farli portar via subito, in modo che potessero

ricevere aiuto medico e non fossero poi d’intralcio a noi nel caso

di una nostra eventuale rapida ritirata. Schillo era ferito nei glutei e un’altra

scheggia era penetrata profondamente nella gamba destra; Cam anche

lui aveva alcune schegge nei glutei, mentre un’altra scheggia – piuttosto

seria – era penetrata profondamente nella gamba sinistra, da dove il sangue

usciva a fiotti: era chiaro che c’era pericolo di un’emorragia. Gli altri

avevano ferite più leggere di questi due. A braccia li facemmo portare al

posto di blocco di Ponte a Vicchio (quello comandato da Timo e Bertini),

dicendo che con una treggia li portassero da Don Giuseppe Donatini.

Demmo agli improvvisati portantini la parola d’ordine per il nostro arciprete

e rimanemmo a sparare contro quelle maledette feritoie. Dopo poco

anche i nostri compagni che avevano portato i feriti al posto di blocco di

Ponte a Vicchio ritornarono e allora a Lazio venne ancora più fiato per

gridare ai carabinieri di arrendersi, altrimenti con i mortai che avevamo

già piazzato avremmo spianato la caserma con tutti loro dentro.

2Porta caricatori per lo Sten che si tiene aderente al petto.

I feriti, portati al posto di blocco, grazie al contadino Narciso, furono

caricati su due tregge tirate dai buoi – ecco la necessità del contadino al

posto di blocco – e trasportati subito da Don Donatini, nel paese di S.

Martino; questi li fece sistemare in chiesa e, stesi su un piano di legno dietro

l’altare, fece loro le prime sommarie medicazioni, dandogli da bere

delle uova fresche e del vinsanto. Da lì, prima ancora della nostra ritirata,

furono portati al nostro campo al Tamburino su tregge tirate dai buoi, dentro

i locali in muratura e sotto la protezione delle nostre squadre rimaste

alla difesa del campo. La mattina, quando noi tornammo da Vicchio venne

su, invitato da noi, il nostro caro amico e collaboratore Dott. Renzo Renzetti,

che tolse le schegge di bomba a tutti, medicandoli e disinfettandoli

con perizia; allora non c’erano antibiotici, davano sulfamidici.

Schillo venne portato in casa del nostro amico e collaboratore Loni

ad Acone, che aveva il pane più bianco e che durante la guerra 14–18 aveva

ammazzato con la baionetta un tedesco; Cam in casa del nostro collaboratore

Poeta, in quella casa che sulla via di Colognole si trova vicino al

Ponte Spalletti; gli altri due da un altro contadino del luogo. Per più di dieci

giorni in queste quattro diverse località distanti svariati chilometri da

loro, si recò il Dott. Renzo Renzetti a far loro le medicazioni; poi, quando

non fu più necessario il suo diretto intervento, lasciò loro medicinali e ricostituenti;

questo fu il contributo dato da questa bravissima persona che

noi ricorderemo sempre.

Durante il rastrellamento su Monte Giovi, venuto a seguito della nostra

azione su Vicchio, Loni, il Poeta e gli altri contadini nascosero i feriti

nel bosco sotto mucchi di foglie e poi andarono a riprenderli e se li rimisero

in casa. Loni fu messo contro un muro e minacciato di essere fucilato se

non avesse detto dove aveva nascosto il partigiano ferito, ma non parlò anche

se fu colpito da pugni e calci. Gli altri tre si comportarono alla stessa

stregua. Il fatto che i fascisti sapessero, o avessero sospettato, con tanta

precisione che questi tre avevano nascosto dei partigiani feriti, ci fece capire

che nel paese o nei dintorni ci doveva essere una spia.

Intanto, alla caserma dei Carabinieri a Vicchio continuavano a sparare.

L’aria fresca mi aveva tolto quello stordimento che avevo in testa e

così gridavo insieme a Lazio: “Arrendetevi! Arrendetevi!” D’un tratto,

dalla parte posteriore, sentimmo degli scarponi chiodati che correvano

verso la nostra direzione, erano pochi, forse un paio di uomini. “Parola

d’ordine!” “Giocondo!”, ci fu risposto. “Zappaterra!” Vennero avanti Cecco

e Bastiano, i quali ci raccontarono che Gambero con la sua squadra,

appena entrato nella stazione ferroviaria, si era subito scontrato con la pattuglia

della GNR; aveva intimato loro di arrendersi, ma dato che quelli

avevano aperto il fuoco, Gambero e i suoi avevano ucciso un milite, ferito

un altro e fatto prigioniero il terzo. Ora stavano presidiando la stazione in

attesa dell’ordine di ritirata. Alle scuole la formazione di Brunetto incontrava

ancora resistenza, quelli non si volevano arrendere. Bastiano si avvicinò

ancora di più a Lazio e a me, dicendoci piano: “Berto e Ugo hanno

detto che ormai è troppo tardi: se non si arrendono entro cinque minuti ritiratevi,

non si può far più di così.” Nervoso per quella resistenza, per i feriti

che avevamo avuto, fiero del risultato che, malgrado la sorpresa fattaci,

tutti avevano reagito con coraggio e profonda coscienza del proprio dovere,

prima ancora che rispondesse Lazio, mi rivolsi a Bastiano, che tanto

stimavo ed al quale ero legato da tanto affetto, e gli dissi freddo: “Di’ a

Berto che noi di qui, finché non prendiamo quella caserma, non andiamo

via!” I due di corsa, come erano venuti, se ne ritornarono via. Lazio ed io

ci consultammo, arrivando alla conclusione che quelli asserragliati là dentro

non avevano paura dei mortai, perché sapevano che non li avevamo.

Bisognava architettare qualcos’altro. Allora cominciammo a gridare: “Arrendetevi,

altrimenti con la gelatina e il plastico buttiamo giù la porta, entriamo

dentro e vi fuciliamo tutti!” Con noi non avevamo portato né un

tubo di gelatina né un pacchetto di plastico. Ci fu un po’ di silenzio e di

tregua, poi una voce dalla caserma, alta, gridò: “Dateci cinque minuti di

tempo!” Rispondemmo: “Va bene, aspettiamo!” I cinque minuti passarono

alla svelta ma dalla caserma nessuna voce si fece udire; allora Lazio gridò

per la seconda volta la stessa intimazione e dalla caserma fu risposto che

essi non potevano arrendersi perché il Maresciallo era fuggito precedentemente

e aveva loro ordinato di resistere a oltranza.

Mi guardai con Lazio, poi come se ci si fosse detti qualcosa ordinammo

contemporaneamente: “Sparate alle finestre a raffica e voi andate a

mettere il plastico alla porta e accendete la miccia.” Ci furon spari contro

di noi, poi una finestra si aprì e da uno spioncino una voce gridò: “La porta

sta cadendo, non accendete le micce, finiamo di aprirla noi!” In quel

mentre ritornò Bastiano con Berto, il quale arrabbiato mi disse: “Ma insomma

Muso di Ciuco che fai il bischero anche te?” “Fra pochi minuti

questo bischero entra nella caserma! Ritorna in piazza e lasciami qui Bastiano,

così quando tutto è finito te lo rimando per dirti che noi qui abbiamo

finito il lavoro.” Berto comprese e ritornò via. Appena la porta si aprì

di pochi centimetri, come una furia ci gettammo contro a spallate e poi

dentro. Il primo stanzone era al buio, non c’era luce, quindi ci fu una breve

colluttazione corpo a corpo, però senza sparare; compresi in seguito che

avevamo sbagliato perché quelli avrebbero potuto tenderci un’imboscata e

quindi invece di entrare noi così, dovevamo far venire loro fuori a braccia

alzate. Ma tutto andò bene: i Carabinieri, vistisi venire avanti quella furia

umana, buttarono le armi. Nelle altre stanze la luce elettrica c’era. Del Maresciallo

nessuna traccia, i carabinieri avevano detto la verità. Forse il Maresciallo

durante il combattimento, approfittando della confusione e soprattutto

dell’oscurità era riuscito a fuggire attraverso i tetti, poiché dal

basso, date le precauzioni prese da noi, la cosa era praticamente impossibile.

Fra i carabinieri vi erano militi e graduati fascisti della GNR, che il

Maresciallo aveva avuto come rinforzo e risultò più che evidente a tutti

che erano stati loro a costringere i Carabinieri a quella resistenza a oltranza.

E benché si fossero arresi anch’essi, pure uno di essi prima di consegnarmi

la sua arma tentò di spararmi un colpo a tradimento. Accortomi

della manovra, lo disarmai e, brutalmente, con una botta al viso lo mandai

a sbattere in terra. Militi e Carabinieri vennero così tutti disarmati. Nella

caserma c’erano documenti, armi requisite e soprattutto molte casse di fucili

da caccia. I fucili li distribuimmo ai contadini, ai quali erano stati requisiti.

Trovammo anche casse di munizioni, moschetti e mitragliatori Beretta.

Ricciolo giunse di corsa per dirci che anche nella sede della scuola i

militi della GNR si erano arresi e quindi potevamo cominciare a ritirarci.

Così, portandoci via i sei militi della GNR fatti prigionieri, uscimmo dalla

caserma e ci incamminammo per le vie di Vicchio con tutta la popolazione

che, uscita dalle case, gridava esultante per la nostra vittoria. Via via che

passavamo, consegnavamo quei fucili da caccia e le munizioni ai contadini

presenti lungo i bordi della strada; la mezzanotte era passata da tempo, le

donne ci fermavano e ci baciavano. La popolazione aveva visto che non

eravamo soltanto uomini capaci di fare dei buoni discorsi teorici, ma eravamo

anche una forza collettiva capace di vibrare duri colpi e sconfiggere

i fascisti: tutto ciò, ovviamente, spingeva a partecipare alla nostra comune

lotta, favoriva, insomma, il movimento partigiano.

A Vicchio era rimasto in piazza Brunetto con la sua formazione, lì

alla sede delle scuole in piazza della Vittoria: dovette sfondare il pavimento

e lanciare dalle buche fatte le bombe pine per costringere i militi della

GNR ad arrendersi. Fu un combattimento lungo e arduo; anche Ugo e Berto

si portarono lì sul posto per combattere con Brunetto e Mangia. Anche

Renzo che comandava il nostro posto di blocco sul fiume, lasciò con un

paio di uomini il posto per portare aiuto alla formazione di Brunetto. Poi,

quando ormai l’azione alle scuole era cessata e Brunetto stava contando i

prigionieri, si rese conto che dalla parte della ferrovia, ormai lasciata libera

dalle nostre squadre, erano sopraggiunti con un treno dei militi fascisti;

subito con una squadra con Pancino in testa andò loro incontro; così disarmò

altri sei o sette militi ed un tenente.

L’azione di Vicchio era così terminata, la strada del ritorno era lunga,

eravamo tutti stanchi, solo l’entusiasmo di quella popolazione festante,

che aveva voluto tributarci tanto affetto, ci dette la forza per ritornare su in

montagna. Vladimiro, felice del compito assolto alla sede delle Poste e Telegrafi,

ai compagni che glielo chiedevano faceva vedere il pezzo di tasto

che aveva tolto al telegrafo stesso. Pipone e Bob invece erano rimasti seri

e imbronciati: avevano sì presidiato il telefono pubblico e le sirene d’allarme,

ma non avevano avuto modo di combattere: “Si sentiva sparare da tutte

le parti e noi lì, come due allocchi!”

Ho voluto rievocare per grandi linee questa azione di Vicchio, non

solo perché fu il nostro battesimo di fuoco e per tutte le altre ragioni che

fin qui ho detto, ma anche perché, se è altresì vero che rivista adesso questa

azione può avere un significato molto modesto, è vero che inquadrata

in quel particolare momento storico, in quell’epoca, con quel modesto livello

culturale e quella modesta maturità politica che tutti avevamo, acquista

invece un valore notevole.

Quella notte non mi riuscì di dormire per il forte dolore al torace. I

colpi di mitragliatore, anche se non avevano passato il mio samurai e le

pallottole del mio Sten, avevano danneggiato le mie costole.

La mia casacca di telo da tenda che le donne del Lastro ci avevano

cucito era diventata una tela di ragno puzzolente di bruciato. E così la gettai

via. Alle cinque del mattino sentii le nostre sentinelle sparare.

“Cosa succede ragazzi?”

“I prigionieri sono scappati!”

“Rincorreteli e se non si fermano sparategli addosso!”

Al ritorno della pattuglia Lazio mi disse: “Cinque li abbiamo uccisi;

il sesto lo abbiamo colpito più volte e con la traccia di sangue che lascia

sulla neve non andrà lontano.”

Circa due settimane prima dell’azione di Vicchio, Gambero chiese

ed ottenne di andare a Firenze per un paio di giorni, per sistemare al sicuro,

presso lontani parenti, la moglie e la figlia di pochi anni. Quando tornò

al campo partigiano portò con sé Rino Cioni, che conosceva fin da ragazzo.

Cioni a Firenze si era bruciato, nel senso che era ricercato dal Sichereit

Dienst; Siviero gli aveva ordinato di lasciare la città e andare in montagna

fra i partigiani della Faliero Pucci dove c’ero io e mettersi a mia disposizione.

Nel combattimento di Vicchio, Rino Cioni era al posto di blocco

sulla strada comandata da Timo e da Piolo. In seguito alle azioni compiute

nella zona, il nostro Comando, all’unanimità su mia proposta, deliberò di

spostare la formazione partigiana in un’altra zona, dato che lì sul Monte

Giovi si prevedeva un rastrellamento in grande stile.

Le forze della formazione partigiana non erano sufficienti per sostenere

un attacco fatto con grandi forze e con grandi mezzi, come erano

sempre fatti i rastrellamenti, e di qui dunque la decisione del comando.

Per spiegare i continui spostamenti dei partigiani bisogna tenere conto

che la tattica partigiana era quella del mordi e scappa, di non subire mai

l’iniziativa del nemico sempre più numeroso e dotato di grandi mezzi.

La forza dei partigiani era la sorpresa, ed essi che lo sapevano approfittavano

sempre di quest’arma per sconfiggere i nazifascisti.

Prima però di iniziare lo spostamento, il comando inviò una staffetta

con del denaro a Don Giuseppe Donatini perché la distribuisse alle famiglie

che tenevano in casa i nostri compagni feriti.

Quando furon guariti mentre Schillo ritornava a Firenze e si univa

alle SAP (Squadre d’Azione Patriottiche) al fianco di Piolo, Cam, Zigano

e Sardo passarono ad altre formazioni partigiane che operavano in quella

zona all’epoca del loro ristabilimento.

Cam soltanto molto più tardi, riuscirà a ritrovare i vecchi compagni e

tornerà nella loro formazione che a quel tempo sarà divenuta la Brigata

d’Assalto Garibaldi – Sinigaglia.

La mattina dell’8 marzo la formazione si metteva in cammino e dopo

una lunga e faticosa marcia, scansando a bella posta i centri abitati, si stabiliva

a S. Leolino, vicino a Londa, su un cocuzzolo dove ci sono gli avanzi

dell’antica rocca di S. Leolino, che nei secoli aveva testimoniato la potenza

e il dominio dei conti Guidi da Battifolle.

Nel 1375 la rocca di S. Leolino fu compresa nel numero di quelle

rocche che dovevano andare distrutte, dopodiché furono acquistate dalla

Repubblica Fiorentina.

Ai nostri tempi S. Leolino faceva parte del comune di Londa.

Saputo che per la mattina del 10 i nazifascisti stavano organizzando

un raduno di bestiame, Cecco, giovane partigiano sardo, vero figlio della

tenace Sardegna, furbo e scaltro come una volpe, al comando di una piccola

squadra, bloccò la strada provinciale impedendo il raduno e requisendo

a due tedeschi tre muli e ovviamente le armi.

I tre muli furono utilissimi per la formazione partigiana.

Per poter vivere anche due o tre giorni lì a S. Leolino, avevamo bisogno

di un forno. C’era una rocca chiamata dai contadini “castello”; era una

costruzione ben tenuta, che in un primo tempo sembrò deserta; poi venne

ad aprire il casiere, che si chiamava Guidino. Guidino, di sentimenti antifascisti,

ci informò che i proprietari erano a Firenze e fino alla fine della

guerra non sarebbero tornati; ci disse che se non si voleva il solo uso della

cucina, così come avevamo chiesto per fare il pane, si poteva domandare il

permesso al marchese Dufour Berthe, che stava a Londa ed era parente o

amico del proprietario di quei locali.

Noi ci accampammo fra gli alberi, più in alto della rocca e più in alto

di questa casa. Con Ugo e Berto, accompagnati dal parroco di S. Leolino e

da Guidino il casiere, prendemmo subito contatto con il marchese Dufour

Berthe nel bosco fuori del paese di Londa; il marchese abitava nel centro e

si dichiarò cattolico, pronto a collaborare con noi; accettò subito di farci

consegnare la cucina per fare il pane e il rancio e nella stessa giornata ci

fece portare una treggia piena di viveri, che noi non avevamo chiesto. Il

marchese Dufour Berthe inoltre riferì che il maresciallo dei carabinieri di

Londa era desideroso di evitare una calata di partigiani nel paese, quindi

voleva da noi questo impegno. Noi riferimmo che come era nostra abitudine

non potevamo impegnarci a dichiarare che mai saremmo scesi in formazione

in assetto da guerra perché non potevamo preventivare quali sarebbero

state le mosse del comune nemico.

Prendemmo vari contatti con i contadini segnalatici come antifascisti

e devo riconoscere che i risultati furono superiori alle aspettative; si trattava

di famiglie contadine nelle quali più di un figlio scendeva nei vicini

paesi a lavorare come operaio portando nelle famiglie un orientamento di

classe combattivo, un orientamento politico che li portava a sostenere la

resistenza.

Anche i vecchi capoccia erano bravi, avevano in sé i vecchi ricordi

delle prime lotte contadine e le cooperative. In quei giorni da Firenze vennero

su, accompagnati dalla nostra staffetta, svariati giovani dalla città,

quasi tutti per sfuggire ai bandi di reclutamento; ma nonostante ciò, provenienti

come erano da famiglie operaie avevano un buon orientamento, erano

insomma un materiale umano con cui si poteva lavorare con successo.

Qui è doveroso aprire una parentesi. Noi ci eravamo spostati momentaneamente

dal Tamburino del Monte Giovi a S. Leolino. I contadini

del Monte Giovi come avevano appreso questo spostamento? Noi, fin da

prima dell’azione di Vicchio, avevamo avvertito tutti i contadini della

zona e tutti i nostri collaboratori che subito dopo una grossa azione partigiana

ci saremmo trasferiti momentaneamente in un’altra zona, per far trovare

ai rastrellatori il vuoto, per tenerli impegnati il più a lungo possibile

nel nostro inseguimento per attaccarli poi in zone e in circostanze favorevoli.

Così le famiglie contadine dei fratelli Piani, Cartei, le famiglie Loni,

Roselli, Poeta, Brucoli ed altri, come Don Luigi Brogi, il dottor Renzo

Renzetti, le donne del Lastro, non solo furono d’accordo con noi, ma si

proposero come elementi che avrebbero chiarito la questione verso gli altri

contadini, verso gli sfollati e così via. Mentre eravamo a S. Leolino, a

mezzo nostra staffetta, ci mantenevamo in contatto per seguire la situazione;

venimmo a sapere che la mattina del 9 marzo i militi della Guardia Nazionale

Repubblicana, dopo aver circondato e rastrellato tutta la zona di

Monte Giovi, sparando a casaccio in tutte le direzioni raggiunsero il Tamburino.

Arrivati in questa zona per prima cosa presero il contadino Burberi,

che lì faceva da casiere, lo picchiarono a sangue, lo legarono a un palo e

cominciarono a interrogarlo, ma lui non disse niente; poi, esasperato dall’ennesima

domanda “Dove sono i partigiani?”, fiero rispose: “Sono dappertutto;

sono tanti, armati fino ai denti e vi uccideranno tutti!” “Ma tu li

hai visti anche qui da te?”, incalzò quel capitano repubblichino. “Sì, son

venuti anche da me”, rispose il contadino, “ma quando son venuti hanno

bussato alla porta, hanno chiesto permesso e si sono tolti il cappello.

Quando venite voi sfondate le porte, entrate da padroni nelle case, picchiate

vecchi, donne e bambini e ci rubate tutto.” Questa è la tempra dei nostri

contadini. Prima che facesse buio i repubblichini se ne andarono lasciando

il contadino legato a quel palo, dal quale fu subito liberato dai fratelli Piani.

Sempre lì a S. Leolino fummo informati che il 15 marzo la fattoria di

Petrognano, in zona della Rufina, avrebbe dovuto consegnare l’olio, il

vino e il grano agli ammassi nazifascisti; così con Bastiano, nelle funzioni

di Comandante Militare, ed io Commissario Politico, con una trentina di

partigiani, la mattina presto del 12 marzo ’44 ci mettemmo in marcia per

Petrognano. Dopo alcune ore, passata la via Pominese, a 2 km dalla Rufina

raggiungemmo la Pieve di S. Stefano a Castiglioni e lasciata alle nostre

spalle questa pieve, dopo un paio di chilometri circa di salita, giungemmo

quasi davanti alla chiesa di S. Piero a Petrognano, piccola ed elegante nel

suo stile romanico, semplice ed armonica, con intorno gli antichi casolari

sparsi nei campi a solatio, su un terreno leggermente ondulato.

Quando eravamo passati vicino alla Rufina i militi della Guardia Nazionale

Repubblicana, di guardia al ponte, videro la nostra discesa in fila

indiana, come procedevamo di solito; sembravamo sempre di più di quanti

non fossimo. Quelli spararono in aria e se la dettero a gambe. L’origine

del nome Petrognano, secondo i più autorevoli storici, proviene dalla famiglia

romana Petronio, che aveva quei possessi e perciò furono chiamati

“fondus Petronae gentes”. In questa località, oltre agli antichi casolari contadini,

spicca alla vista anche del più disattento la bella e grande villa, con

annessa la ricchissima fattoria, che quel giorno era l’obiettivo della nostra

missione; il tutto era di proprietà della marchesa Budini Gattai. Ricordo

che questa fattoria, già in quell’epoca così particolare, sviluppava con una

turbina energia elettrica propria. Facemmo sistemare gli uomini ai posti di

blocco: per nessuna ragione, senza l’ordine mio o di Bastiano, nessuno doveva

lasciare la zona circondata e nessuno vi doveva entrare.

Erano le ore sei e trenta del mattino, la fattoria di Petrognano venne

circondata; i partigiani si disposero dietro gli alberi, appiattiti lungo i

muri, dietro gli angoli della fattoria e bloccarono le vie di accesso.

Bastiano ed io suonammo il campanello, ci fu aperto ed entrammo.

Perquisimmo i magazzini, controllammo i registri della fattoria e rilevammo

che le informazioni erano precise: la merce si trovava lì.

Come era nostra abitudine distribuimmo il 50% alla popolazione ed

agli sfollati, il 25% ai contadini, il restante 25% per le necessità della nostra

formazione.

A fianco c’era una villa con tutte le finestre chiuse. Mandai Bastiano

ad informarsi su chi ci abitasse.

Mi disse che erano suore che ospitavano una quarantina di giovani,

figli di carcerati.

Allora dissi: “Bastiano, vai dalla madre superiora, dille che il CP è

impegnato nell’assegnazione del grano e dell’olio ai cittadini di questa

zona e non può lasciare il posto, perciò la prega di venire per dirci dei bisogni

del suo istituto.”

Bastiano andò di corsa e poco dopo tornò con due suore, una anziana,

doveva essere la madre superiora, e l’altra giovane, con un volto bello,

gentile come quello di una madonna di Raffaello.

La madre superiora si avvicinò a me un po’ interdetta e tremante, mi

guardò dalla testa ai piedi, fermando poi lo sguardo sopra la mia nuova

cappottina mimetizzata ove spiccava un’armeria completa e una stella rossa.

Dunque, questo giovane che le veniva incontro sorridendo e baciandole

la mano era un CP. Mio Dio – avrà pensato – ho conosciuto un CP e non

era come si legge o come vien detto.

Baciai la piccola mano della giovane suora ed il suo volto diventò

rosso fuoco e rimase così per lungo tempo mentre i suoi occhi mi sorridevano.

Mi scusai con la reverenda madre superiora per averla fatta venire

fin lì, poi le domandai: “Quattro quintali di grano vi sono sufficienti?”

“No, sono troppi Sig. Commissario.”

“A me sembrano pochi. Compagni, portate cinque quintali di grano,

uno d’olio e una damigiana di vino dove vorrà la madre superiora.” E continuai

la distribuzione agli sfollati.

Ad un certo punto un partigiano in funzione di staffetta venne verso

di me, ansante per la corsa fatta: “Gianni, un camion sta venendo su, non

si scorge se è civile o militare, cosa dobbiamo fare?”

“Aspetta, veniamo noi”, e chiamato Bastiano ci dirigemmo di corsa

verso il posto di blocco.

Mentre correvamo per andare là, la staffetta mi informò ancora che

al posto di blocco un gruppo di uomini aveva chiesto di parlare con me.

“Bah, ora vedremo, saranno forse dei nuovi partigiani.”

Al posto di blocco il camion era già stato fermato, le persone che

erano dentro furono perquisite. I loro documenti li ricopiammo; restituendoli

dissi:

“Attenzione, finché noi siamo qui, voi non potete proseguire. Ho

preso gli estremi delle vostre tessere, e se ci giocate qualche brutto scherzo,

noi le spie, i fascisti repubblichini, i collaborazionisti, li sappiamo ritrovare

in capo al mondo, abbiamo per questa attività un’organizzazione di

prim’ordine.”

Rivolgendomi poi al gruppo che mi aveva fatto chiamare, intravidi in

questo il compagno Viscardo Ciapetti, già conosciuto nella vita clandestina

del ventennio con il nome di Zio e quindi sorridendo lo abbracciai.

“Zio, cosa fai qui?”

“Sono venuto con questi compagni per unirmi a voi!”

“Bene, le conoscenze a dopo, ora abbiamo ancora trenta minuti di lavoro;

a fra poco Zio.”

Con il solito sistema, distribuimmo il 50% alla popolazione, il 25%

ai contadini e il restante 25% per noi.

Dopo circa mezz’ora, terminata la distribuzione, caricato il grano e

l’olio su due tregge, mandato via il camionista con il camion ed i suoi,

chiamato lo Zio ed il gruppo di nuovi partigiani ci mettemmo in cammino

per tornare al nostro accampamento.

Il mattino dopo, domenica 15 marzo, decidemmo di fare un’azione di

requisizione. Così con Bastiano come CM, Lello VCP ed io CP insieme a

venti partigiani ci mettemmo in cammino per Londa.

Il paese di Londa si presenta allungato e vi si entra passando sotto un

primitivo portico che dà inizio alla via Etrusca, la quale immette nella

piazza principale costituente il centro del paese.

Essa è circondata dal Palazzo Comunale, dalla prepositura, dal Palazzo

del marchese Dufour Berthe e da vari caseggiati che ancora conservano

gli stemmi dei loro antichi proprietari.

Sopra il paese, nel luogo più elevato, tra il verde domina la bella villa

Visani detta “Villa di Londa”, di proprietà del conte Venerosi–Pesciolini

già Podestà di Firenze.

Arrivammo alle prime case di Londa che era da poco suonato mezzogiorno.

Era domenica e la gente usciva dalla messa e si riversava da tutte

le parti per l’abituale passeggio domenicale.

Tutto il paese aveva l’aria di festa.

Nel paese esistevano forze abbastanza considerevoli di Carabinieri e

della GNR.

La gente ci aveva visto arrivare ma rimasero tutti tranquilli, sapevano

di non avere niente da temere dalla Stella Rossa.

I fascisti della GNR avrebbero potuto approfittare di questo e avrebbero

potuto farsi scudo di queste persone per creare a noi condizioni estremamente

dure.

Senza escludere poi che fra i paesani poteva trovarsi qualche spia

che avrebbe potuto riferire ai fascisti che i partigiani erano appena una

ventina.

Considerato questo, e che la confusione non ci giovava molto, rivolgendomi

ai paesani gridai:

“Entrate tutti nelle vostre case, perché qui è pericoloso. Il paese è circondato

da più di mille uomini e altrettanti sono sulla cima di questi poggi

pronti a scendere per darci man forte. Non è prudente rimanere sulla strada.”

Come per convalidare le mie parole sui poggi vicini si vedevano degli

uomini fermi come sentinelle che guardavano in basso.

Non erano partigiani, lo sapevamo, erano semplicemente contadini

che, vedendo dall’alto i partigiani scendere in paese, avevano lasciato il lavoro

e guardavano giù per controllare cosa sarebbe successo.

I paesani, interdetti, cominciarono a sfollare le strade, ma siccome

anche questo provocava seri pericoli rivolgendomi a Bob gli dissi:

“Corri su alla prima compagnia, là su quel poggio e ordina che si

spostino più in basso e piazzino i mortai per battere tutta questa piazza.”

Bob con due occhi spiritati mi guardò sorpreso, rimase un attimo indeciso

poi corse via.

Gli ordini sono ordini, ma con quale fine sarà stato dettato questo?

Fu Bastiano più tardi a farglielo capire.

“Vedi Bob, con la tua corsa hai fatto sì che i fascisti si chiudessero in

caserma, decisi a non uscire fuori neanche per tutto l’oro del mondo. Ora

potremo fare il nostro lavoro tranquillamente.”

Nella fattoria del conte Pesciolini requisimmo tanti quintali di grano,

d’olio, generi alimentari, svariati prosciutti, vestiario militare e una pistola

automatica Walter.

Dopo aver distribuito la parte di roba che sempre distribuivamo ai

contadini e agli sfollati, con due tregge cariche di tanta roba, prima di sera

ritornammo all’accampamento.

Nel frattempo un’altra squadra con Berto CM, Ugo CP e Gambero

VCM era uscita per requisire in tutta la zona montana circostante decine di

quintali di olio destinato agli ammassi.

Gran parte come sempre fu distribuita alla popolazione.

Quando a Berto regalai a nome del comando la pistola requisita al

conte Pesciolini, lui mi abbracciò commosso.

Lunedì 16 marzo dopo una fruttuosa discussione nel comando, fummo

tutti d’accordo di trasferire il campo di S. Leolino perché troppo vicino

alla strada comunale e perché c’era da aspettarsi un rastrellamento in

relazione alle requisizioni da noi fatte.

Incaricammo Nick e Gambero. Nick era esperto di quei paesetti vicini

perché aveva la fidanzata in uno di questi.

Da quelle parti c’era il malvezzo di alcuni proprietari terrieri di cercare

di disfarsi dei propri coloni trascurando il mantenimento delle case e

creando poi la possibilità di dare alloggio a nuove famiglie non appena

fosse stato possibile sbarazzarsi di quelle oramai sfruttate, sostituendole

poi in un secondo tempo con famiglie più numerose di braccia lavorative e

più affamate di quelle andate via.

Così Nick e Gambero riuscirono finalmente a trovare in Gattaiola,

località che poi descriverò, un’abitazione isolata abbandonata a se stessa,

che bene si prestava per i bisogni della Formazione Partigiana; nella nottata

passammo a fare azioni di requisizione la fattoria del Tamburino, su ordine

del conte Spalletti, ci aveva rifornito di grano, vino, olio e patate. Che

aveva aiutato gli ex prigionieri alleati nei mesi che eravamo stati sul Monte

Giovi lo avevamo visto coi nostri occhi, perciò fummo più che decisi

nel dare tutto il nostro aiuto; non potevamo abbandonare un elemento che,

in una maniera o l’altra, serviva la causa della libertà.

Così fu discusso insieme ai fratelli Piani il modo di trovare una soluzione

adatta ad allontanare i sospetti delle autorità nazifasciste dalla persona

del conte Spalletti e della sua famiglia.

La seconda questione consisteva nel fatto che Don Luigi Brogi, il sacerdote

di Acone, così legato a noi e a tutto il movimento partigiano nonché

organizzatore del ritorno alla propria formazione di tutti gli ex prigionieri

alleati, s’era messo in casa una famiglia sfollata del sud: il capofamiglia

di questa si era dimostrato essere una spia, aveva fatto catturare in

modo confuso dei soldati alleati ed era sempre in giro per il paese e nelle

zone limitrofe facendo domande sui partigiani.

Per quanto riguarda la questione del conte Spalletti fu deciso di fare

un’azione dimostrativa, che servisse a togliere ogni chiacchiera e sospetto

su di lui.

Per la seconda questione decidemmo di arrestare quel tizio, ospite

del parroco, interrogarlo, accertarsi della questione e procedere presto.

I fratelli Piani, terminata la riunione, partirono subito di gran carriera,

in piena notte per avvisare il conte di come noi ci saremmo comportati

e come a sua volta egli avrebbe dovuto comportarsi. Noi invece ci mettemmo

in marcia dopo un paio d’ore, per dar tempo ad Argeo e ad Aurelio

di compiere la missione presso il conte.

Quando ci mettemmo in cammino quel mercoledì 18 marzo era ancora

buio e mi ricordo che ero più stanco di quando mi ero sdraiato per un

paio d’ore: eppure avrei dovuto camminare per due o tre giorni! Partimmo

con quattro squadre, composte da dodici partigiani ciascuna. Le comandavano

Berto, Gambero, Timo ed io in pieno assetto di guerra, con due razioni

di pane e carnesecca a testa e dopo una marcia lunga e faticosa ci

portammo nella zona di Monte Giovi.

A sudest della Rufina, vicino al paese, su un ameno rialto, ci apparve

in tutta la sua imponenza e grandiosità la bellissima villa di Poggio Reale,

residenza dei conti Spalletti. La villa, che nel 1829 ospitò il granduca Leopoldo

II, fu costruita dalla famiglia fiorentina Marmorai, su disegni attribuiti

a Michelangelo Buonarroti.

La villa sembrava immensa, delimitata da un bellissimo parco e dotata

di una grande fattoria che assommava in sé diciannove poderi. Subito

circondammo la villa, dopo aver bloccato tutte le vie d’accesso, con postazioni

di Bren. Il cancello della villa, così come avevamo richiesto, era

chiuso: suonammo insistentemente il campanello; un portiere, con la giacchetta

blu e bianca, rigatina, uscito dalla porta venne avanti verso il cancello,

ma quando scorse tutti quegli uomini armati fino ai denti, con i fazzoletti

rossi al collo, si ritrasse da una parte per uscire così dalla visuale

del cancello stesso.

“Aprite!”, urlò Pevere, che quando non faceva la staffetta ed era al

campo voleva ad ogni costo partecipare alle azioni e che si trovava vicino

al cancello, quindi era in grado di vedere: “Aprite!”, urlò nuovamente con

forza. Il povero portiere era lì inchiodato dallo spavento, senza avere né il

coraggio d’andare avanti né quello d’andare indietro. Naturalmente solo il

conte e la contessa sapevano che questo serviva per ingannare i nazifascisti,

altrimenti l’azione stessa non avrebbe avuto l’effetto desiderato. Rispose

perciò all’intimazione con voce malsicura dicendo che non poteva

aprire perché il conte non era in casa ed egli aveva l’ordine di non aprire

per nessuna ragione.

“Non è vero”, risposero in coro i partigiani. “Aprite o entreremo con

la forza!” Il portiere era ancora indeciso, poi, come riconquistando tutto il

suo coraggio, fece l’atto di allontanarsi di corsa. Timo allora, con la sua

voce robusta, gridò con quanto fiato aveva in gola, facendosi udire anche

dalla Rufina: “Apra su, senza tante storie, altrimenti faremo saltare il cancello

e tutte le porte di casa con la gelatina e il plastico!” Poi, come a dar

seguito alle sue minacce, urlò come un orco: “Bastiano porta di corsa la

gelatina, il plastico, i detonatori e le micce che faccio saltare ogni cosa!

Così imparano questi nobili!” L’aspetto deciso dei partigiani e la grossa

minaccia fecero desistere da ogni tentativo il poveruomo, che aprì il cancello

e le porte. Berto, Gambero ed io ci precipitammo dentro di corsa con

le armi puntate, mentre gli altri, al comando di Timo, rimasero fuori ai posti

assegnati.

Ad averci visto, prima circondare la villa, poi gridare quelle minacce,

infine entrare in casa con quell’impeto, sarebbe sembrato che andassimo

incontro a dei nemici. Grande sarebbe stata però la sorpresa di uno

spettatore e dello stesso portiere se ci avesse visto, una volta dentro la villa,

andare incontro al conte Spalletti e alla Contessa con il viso sorridente

e con le armi abbassate. Il conte Cesare Spalletti, a sua volta, ci venne incontro

e ci abbracciò uno per uno, con calore; la contessa con molta cordialità

ci tese la mano sorridendo, un po’ commossa; subito fummo immersi

in una calda conversazione, ci fu offerto del bianco frizzantino, con

pasticceria secca.

Col conte parlammo di tutto quanto per mesi avevamo ritirato, dietro

sua disposizione, dalla fattoria del Tamburino e quanto a loro avevano

consumato gli ex prigionieri alleati; così facemmo anche una ricevuta di

requisizione in data anteriore di qualche mese di tutto quanto avevamo ritirato

in modo che lui si ritr

che va dal 15 al 16 marzo facemmo lo spostamento da S. Leolino a Gattaiola.

La casa a pianterreno aveva una grande cucina con annesso il ripostiglio

che fu adibito a magazzino e sede del comando; al centro una vasta

entratura, nel fondo le scale per il piano superiore; a destra le stalle sopra

le quali, in corrispondenza, un vasto fienile; a sinistra, sopra la cucina e il

ripostiglio, varie stanzette e corridoi che divennero l’armeria ed altre camerate

per le squadre partigiane; esisteva anche una serie di locali al mezzanino:

il tutto completamente spoglio e disadorno, non privo però di cumuli

di sporcizia, che fu rimossa, e pieno di magagne dovute alla lunga

mancanza di manutenzione, che furono rimediate con mezzi di fortuna alla

meno peggio.

Parete a parete con questa casa, ma senza comunicazioni interne, sorgeva

una seconda abitazione, i cui locali erano inferiori per numero, ma

molto più vasti; erano totalmente trasandati e pericolosi e furono giudicati

inabitabili. Il fabbricato non era in posizione di essere veduto dal basso

perché era un po’ in buca, perciò le sentinelle dovevano salire sulle vette

dei poggi circostanti, ove avevamo piazzato le mitragliatrici e alcuni Bren.

Lo schieramento difensivo, in caso di allarme, richiedeva agli uomini

una arrampicata estenuante; in Gattaiola poi, come si vedrà, la Formazione

tenne il campo per circa un mese. Gli uomini non erano mai tutti al campo:

una squadra a turno forniva il servizio di guardia; un’altra squadra, di

pattuglie che si alternavano, giorno e notte in tutte le direzioni, mentre le

altre andavano in azione.

La mattina del 16 marzo andai in giro nella zona circostante, accompagnato

da un vecchio contadino del luogo di nome Azelio e da Rino Cioni,

per organizzare delle cellule comuniste; nel contempo organizzai una

discreta sorveglianza sulla rotabile nazionale e provinciale per controllare

e trasmettere a Siviero il movimento dei reparti nazisti, in movimento sia

verso il nord che verso il sud.

Bastiano e Lella invece con due squadre di partigiani partirono per

andare nella zona di Pomino, che si trova sopra Petrognano, dove il 12

marzo, cioè quattro giorni prima, avevamo fatto operazione di requisizione

di generi alimentari, destinati agli ammassi. Così loro andarono per requisire

a loro volta in quella zona di Pomino generi che i nazifascisti

avrebbero requisito fra una decina di giorni.

Berto e Ugo in un primo momento si erano dichiarati contrari al fatto

che Bastiano e Lella andassero senza nessuno di noi, ma io appoggiai con

molto calore l’iniziativa di questi due compagni, che ci volevano dimostrare

non solo di avere messo le ali, ma di saper anche volare: erano già

maturi, ci si poteva fidare e nello stesso tempo dimostrare che godevano di

tutta la nostra fiducia. Ricordo che dissi a Berto e a Ugo: “Bisogna che la

Formazione funzioni anche senza di noi, altrimenti cosa faranno se veniamo

a mancare?” Berto e Ugo fecero le corna, ma si misero a ridere.

Con Azelio e Rino, parlai con molti contadini, poi facemmo una vera

e propria riunione in una specie di capanno; parlai con loro della condizione

dei mezzadri, dell’epoca di miseria, di tante prepotenze da parte dei potenti.

Parlai della terra ai contadini, ovvero della terra a chi la lavora; parlai

loro di come lo sviluppo capitalistico dell’agricoltura assumesse forme

particolari e si innestasse nella mezzadria stessa; come la mezzadria resta,

ma subisce una profonda trasformazione, che ne muta il contenuto economico

e sociale, come il proprietario terriero interviene con un inventario

proprio, con un capitale composto di macchine, di impianti di trasformazione,

di lavorazione dei prodotti e impiegato per tutto il complesso dei

poderi appartenenti ad una stessa fattoria. Così, in relazione a ciò, la piccola

economia mezzadrile diviene un elemento della grande azienda, la

fattoria. La dimensione dell’impresa viene così sottratta dalle mani del

mezzadro, con l’arma della disdetta, e passa al proprietario terriero.

Mentre talune forme di dipendenza personale persistono a lungo,

s’aggrava grandemente lo sfruttamento del mezzadro grazie alla schiacciante

prevalenza in confronto dell’inventario del contadino dell’inventario

del proprietario, il quale assume nella fattoria anche la figura del capitalista

agrario. Spiegai così come un rapido processo di differenziazione

ha luogo in seno alla massa dei mezzadri, mentre una grande parte viene

respinta verso i semiproletari.

Conclusi infine che da questa situazione si usciva appoggiando la

Resistenza, che una volta vincitrice avrebbe lavorato per creare una nuova

società nella quale si sarebbe data la terra ai contadini. Poi, insieme a Rino

passai alla fase organizzativa per i compiti da svolgere. Quando a notte

piena giungemmo al campo, Bastiano e Lella erano tornati da circa un’ora:

nella zona di Pomino avevano requisito grano, olio, due vitelli e dieci pecore.

Dopo aver distribuito ai contadini e agli sfollati olio e grano, avevano

caricato olio, grano, vitelli e le pecore spettanti alla Formazione sopra

le tregge e con questo lungo convoglio erano tornati al campo partigiano,

dopo aver rilasciato le relative ricevute di requisizione. Avevano superato

l’esame con un bel trenta e lode.

Al campo, quella notte fra il 17 e il 18 marzo avemmo una gradita

sorpresa in quanto trovammo i due fratelli Piani, Aurelio e Argeo di Monte

Giovi. Erano venuti nella giornata del 16 marzo per informarci di tante

cose, ma soprattutto di due questioni di estrema urgenza; così Berto, Ugo

e Gambero avevano aspettato il mio ritorno per fare una riunione del comando

e prendere subito le decisioni del caso. La prima questione consisteva

nel fatto che s’era più che certi che la notizia che da tempo circolava

insistente per i paesi vicini, che il conte Spalletti, ricco proprietario delle

tenute agricole della zona del Monte Giovi collaborava coi partigiani e

collaborava pure per alloggiare, nascondere e sostentare i prigionieri inglesi

e americani dell’VIII e V armata fuggiti dai campi di prigionia, era

giunta ai comandi della GNR e al comando tedesco: perciò bisognava fare

qualcosa per aiutare questo nostro collaboratore.

Che il conte Spalletti avesse aiutato i partigiani era cosa per noi più

che certa; non si deve dimenticare che dal 3 ottobre 1943 fino a che non

p

volevamo i salumi, l’olio e tutto quello che si può mangiare.” “Ma

non è vero”, m’interruppe lui, “siete così buoni e gentili!” “No, a loro dite

che siamo stati duri”, risposi io. Mi guardò perplesso e continuò a dire:

“Ma voi non siete così!” “Ma loro devono capire che non siamo amici, mi

capite?”, gli dissi strizzando l’occhio. In un lampo riprese padronanza e sicurezza

di sé, mi strinse la mano in una morsa di ferro, dicendomi: “Voi

siete un uomo che le pensa tutte, grazie; da questo momento la mia casa e

le mie braccia sono a disposizione dei partigiani.” E fu così sempre, la sua

treggia da quel giorno fu sempre la prima ad arrivare; divenne uno dei più

attivi della zona, imparò anche a darmi del tu e a chiamarmi Gianni.

Così anche quel giorno a Pomino, Arduino, con la sua treggia arrivò

per primo per portare la roba in casa della gente e poi al lontano campo

partigiano. Questi contadini dalle loro case partivano insieme a noi fino al

campo partigiano dove ci aiutavano a scaricare la roba e poi tornavano indietro;

sapevano con precisione dove era e come era il nostro campo, non

ci hanno mai tradito: anche questo è un aspetto che va sottolineato con forza.

Quel giorno lì a Pomino, prima di partire, insieme a Bastiano fui

chiamato da una vecchia contadina, la quale per forza ci volle dare maglie

di lana, biancheria intima, vestiti del figlio disperso o prigioniero di guerra

e del quale non aveva più saputo nulla; non volevamo accettare niente,

data la sua povertà, ma fummo obbligati ad accettare dalla sua insistenza:

“Se tornerà la rifaremo nuova, ora farà più comodo a voi, che vivete e

combattete. Cacciate via questi briganti così finirà prima la guerra e tornerà

anche mio figlio.” Mettemmo quel sacchetto sopra una treggia e ci mettemmo

in cammino verso il nostro campo a Gattaiola, ove giungemmo che

si era già fatto buio.

Durante il viaggio da Pomino a Gattaiola mandammo un gruppetto

composto da Raf, Zuppa, Topo, Cacino, Esse a vuotare i sacchetti di chiodi

tricuspidali sulla nazionale; i chiodi furono sparsi dopo curve, lunghe

discese e nei punti più pericolosi della strada.

Già nei giorni che procedevamo alle requisizioni che ho descritto,

per impedire la consegna dei prodotti agricoli agli ammassi nazifascisti, ci

avevano informati da più parti che a S. Brigida, piccolo paese posto sulle

pendici del contrafforte di Monte Giovi, alla base del poggio dell’Abetina,

diversi paesani si erano iscritti al partito fascista repubblichino e di ciò la

propaganda fascista e nazista si compiaceva esaltando il fatto per fare opera

di proselitismo nei paesi vicini. Bisognava dar subito una risposta decisa,

facendo nel contempo a S. Brigida e nei paesi vicini opera di dissuasione,

facendo chiaramente capire che iscriversi al partito fascista repubblichino

significava stare dalla parte degli invasori della patria e dei traditori

collaborazionisti dei nazisti e stare da quella parte era pericoloso e dannoso

per la salute, perché la giustizia partigiana aveva mille braccia per colpire

i rei.

Così la mattina del 24 marzo 1944 tre squadre di partigiani, al comando

di Ugo, Berto, Timo, Gambero, Raf ed io partimmo per S. Brigida;

Nick come al solito faceva da guida. Però i fascisti di S. Brigida dovevano

avere ancora un giorno di respiro, poiché durante la marcia, venuti a conoscenza

che nella fattoria dei fratelli Grati a Galiga esisteva un forte quantitativo

di grano destinato agli ammassi nazifascisti, che doveva essere ritirato

di ora in ora, decidemmo di recarci subito a Galiga e così puntammo

verso Monte Giovi, ma non salimmo fino in cima per Galiga, perché si

trova più in basso; infatti assai più in basso, su uno sprone montuoso a 553

m, che si protende verso levante, appollaiata nel lato scosceso del poggio,

si trova la parrocchia di S. Lorenzo a Galiga, che fu già signoria dei conti

Guidi, ancor prima dell’anno 960; a poche decine di metri dalla chiesa si

trova la fattoria dei fratelli Grati.

Ma quella mattina così intensa di attività non mi fu benigna, perché

pochi chilometri dopo la partenza da Gattaiola mi distorsi il piede destro e

così camminavo male, colpito da un dolore lancinante. Quando fummo a

un paio di km da Galiga, dato che per camminare meglio mi tenevo alla

coda del mulo, che portava sulla groppa la mitragliatrice pesante Breda 37,

il viottolo eroso dalle piogge franò ed io e il mulo precipitammo di sotto

nel borro. Ci ritirarono su con le corde del paracadute: il mulo non si era

fatto niente, io ero precipitato più di lui e il piede, già slogato, andò a s

ovasse in regola con la legge sugli ammassi.

Poi, visti i registri della fattoria dove eravamo, cioè a Poggio Reale, gli rilasciammo

la ricevuta dichiarante che, con la forza e contro la resistenza

inutile dei proprietari terrieri avevamo ritirato i prodotti agricoli destinati

agli ammassi. Tale dicitura, è bene chiarirlo, la rilasciavamo agli elementi

ostili al movimento resistenziale affinché una volta conquistata la libertà,

il governo democratico non pagasse al proprietario i prodotti da noi requisiti.

I fascisti conoscevano questo nostro modo di procedere, così, nel

caso del conte Spalletti, lo mettevamo al sicuro dalle reazioni nazifasciste.

Il conte si impegnò a nascondere tutta la roba per poi distribuirla ai partigiani,

contadini, rifugiati, renitenti alla leva ed ex prigionieri alleati. Quando

eravamo per venir via dalla fattoria, che aveva una porticina piccola,

ma spessa, per non dire massiccia, con una bella serratura, mi venne un’idea;

rivolgendomi al conte gli dissi: “Signor Conte, le dispiacerebbe se dal

di fuori le rovino questa bella porta e la serratura?” “Lei è padrone di fare

tutto quello che ritiene giusto”, fu la sua risposta.

Mi ci vollero tre raffiche di Sten per riaprire quella porta; poi, contento,

rivolgendomi al conte, dissi: “Ora può dimostrare che siamo entrati

con la forza e che lei non ci aveva dato la chiave.” Ci fu il commiato; la

contessa regalò ad ognuno di noi due paia di calzini e un paio di guanti di

lana: “Li ho fatti io con le mie mani, pensando al freddo che soffrite.” Il

conte invece ci consegnò una busta gialla, piena di biglietti da mille: “È

per l’organizzazione”, disse; noi lo ringraziammo e ci congedammo.

Quando fummo fuori gridammo forte ai nostri, che erano a due passi

da noi: “Ragazzi, rimettiamoci in cammino, andiamo lontano da questi

reazionari!” Così lasciammo la villa, con lo stesso aspetto minaccioso di

quando eravamo entrati, per poter così dimostrare quanto infondate fossero

le voci che correvano nei paesini di un conte Spalletti amico dei partigiani.

Difatti la gente aveva visto i partigiani dirigersi verso la villa, i contadini

vicini avevano udito minacciare il portiere, il portiere stesso aveva

avuto una paura solenne, così la sera stessa tutti avrebbero saputo che i ribelli

avevano compiuto un’azione di forza ai danni del conte Spalletti: le

autorità nazifasciste si sarebbero così trovate di fronte a un fatto nuovo,

che smontava tutti i sospetti di una presunta collaborazione col fronte

clandestino del conte Spalletti.

L’azione era riuscita. Ci rimettemmo in cammino verso il Tamburino,

ma, superato di un centinaio di metri Poggio a Gaipoli, ci accampammo

all’addiaccio, ognuno di noi sotto un albero, avevamo arrotolato una

coperta che quando s’andava in marcia portavamo sempre con noi.

Giovedì 19 marzo 1944, festa di S. Giuseppe, le nostre quattro squadre

si misero in marcia verso Dicomano. Come si sa, il territorio comunale

di Dicomano si estende su una superficie di 61,84 kmq, sulla destra della

Sieve; è una zona molto montuosa, formata da crinali appenninici che si

distaccano dal monte di Corella, 1135 m, e dal monte Peschiena, 1198 m,

e degradanti verso i fiumi sulla destra. Tutto questo tratto di montagna è

ricoperto di abeti, pini e faggi seguiti da fitte ed estese colture di castagno;

la parte più bassa, formata da leggere ondulazioni, è molto ricca di viti,

olivi, cereali di ogni genere: là c’erano i prodotti adatti ai nos

ma andammo a 1 km fuori Dicomano e precisamente nella frazione

di Celle, denominata dalla chiesa di S. Donnino e S. Pietro a Celle e dalla

notevolissima villa dei signori Benelli, notissimi grossi industriali pratesi,

che lavoravano per i tedeschi. Avevamo deciso di andare dai Benelli anche

perché la loro figlia, ovvero la nipote di Ruggero Benelli, titolare della ditta,

era in ottimi rapporti con ufficiali nazisti e quando parlava dei partigiani

diceva a gran voce che se i ribelli si fossero azzardati a venire nella sua

villa li avrebbe fatti chiudere nello stalletto dei maiali.

Si cercò di arrivare alle dodici, nella speranza di catturare qualche

ufficiale nazista, ospite a tavola dai Benelli. Così decidemmo di presentarci

con molta rigidezza, autorità e decisione. Sapevamo inoltre che avevano

da consegnare tutti i prodotti agli ammassi, così avremmo requisito il tutto,

distribuito ai contadini e agli sfollati e portato via la nostra parte.

Dall’alto, verso le ore dodici scendemmo di corsa scivolando più

volte, puntando sulla grande villa ora situata in basso. I carabinieri di Dicomano

ci videro dal paese mentre scendevamo a rotta di collo verso la

villa, che come ho già detto dista dal paese 1 km; ci videro e gli demmo

l’impressione di essere tanti, così loro, mentre contemporaneamente suonava

l’allarme aereo, si chiusero in caserma dove avevano tre arrestati antifascisti.

Poiché pensavano che noi volessimo liberarli, per paura d’essere

tri bisogni.

Ma noi quella mattina del 19 marzo non andammo ad attaccare Dicomano,

attaccati li lasciarono uscire liberi.

La nostra veloce discesa fu a un tratto interrotta da un ostacolo costituito

da paletti e filo spinato fino a un’altezza di un metro e mezzo. Tenni

alzato con una mano l’ultimo filo in basso per far passare i compagni. Vladimiro,

Pipone e Bob, i primi a passare, tagliarono il cavo telefonico della

villa. Per ultimo arrivò a precipizio Gambero che, proseguendo la corsa

mise il piede sul filo spinato sopra la mia mano, procurandomi una ferita

che partiva fra le dita e andava sopra il polso.

Così a caldo non sentii nulla e scossi la mano per mandare via il sangue.

Circondammo tutto, bloccammo con i Bren i posti d’accesso, ci facemmo

aprire la porta della villa a muso duro: li consideravamo collaboratori

del tedesco invasore.

Entrammo dentro di corsa, con le armi puntate, sia dalle finestre sia

dalla porta del pianoterra.

Entrammo nel salone che ci parve immenso.

Il pavimento era fatto con grandi quadrati di marmo avorio e nero.

C’era una lunga tavola rettangolare imbandita, sul lato sinistro della parete

c’era una lunga mensola di marmo, anche quella con la tovaglia e sopra

tanti vassoi pieni di carne e di ogni ben di Dio!

Sulla parte destra del salone c’era un salotto con diverse poltrone,

così sistemammo lì tutta quella gente, per lasciare libero a noi tutto lo spazio

del salone.

Dicemmo a tutti che se avevano delle armi addosso ce le consegnassero

perché li avremmo perquisiti.

Intanto una signora mi guardò, abbassò lo sguardo e svenne.

Guardai anch’io ai miei piedi e vidi una grossa pozza di sangue. Insomma

non me n’ero accorto, ma avevo insanguinato ogni cosa. Una giovane

cameriera mi avvolse la mano con un tovagliolo. “Intanto si fa così,

poi la medico e la fascio per bene.” “Grazie signorina”, e non mi riuscì di

dire altro.

Per la perquisizione della villa ci facemmo accompagnare dal signor

Benelli, figlio di Ruggero, perché ci sembrò essere l’uomo più intelligente

e più autorevole della famiglia.

Perquisimmo tutte le stanze, non trovammo nulla e questo ci fece innervosire

un poco.

“Voi cameriere e camerieri mettetevi a tavola al posto dei vostri padroni,

i quali vi serviranno il pranzo.”

Alcuni mangiarono qualcosa, altri non ebbero il coraggio di toccare

il cibo.

La cameriera che mi aveva fasciato la mano mi disse: “È vero che lei

è il commissario politico?” “Sì”, le risposi.

“Allora signor Commissario Politico andiamo a disinfettare e fasciare

quella mano.”

Da come mi domandò chi ero, compresi che aveva da dirmi qualche

cosa. Così la seguii.

Mi portò in un vero gabinetto medico pieno di medicinali, disinfettanti

e garza; mi lavò con un sapone apposito, mi disinfettò e mi fasciò

bene lasciandomi il pollice e l’indice funzionanti al massimo.

Poi come un sussurro mi disse all’orecchio: “Quel guardaroba di mogano

che avete già guardato, riguardatelo, battete sulla parete del mobile,

quella accosto al muro, sentirete che a un certo punto dietro c’è il vuoto

perché è l’apertura del magazzino.”

“Grazie”, le dissi baciandole tutte e due le mani, “ora faremo una recita

perché i Benelli non sospettino di te.”

Rientrai nel salone e bisbigliai: “Bisogna recitare una parte, voi seguitemi

in tutto quello che dirò e che farò.”

Mi spostai, poi domandai al Sig. Benelli se era stato perquisito.

“Sì”, mi disse. “Timo perquisisci il signore”, e uscì fuori una pistola

automatica spagnola.

“Vede, non si dovrebbero dire le bugie, d’altro lato nella perquisizione

di tutta la villa non è stato trovato niente, quindi ce ne andremo.”

“Berto, Gambero, prepariamoci ad andare via”, e i compagni uscirono

fuori, io ero rimasto per ultimo a salutare i signori Benelli, poi come se

mi fosse venuta un’idea dissi:

“Compagni, rientrate. Il Sig. Benelli ci ha ingannato sulla pistola, e

se ci ingannasse anche sul resto?”

Ricominciammo la perquisizione, andando dove sapevo che non c’era

nulla, poi nella stanza dove c’era l’armadio guardaroba, aprii gli sportelli,

spostati gli abiti per battere sul fondale, ad un certo punto dissi a

Timo: “Con tutte e due le mani guarda se c’è una parte che scorre.” Timo

fece scorrere il pannello e ci trovammo in un magazzino pieno di prosciutti,

salami, forme di formaggio, vino, olio.

Cibo ne avevamo trovato anche troppo. Andammo al piano di sopra

dove c’erano le camere per cercare le coperte: le trovammo e le requisimmo.

Gambero s’era messo sulla porta della villa, via via che i compagni

passavano con la roba lui segnava e faceva il buono di requisizione.

Monsignor Benelli, quello che diventerà poi cardinale, mi disse:

“Via, fate le cosine perbenino.” “Più perbenino di così! Mi dispiace solo

che stamani non abbiamo trovato i tedeschi, sua nipote va a dire a tutto il

paese che ci vuole mettere nello stalletto dei maiali: siamo dovuti venire,

e importanti fattorie erano obiettivo della nostra azione.

Bloccati come sempre tutti i punti di accesso e consultati insieme ai

fattori i libri contabili di fattoria, iniziammo a far mettere fuori quintali e

quintali di olio e di vino; chiamati i contadini con le tregge, chiamati tutti

gli abitanti, residenti o sfollati – vennero anche da Petrognano – incominciammo

a fare la distribuzione.

Per fare una distribuzione giusta agli sfollati facemmo portare le tessere

annonarie, per controllare il numero delle persone componenti il nucleo

familiare; così distribuimmo tutto l’olio e le damigiane di vino; per

noi prendemmo il solito 25% di olio, mentre per il vino prendemmo solo

due damigiane; i vitelli li prendemmo noi, come pure gli agnelli, le pecore

e le capre. Anche quel giorno per il trasporto della merce requisita da lì al

nostro campo ci vollero molte tregge; gli stessi vitelli, su consiglio dei nostri

compagni contadini, li dovemmo mettere sdraiati sul fianco sopra una

treggia per ognuno di loro, perché non ce l’avrebbero fatta a camminare

sui sentieri in salita che noi dovevamo affrontare sulla via.

Anche gli agnelli, dopo la brutta esperienza fatta di portarli sulle

spalle (loro pisciavano due o tre volte e l’orina andava a finire dentro il

collo e scorreva fra la maglia, le nostre camiciole e la carne), potevamo

farli camminare dietro le pecore, ma non ce l’avrebbero fatta da soli su

quel saliscendi che c’era da fare per arrivare al campo e poi avrebbero intralciato

la nostra marcia. Così ad ogni agnello e pecora legammo le gambe

e li mettemmo tutti sopra le tregge.

Il primo contadino ad arrivare con la sua treggia fu Arduino, che

aveva la casa ed il podere tra Petrognano e Pomino; Arduino era stato un

combattente della Prima guerra mondiale e quando il partito nazionale fascista

riaprì le iscrizioni al partito per chi aveva la qualifica di ex combattente,

ai quali veniva segnata la data di iscrizione retroattiva del 1932, Arduino

di sentimenti nazionalisti si iscrisse al partito nazionale fascista, così

divenne per tutta la gente fascista, però non fece mai del male a nessuno; il

25 luglio 1943 buttò via il distintivo del fascio e dopo l’8 settembre 1943

non si iscrisse al partito fascista repubblichino, non volle più saperne.

Quando il 12 marzo andammo a fare le requisizioni a Petrognano e iniziammo

la distribuzione della roba requisita ai contadini e agli sfollati, anche

su consiglio dei nostri collaboratori, mi presentai da lui con un quintale

di grano e un barilotto d’olio; lui, che credeva di essere escluso dal beneficio

mi disse subito: “Guardi che sono stato fascista, ci sono tante persone

meglio di me, che non si sono mai piegate.” “Vi siete sempre comportato

bene”, risposi io, “non vi siete iscritto al partito fascista repubblichino,

so che aiutate tutti, soldati scappati, ex prigionieri alleati, non siete

una spia, non siete un collaborazionista e di quell’errore che avete fatto vi

siete già riscattato. So che siete un bravo lavoratore e amico sincero degli

altri contadini e che siete onesto, me l’avete dimostrato anche ora dicendomi

del vostro passato senza che io vi chiedessi niente.” “Signor

ufficiale…”, mi interruppe lui. “Non chiamatemi ‘signor ufficiale’, ma

semplicemente Gianni e diamoci del tu; prendete questo grano e olio, nascondetelo

in casa per non farlo trovare dai fascisti e dai tedeschi; nascondetelo

e usatelo per la vostra famiglia ma ricordatevi di aiutare qualunque

sbandato o ex prigioniero di guerra alleato, ebreo o partigiano e chiunque

busserà alla vostra porta; noi vi riforniremo anche in futuro. Se vengono

fascisti o tedeschi ditegli che ci siamo comportati male e che, con la violenza,

altrimenti non ci pensavamo nemmeno.” “Eh, ma insomma, son giovani,

parlano…”, farfugliò il monsignore.

Presi anche due paia di giacche a vento; facevano molto comodo per

quelli che dovevano montare di guardia la notte.

A un certo momento con il vecchio Benelli e con il monsignore trovai

un armadio al primo piano con tutte bottiglie di champagne, così c’era

scritto sull’etichetta, soltanto che erano piene di caffè, in grani, ed eran

tante! Le feci requisire; allora il vecchio Ruggero Benelli mi disse: “Sa, io

son malato di cuore, bisogna che me la lascia qualche bottiglia perché a

me il caffè tira su.” “Sa quante donnine, quanti contadini hanno lavorato

tutta una vita, io li conosco, su queste montagne, sono malati di cuore e

avrebbero bisogno di un caffè che li tiri su? Lei almeno ha tutti i viveri che

vuole a disposizione, quindi abbia pazienza, non le posso lasciare nulla.”

E facemmo dieci tregge d’ogni ben di Dio; di tutto questo rilasciammo

una ricevuta, salutammo e andammo via. Ultimata la requisizione facemmo

in senso inverso la strada percorsa e distribuimmo molta roba ai

contadini e agli sfollati; poi ci portammo verso il luogo dove il giorno prima

avevo nascosto il grano requisito a Petroio e lì scaricammo trentacinque

orci d’olio; così Berto con tutti gli uomini ritornava al campo di Gattaiola

e poteva con poche tregge farcela abbastanza bene; Gambero, Timo

ed io rimanemmo nella zona, in cerca di un camion. Avevamo da trasportare

nella nostra base segreta 30 q di farina e quei trentacinque orci d’olio.

Mentre Berto e tutti gli altri partigiani erano in cammino per tornare

al campo partigiano di Gattaiola, ed io, Gambero e Lazio eravamo alla ricerca

di un camion, una squadra partigiana partita da Gattaiola, agli ordini

di Raf, recuperava nei pressi della Consuma armi e muli che un reparto tedesco

aveva catturato ad una formazione partigiana sorpresa dall’attacco

nazista. L’azione venne condotta con coraggio e sprezzo del pericolo e i

tedeschi, che tranquilli dormivano al primo piano dell’albergo, non si accorsero

di nulla.

Il giorno dopo, venerdì 20 marzo, Gambero, Timo ed io, alzatici presto,

ci demmo da fare per trovare il camion. Ad un certo punto ci ricordammo

che vicinissimo alla Rufina abitava un nostro collaboratore, che

era proprietario di un grosso camion di cui si serviva per fare dei trasporti.

Ci vestimmo in modo da apparire dei poveri cittadini e, con la pistola e

una bomba in tasca andammo a trovarlo. Lo trovammo che stava aggeggiando

intorno al camion; ci accordammo alla svelta; noi ci saremmo fatti

trovare sulla nazionale, passata da poco la Rufina, circa 3 km, il punto

dove si può imboccare bene la strada sterrata al ponte Spalletti, alle sedici

precise. Lui sarebbe dovuto venire lì per caricare noi e una volta montati

sopra ci saremmo diretti nel luogo dove avevamo nascosto l’olio e il grano.

Una volta caricato tutto questo, saremmo andati a scaricarlo in una

base segreta, che avevamo a disposizione.

Le ore sedici erano passate da poco e il camion ritardava: “Cosa si

fa?”, disse Timo. “Se non viene non ci resta che prenderne un altro e fare

il trasporto lo stesso.” “Aspettiamo ancora un poco”, rispondemmo Gambero

ed io. Passarono ancora alcuni minuti, il camion non si vedeva e,

come se prendessimo una decisione improvvisa, tutti e quattro dicemmo

contemporaneamente: “Il primo camion che passa, se è lui meglio, altrimenti

lo fermiamo lo stesso.” Ma il primo camion che avanzava sulla strada

rallentò da sé la marcia e si fermò. Era lui, salimmo sopra e via, verso

la capanna dove avevamo nascosto il grano e l’olio.

Arrivati dopo poco, aiutati da un contadino nostro collaboratore, cominciammo

a caricare il grano e l’olio, ma la fatica maggiore la sopportò

Timo: come era forte! Prendeva da solo i sacchi che contenevano un quintale

di grano, se li caricava sulle capaci spalle e poi li metteva sul camion

senza nessuno sforzo. Lo stesso contadino, che da tanto collaborava con

noi, era il “poeta” di Monte Giovi, benché fosse anche lui robusto e abituato

a vedere degli uomini forti, rimase sorpreso dalla forza e dalla resistenza

di Timo.

Il grano e l’olio furono caricati in poco tempo, poi risistemammo i

nostri Sten e ci apprestammo a salire sul camion; il camionista, Leo era il

suo nome, che fino a quel momento era rimasto zitto a guardare e al quale

noi non sapevamo cosa dire, calmo calmo disse: “Allora ragazzi io vado al

volante e tiro sempre avanti; qualsiasi ostacolo che incontro, voi… a voi,

beh, non ho bisogno di insegnare nulla.” “Bene”, rispondemmo, “vedrai

che stasera non ci fermerà neanche il diavolo.”

Gambero salì a fianco dell’autista per indicare via via la strada; Timo

ed io montammo sopra fra le balle di grano e i barilotti d’olio, pronti a

sparare con i nostri Sten.

Il camion passò a corsa veloce attraverso la strada nazionale, incrociando

altre macchine civili, militari, italiane e tedesche. Noi ci tenevamo

giù acquattati, pronti ad entrare in azione.

Ripresa la via comunale ci addentrammo nella campagna. Arrivati

tra il fosso di Fornace e quello del Rentice, non lontano da quella che fu la

torre di Fornace dei conti Guidi, lì dove c’è quella bella villa, Gambero

fece fermare il camion: eravamo arrivati alla nostra base di rifornimento

segreta. Questa cosiddetta base segreta era il risultato di tutta una fortuita

serie di piccole conversazioni; molto spesso quando andavo in azione o

ero di pattuglia nella zona passavo, per accorciare la strada e sorvegliare il

versante opposto al nostro campo, tra il fosso di Fornace e quello del Rentice,

non lontano dalla torre dei conti Guidi, della quale anche a quei tempi

rimanevano solo i basamenti. Lì a pochi metri c’era una bella villa abitata

da un professore, di cui non ricordo il nome: c’erano lui, la moglie, la figlia

ventenne e il figlio, con obblighi militari che era sempre in sella sul

suo cavallo.

Tutte le volte che era passato di lì, il professore, vedendoci da lontano,

usciva fuori e ci offriva sempre del vino fresco della sua cantina, pane

e salame. Così ci trattenevamo a parlare della situazione; più volte mi aveva

confessato che piuttosto di vedere suo figlio a cavallo in giro tutto il

giorno e quindi esposto a un pericolo continuo avrebbe desiderato che fosse

con noi. “Cerca di persuaderlo”, mi diceva; io ci avevo provato, ma era

sempre stata fatica inutile. Così il professore voleva fare in tutti i modi

qualcosa per noi ed io una volta gli dissi che, se aveva delle cantine asciutte

e libere, un giorno gli avrei chiesto di poter mettere dentro i nostri rifornimenti.

Ecco, ora eravamo giunti per mettere al sicuro nelle sue cantine

tutta quella roba.

Timo, quasi da solo, scaricò tutto il camion e portò la roba al sicuro;

il camion ripartì via subito. Erano quasi le ore venti; la moglie del professore

venne ad invitare i signori ufficiali a cena, parlò così. Timo, che era

stato visto scaricare, fu considerato così di punto in bianco un sottufficiale,

invece era uno dei nostri migliori ufficiali.

La cena fece molto effetto: la tavola bianca, le scodelle, i bicchieri,

tante posate, poi conversammo sulla situazione; Timo fece una bella impressione;

poi venne una cameriera dicendo che le camere per i signori ufficiali

erano già pronte, tre camere: l’impressione delle lenzuola candide,

di doversi spogliare, lavarsi, di togliersi le scarpe dopo tanti mesi… l’impressione

maggiore fu quella. Dopo due minuti che eravamo a letto, sul

guanciale ci saranno stati almeno cinquanta pidocchi.

La mattina, prima di rimetterci in cammino, dicemmo alla cameriera:

“Guardate, questa roba va bollita tutta perché noi siamo pieni di pidocchi.

Ieri sera non abbiamo avuto il coraggio di dirlo al professore e alla moglie,

che ci hanno invitato così gentilmente.”

Fatta questa confessione alla cameriera, ringraziammo tutti e ci rimettemmo

in cammino per Gattaiola. Per il professore, devo aggiungere,

eravamo già diventati la Brigata Sinigaglia.

Domenica 22 marzo passammo da Petrognano, i contadini e gli sfollati

vennero fuori dalle case per applaudirci e darci da bere; anche le suore

con i bambini loro affidati vennero fuori per applaudirci: io presi il più

piccolo e lo alzai tre o quattro volte sopra la testa, mentre la gente applaudiva.

Oltrepassata Petrognano continuammo a salire il monte e a quota 602

raggiungemmo la Pieve di S. Bartolomeo a Pomino, riparata dai venti della

montagna, che si innalza alle sue spalle a semicerchio. Intorno alla parrocchia

e sparse nei campi a solatio, su un terreno leggermente ondulato

sorgono le case coloniche, massicce come palazzi ed ampie come ville; a

circa 1 km dalla pieve, sempre sulla strada comunale, si trova la fattoria di

Palagio, 600 m, di proprietà del marchese Lamberto dei Frescobaldi. La

fattoria di Pomino si estende invece sulle pendici nordest del torrente Rufina

in una di quelle diramazioni che dalla dorsale appenninica si protendono

verso sud con quote che vanno da 500 a 550 m. Quel giorno queste

du

battere

sulla mitraglia facendomi lacrimare per il dolore. Zoppicando raggiunsi

Galiga insieme agli altri. Berto, sempre premuroso, mi disse: “Tu

che di queste cose sei esperto mettiti a sedere alla scrivania della fattoria,

con tutti i libri contabili e dai gli ordini: io penserò a farli eseguire.”

Anche quel giorno distribuimmo decine e decine di quintali di grano

ai contadini, agli sfollati e ai poveri. Mentre ero lì alla fattoria, la contadina

del luogo mi fece una chiarata d’uovo con della stoppa, fasciandomi

poi molto stretto: mi sentii rivivere. La distribuzione del grano durò diverse

ore, poi vennero caricate alcune tregge per il nostro uso e fu deciso che

io, con quelle tregge e sei uomini di scorta, ritornassi al campo perché non

ero in grado di camminare. Loro con tutti gli uomini avrebbero marciato

ancora un paio d’ore, poi si sarebbero accampati all’addiaccio per essere

la mattina dopo presso S. Brigida.

Feci la strada del ritorno seduto su due sacchi di grano, con la caviglia

che mi doleva maledettamente e che si era gonfiata da far paura. La

mattina dopo, 25 marzo, Berto, Ugo, Timo, Gambero e Raf, con le due

squadre e mezzo di partigiani che erano rimaste ai loro ordini, fiancheggiando

il Trebbio con ampie volute, arrivarono a S. Brigida.

Era appena giorno e il paese si svegliava allora per riprendere la sua

operosità; per le strade di S. Brigida c’erano soltanto poche donne che andavano

alla fonte a prendere l’acqua per i bisogni del giorno.

Bloccate tutte le strade che portavano in paese, i partigiani si inoltrarono

per le vie dirette alla Casa del fascio repubblichino e dei militi della

Guardia Nazionale Repubblicana, che secondo le notizie dovevano da pochi

giorni essere arrivati a Firenze. Arrivati alla Casa del fascio questa era

chiusa; Timo si arrampicò sul balcone, con due colpi di spalla abbatté la

porta–persiana del primo piano introducendosi dentro; prima di entrare

però, con un gesto di ripugnanza, strappò la bandiera fascista, che sventolava

solenne e dopo averla stracciata la gettò di sotto. I compagni cercavano

di seguirlo per la stessa strada, ma Timo li fermò con un gesto: “Aspettate

che vi apro.” E senza lasciar loro il tempo di riflettere sull’azione pericolosa

che compiva, con la modestia e la noncuranza più comuni, entrò

dentro con lo Sten impugnato; i compagni erano ancora con gli occhi rivolti

al balcone quando sentirono aprire la porta dal di dentro e la sua robusta

figura ricomparve nel vano della porta aperta: “Non c’è nessuno,

disse, “scommetto che a quest’ora sono ancora a dormire.”

Berto, Ugo, Gambero, Raf, Bob ed altri entrarono dentro, perquisirono

ogni angolo, ogni buco, trovando armi e munizioni, generi di conforto

di ogni qualità, dolciumi, vini, liquori pregiati; in alcuni cassetti vennero

trovati documenti importanti ed anche questi furono requisiti. Finalmente

in un cassetto venne trovato l’elenco degli iscritti al partito fascista repubblichino

di S. Brigida, poi i partigiani pieni di santo furore cominciarono a

but

i

tare per strada i mobili, i documenti che a loro non servivano, i quadri

del duce, quelli dei gerarchi e tante altre piccole cose, come i libri scritti

dai gerarchi, gagliardetti fascisti e uno schedario dei sovversivi.

Fecero di tutta la roba un grosso monte e vi appiccarono il fuoco.

Nel frattempo i paesani, usciti dalle loro case, abbracciavano i partigiani

e si godevano lo spettacolo e gridavano per incitarli: “Forza ragazzi,

fate un po’ di pulizia! Bravi, fateli scappare questi cani che ci

disonorano!” I partigiani più giovani intanto avevano ridotto i muri della

Casa del Fascio ad un’immensa lavagna, ove spiccavano scritte a carbone,

motti e frizzi a danno dei fascisti e della Repubblica Sociale Italiana; uno

fra i più giovani, Topino, con gesto di sfida, si tolse dal collo il rosso fazzoletto

garibaldino e lo metteva a mo’ di fiamma sull’asta della bandiera,

ove prima c’era stata quella fascista: tutti l’acclamarono.

Grazie all’elenco trovato, i partigiani perquisirono alcune case dei

fascisti repubblichini, fortuna per essi e sfortuna per i partigiani però i gerarchi

e lo stesso segretario del partito fascista repubblichino locale erano

andati dal giorno prima a Firenze per discutere con i loro camerati fiorentini;

nel paese erano rimasti, come risultava dall’elenco e dalle informazioni

degli stessi paesani, i repubblichini all’acqua di rose. A questi Ugo,

Berto e Gambero tennero un bel sermone, impaurendoli e dimostrando

loro che si erano messi su un terreno inqualificabile dal quale avrebbero

dovuto distaccarsi; in ogni modo il loro comportamento sarebbe stato controllato

dai partigiani e se ne sarebbe tenuto conto a guerra finita.

Furono perquisite tutte le case di quei fascisti repubblichini assenti,

con grande riguardo per i familiari. In quasi tutte queste case furono rinvenute

armi, munizioni, divise, documenti e tutto fu requisito in nome del

popolo italiano. I liquori, meno una bottiglia di cognac che poteva servire

al nostro infermiere Vladimiro, furono distribuiti alla popolazione. Prima

di lasciare il paese, Topino, con un pezzo di carbone, scrisse sul muro accanto

all’asta della bandiera alla quale aveva messo il suo fazzoletto rosso:

“Chi la leva muore.” Si dice che soltanto dopo molti giorni quella piccola

bandiera rossa fu tolta, però con l’intervento dei genieri venuti da Firenze,

perché nessun repubblichino ebbe il coraggio di contravvenire a quella

scritta, temendo che ci fosse innestata qualche trappola esplosiva. A tarda

sera del 25 marzo anche Berto, Ugo, Gambero, Timo, Raf con i loro partigiani

fecero ritorno al campo di Gattaiola.

Al campo, col piede fasciato, stretto con diverse chiarate d’uovo che

mi aveva fatto Vladimiro, osservavo la natura che mi circondava. Ero di

osservazione sul poggio accanto alla mitragliatrice Breda 37, vedevo il

verde tenero che spuntava nella vallata; le parti nevose che si dirigevano

sempre più in alto poiché da mezza costa in giù tutta la neve si era sciolta.

Più giù verso la pianura si vedevano già dei prati, costoni verdi con fioriture

precoci; la terra profumava, gli uccellini cinguettavano nel bosco anche

se la morte era sempre in agguato. I boschi si rivestivano di belle foglie

verdi, diventavano per noi più sicuri perché così meglio ci nascondevamo

al nemico che sempre ci spiava. Era arrivata la primavera ed anche

noi l’avvertivamo, qualcosa nel sangue ci spingeva avanti, al movimento,

all’azione. Era arrivato il periodo delle grandi battaglie, ora anche sul

fronte orientale e occidentale le offensive contro i nazisti sarebbero state

più forti e spedite e noi dovevamo essere pronti alle grandi lotte. L’inverno

col suo freddo, con la neve, l’acqua ghiacciata, la fame, le malattie, con

la nostra esperienza era passato; avevano detto che non avremmo superato

l’inverno, invece eravamo qui pronti alla lotta, più forti e fiduciosi di prima.

Ora eravamo una vera organizzazione politico–militare, fiduciosa,

unita: durante l’inverno, malgrado tutto ci eravamo organizzati, rafforzandoci

in tutti i sensi. Attorno a noi, oltre il verde dei boschi, sulle cime dei

monti, nelle vallate, in pianura, nei piccoli casolari colonici sparsi ovunque,

nelle città e nei paesi piccoli e grandi tutta una lunga muraglia di

mani era intorno a noi: mani forti e deboli, mani incallite dal duro lavoro

nei campi e nelle officine, mani bianche affusolate di artisti, studenti, intellettuali,

mani piccole di donne, di fanciulli e fanciulle, mani vecchie

contorte dal lavoro e dalle malattie. Era una grande invincibile muraglia

della solidarietà popolare che ci sorreggeva nelle fatiche, che ci faceva trovare

un tozzo di pane e un bicchiere di vino, che nascondeva o curava il

ferito, ci nascondeva dal rastrellamento, ci faceva trovare facce amiche

ovunque: forti di questa grande, immensa fiducia non potevamo avere

paure o timori né dal presente né dall’avvenire.

Il nemico doveva averla, perché dietro ogni sasso, ogni casa, ogni finestra

o cespuglio non avrebbe trovato che odio, veleno, inganno, morte,

mani pronte a colpire, bocche pronte a mentire. Era il 25 marzo 1944. Nell’ora

politica che tenni quel pomeriggio, mi ispirai a queste considerazioni

per incidere sempre più vivamente nell’animo dei compagni.

Il 28 marzo una squadra comandata da Lazio e Gigi, in zona Pontassieve

e Rufina requisiva dieci quintali di grano destinati agli ammassi e distribuiva

tutto alla popolazione. Il 29 sera al campo di Gattaiola venimmo

raggiunti dal tenente Gino Volpi, che nella zona controllata dal nostro distaccamento,

aveva organizzato una piccola Formazione garibaldina, ancora

in fase organizzativa, chiamata a quel tempo “Formazione Gino”. Il

tenente Gino Volpi noi lo conoscevamo da tempo come un compagno che

aveva avuto l’incarico di organizzare una formazione partigiana; voleva

da noi un aiuto in uomini per poter affrontare un’azione alla Consuma nella

villa dei famosi commercianti fiorentini Merciai.

“Questa villa”, ci disse Gino, “è circondata da una rete metallica ed è

sempre presidiata da fascisti repubblichini, compresi i Merciai.” In un primo

tempo rimanemmo perplessi in quanto noi lo conoscevamo come un

attivo compagno, ma questo non bastava e non sapevamo se e quanto valeva

come capo partigiano. La sua formazione a Secchieta venne attaccata

dai repubblichini e, secondo noi, si sbandò troppo velocemente. D’altra

parte ci dispiaceva non aiutare un’altra Formazione partigiana garibaldina

come noi a compiere un’azione che, se portata a buon fine, l’avrebbe aiutata

a crescere. Così decidemmo, anche se con poco entusiasmo, di contribuire

a quella prospettata azione. Alle richieste di Gino noi rispondemmo

fornendogli una squadra fra le migliori, comandata dal bravo e tenace Esse

e da Pevere, fornendoli anche di grosse tronchesi per tagliare le maglie

della rete.

Di conseguenza il pomeriggio del 30 marzo 1944, verso il crepuscolo,

la squadra della Formazione Gino, comandata dallo stesso Volpi e la

nostra squadra, comandata da Esse e da Pevere, si portarono ai margini

della villa Merciai e cominciarono a tagliare la rete per farsi un varco, sicuri

di non essere uditi dato il rumore che veniva dalla villa, rumori di

schiamazzi, grasse risate e radio accesa a tutto volume. Ma si sbagliavano:

una grossa sparatoria si abbatté improvvisa su di loro. Evidentemente erano

stati visti avvicinare e i sorpresi fecero la sorpresa. Valerio, giovane

partigiano chiamato anche Colombina bianca, rimase quasi subito ferito ad

una gamba e quindi immediatamente portato via dal luogo della sparatoria

e messo in un posto più sicuro. Alcuni istanti dopo Esse, che si slanciava

per primo per abbattere la porta, veniva raggiunto da un proiettile nemico

al petto, a pochi centimetri dal cuore e si accasciava al suolo; la costernazione

dei partigiani fu grande e il dolore per i compagni feriti li animò ancor

di più.

Bob si slanciò sotto il fuoco nemico, raggiunse Esse, se lo caricò sulle

spalle e, mentre con un braccio teneva fermo il corpo del compagno,

con l’altro, armato di pistola, sparò tutto il caricatore contro la finestra del

pianterreno, contro il nemico e riuscì poi miracolosamente a sgusciare via

fra i colpi che gli fischiavano vicino. Subito dopo, con un opportuno fuoco

di copertura, la porta venne abbattuta; i partigiani irruppero dentro, ma i

fascisti non c’erano più, poiché approfittando delle tenebre e di un passaggio

segreto, che portava oltre la rete metallica di demarcazione, riuscirono

a fuggire in aperta campagna. Furono però requisite armi e munizioni; il

povero Esse e Valerio furono riportati all’accampamento su due tregge;

Ricciolo ed altri partigiani andarono loro incontro. Per fortuna la ferita di

Esse non era tanto grave come a prima vista era sembrata: il colpo era stato

sparato attraverso la porta e il proiettile non aveva avuto perciò la forza

di penetrazione tale da ledere gli organi interni vitali; era penetrato in poca

profondità ed il medico condotto della zona di Londa accettò volentieri di

fare l’operazione per estrarre il proiettile. Il medico lo mandammo a prendere

la notte stessa e, saputo che era molto anziano, mandammo anche un

mulo per portarlo su.

L’operazione venne fatta sul grande tavolo di cucina, con tre grossi

lumi a petrolio tenuti alti da tre partigiani; poiché non c’era nessun anestetico

in cinque reggemmo fermo Esse mentre il dottore, dotato di una folta

capigliatura bianca, operava; da infermiere fece Vladimiro. Fu una cosa

piuttosto lunga fra bestemmie, invocazioni e la solita voce del medico che

ripeteva: “Ci voleva più luce e non così tremolante.”

Finalmente il proiettile fu estratto, e dopo poco l’operazione ebbe felicemente

termine. La ferita di Valerio venne accuratamente medicata ed

era molto più leggera e non destò nessuna preoccupazione, tant’è vero che

Valerio in pochi giorni poté guarire.

Tutti erano addolorati al campo per la ferita di Esse, ma forse più di

tutti lo era Timo, il quale essendo del suo stesso paese era legato da molto

affetto ad Esse ed alla sua famiglia. Dopo l’operazione Timo, che nel frattempo

era stato tutto triste e in disparte, aspettando l’esito, si avvicinò

commosso all’amico e lo baciò; Esse, per mascherare la propria commozione,

gli disse calmo calmo: “Ciao Garibaldi, non ti allarmare, non ti lascio.

Il proiettile che mi deve ammazzare è ancora da fabbricare.” Esse

guarì e tornò a combattere fino alla completa liberazione di Firenze.

Il 31 marzo Ugo avvicinò Berto, Gambero e me dicendo che aveva

da parlarci. Ci disse che era stato avvicinato da Lazio, che gli aveva fatto

notare che da tempo avevamo fatto grande rifornimento per la Formazione

creando basi in tanti luoghi: gli sembrava giusto che fosse giunto il tempo

di aiutare le famiglie dei partigiani, specie quelle che stavano nei paesi vicini,

come la sua e di altri. “Perché non portare anche in queste famiglie

qualche sacco di grano e qualche barilotto d’olio?” “E tu che cosa gli hai

detto?”, rispondemmo. “Mah”, rispose Ugo, “io gli ho detto che per me, se

si tratta di mandare qualcosa a qualcuno sono d’accordo.” Così Berto,

Gambero ed io ci guardammo in faccia sorpresi ed amareggiati, solo Gambero

rispose: “Ma se hanno diritto loro lo hanno anche tutti gli altri.” Poi

incalzò Ugo: “Lazio non è d’accordo con la grande e ferrea disciplina che

abbiamo instaurato e poiché ritiene che questo lo si debba al fatto che ora

siamo diventati una grossa Formazione, siamo in trecento, ritiene che si

debba dividere la Formazione in tante Formazioni piccole, spostandone

una sul Monte Giovi, una qui, un’altra sul Pratomagno, così la disciplina

sarà più sopportabile. Lui anzi vorrebbe andare sul Monte Giovi con una

ventina di partigiani, che sono già d’accordo con lui.” “E tu che cosa gli

hai detto?” “Ho risposto che se la pensano così è bene che se ne vadano.”

Ritenemmo di riunire la Formazione per fare l’ora politica e a me

venne dato il mandato di introdurre la discussione: parlai della necessità

come il pane di avere una disciplina di ferro, che poi in pratica era autodisciplina;

dimostrai come questa era garanzia per la salvezza di ciascuno di

noi. Poi, senza fare il nome, dissi che c’era stato un compagno che aveva

proposto di dividerci una parte della roba requisita ed inviarla alle nostre

famiglie, spiegando, con argomentazioni valide, che saremmo diventati

praticamente una banda di briganti che si divide il bottino.

Dissi anche: “Questo compagno, che fa certe proposte, vorrebbe anche

spezzettare la formazione e farne tante piccole e inoperanti, perché la

loro piccolezza impedirebbe di fare grosse azioni. La Formazione Gino

Volpi ce l’ha dimostrato: per andare a fare una piccola operazione, come

l’attacco ad una villa di repubblichini, ha dovuto chiedere aiuto alla nostra

formazione. Questo compagno, che fa proposte fuori dell’ora politica, è un

bravo combattente e come tale ha tutta la mia stima; forse è male consigliato,

ma io sono sicuro che ora ci dirà da sé chi è e ci dirà le sue idee.”

“Sì, sono io Gianni, ma tu lo hai capito fin dalle prime parole di

Ugo.”

“Tu sai che ti considero il miglior Commissario Politico che ci sia,

per coraggio, cultura e preparazione e insieme abbiamo fatto tante azioni,

trovandoci sempre d’accordo.”

“Ho sbagliato a domandare ed a chiedere a Ugo ciò che ho chiesto,

ma lui mi ha invitato a parlarne e poi mi ha detto ‘Non lo dire a quelli

sai…’”

“Scusa Lazio”, dissi io, “ma chi sono quelli lì?”

“Tu, Berto e Gambero!”

“Senti Lazio, io ti stimo e ti voglio bene, se vuoi tornare su Monte

Giovi con una ventina di compagni e un po’ di rifornimento bastante per

due o tre giorni lo puoi fare. Non ti voglio vedere così rattristato! Comportati

bene come hai sempre fatto.”

Lazio con le lacrime agli occhi si alzò e abbracciandomi disse:

“Nella mia vita ho avuto due soli maestri: Ciro Fabbroni che i fascisti

hanno assassinato e te. Non ti fare ammazzare Gianni, sei troppo utile e

necessario.”

Nel pomeriggio Lazio con una ventina di partigiani partì per raggiungere

Monte Giovi.

  1. finalmente una verità che concorda con quella di mio padre

  2. e’ sempre un piacere leggere la storia di chi la vissuta in prima persona..

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