Un uomo e tre numeri 2°

Enea Fergnani è nato a Cento (Ferrara) il 24 dicembre 1896. Studente a Bologna, in seguito si trasferisce all’Università di Milano e qui si laurea in Giurisprudenza.

Nel 1916 è arruolato in Cavalleria e partecipa alla prima guerra mondiale in trincea. Combatte sul Carso, in Carnia e sull’Altipiano di Asiago. Due volte ferito, fu decorato con una medaglia di bronzo e due d’argento sul campo. Nel 1920 fonda a Mantova la Sezione del Partito Repubblicano Italiano ed entra successivamente a far parte del movimento Giustizia e Libertà. Nel 1926, per sottrarsi alle continue persecuzioni dei fascisti, si stabilisce definitivamente a Milano. Arrestato nel 1913, è tradotto alle carceri di San Vittore, poi è trasferito a Fossoli, quindi nei campi di eliminazione di Mauthausen.

Nel 1945, dopo la liberazione dell’Oltre Danubio, fa parte del Comitato di Liberazione di Linz e dell’Alta Austria. Tornato in Italia, è tra i promotori dell’Associazione Perseguitati Politici Italiani Antifascisti. Nel 1946 è delegato, a Varsavia, al primo Congresso degli ex-Prigionieri Politici dei campi di concentramento germanici.

Deceduto nel 1978

Da San Vittore a Fossoli

L’incubo degli interrogatori, delle rappresaglie e delle sevizie, le immagini atroci dei cadaveri dei suicidi, i canti notturni dei militi ebbri di vino e di odio, gli spari e le risate beffarde, le bieche figure di Klem e di Franz, di tutta la schiera infame di poliziotti, di spie, di delatori, di massacratori che si aggiravano da cella a cella e delle femmine abbominevoli che talvolta li accompagnavano, lo spettacolo doloroso dei condannati condotti all’estremo supplizio tra due file di armati, l’incertezza del domani, l’atmosfera di sospetto, lo stridore dei catenacci, i bussi alle porte, i volti inebetiti dei vili: tutte le miserie e tutte le tragedie di San Vittore, in questa luce diffusa, sotto questo cielo aperto, in questa campagna ubertosa dove vivono uomini in libertà, sembrano i ricordi di un orribile sogno dal quale ci siamo liberati per sempre…..

***

Ed ecco, a qualche centinaio di metri davanti a noi, apparire strane torrette disposte in cerchio a intervalli regolari e dopo pochi istanti profilarsi file di baracche. Il giovane carabiniere che mi è vicino dice: <Ecco il campo di Fossoli. Siamo arrivati ». Le vetture rallentano e sfilano attraverso la grande porta d’ingresso.

Un sergente maggiore e un nugolo di SS ci vengono incontro e ci dànno il benvenuto dirigendo verso di noi i fucili mitragliatori. Scesi dalle autovetture, uomini ,e donne ci incolonniamo davanti a una fila di baracche. Ancora un appello. Alcuni mancano. Terminato l’appello, a gruppi di dieci veniamo introdotti nell’Ufficio matricola dove dettiamo alle dattilografe, quasi tutte ebree, i dati per la compìlazio- ne della scheda personale; poi noi uomini ci rechiamo nel locale dei barbieri, dove ci vengono tagliati i capelli fino alla cute. Terminate queste operazioni, ci viene applicato alla giacchetta e ai calzoni un grande triangolo di stoffa rossa e, sopra, un rettangolo bianco col nuovo numero di matricola.

Da questo momento io sono il numero 152.

Verso le quattro del pomeriggio, adunata per un nuovo appello e per l’assegnazione alle varie baracche. Al campo, prima del nostro arrivo, si trovava già un centinaio di ospiti fra i quali una ventina di pastori della provincia di Frosinone, distinti da un triangolo rosa, internati come ostaggi. Vi erano anche ebrei puri ed ebrei misti. Le baracche vuote sono parecchie. Qualcuno propone che una cinquantina di noi, amici e compagni piú conosciuti e fidati, ci aduniamo nella baracca segnata col numero 18, dove facciamo il nostro ingresso alle sei di sera.

Lo sbarco degli anglo-americani in Francia, avvenuto da pochi giorni, ha sollevato il nostro animo e messo le ali alla nostra fantasia. Si susseguono le notizie che confermano la riuscita della grandiosa operazione militare. Siamo ormai tutti convinti che la guerra è entrata nella fase finale. Per alcuni, che io giudico eccessivamente ottimisti, la guerra potrà durare ancora poche settimane, forse due mesi al massimo. Quasi nessuno di noi crede all’esistenza di nuove armi tedesche che possano ‘ mutare quello che è il corso fatale della guerra.

Il passaggio degli aeroplani anglosassoni da alcuni giorni si è intensificato. Anche Carpi è stata bombardata. Quando gli aeroplani destinati a questa operazione si sono staccati dal folto gruppo di aerei del quale facevano parte, dirigendosi sulla città, e si sono udite le esplosioni delle prime bombe, io mi trovavo con la signora Valeria Calza-vara, la signorina Montuoro e altre internate, nell’Ufficio matricola per rilevare dei dati dalle schede. Haage, ora maresciallo, si è precipitato fuori per rifugiarsi con le altre SS nella trincea scavata nei pressi del Comando subito dopo il mitragliamento del campo. Il maresciallo, con la collaborazione di due ebree di sua fiducia, lavora segretamente alla compilazione di lunghi elenchi, che da alcuni giorni lo tengono occupatissimo. Tento di approfittare della circostanza e quando la baracca è vuota, passo dall’Ufficio dello schedario a quello attiguo del maresciallo con la speranza di poter dare un’occhiata agli elenchi in preparazione, che immagino siano stati abbandonati sulla scrivania; ma non li trovo. Vedo soltanto l’intestazione in lingua tedesca di un foglio. Riesco a capire alcune parole: «…prigionieri… campo di passaggio di Fossoli… per la Germania… ».

Cessato il bombardamento di Carpi confido la piccola scoperta a Violante, ad Aulisio e a Mino Steiner col qualé’, da alcuni giorni, ho stretto un’affettuosa amicizia. La scoperta conferma senza piú dubbi la voce che corre insistentemente da alcuni giorni: molti di noi partiranno per la Germania nonostante che qui siano stati aperti laboratori di falegnameria, calzoleria e sartoria, sia stata messa in attività anche una tipografia, sia in corso di attuazione un vasto programma di lavori con l’installazione di altri numerosi impianti, e il lavoro sia ormai obbligatorio per tutti. Infatti coloro che non sono già adibiti ad un lavoro fisso, sono stati sottoposti a visita medica ,per accertare se idonei a lavori pesanti o leggeri.

Siamo ormai alla vigilia della partenza di un grosso convoglio diretto in Germania. Le liste, ultimate, sono già state trasmesse a Verona dove il Comando delle SS da cui dipendiamo dovrà esaminarle.

Sul campo scende un’atmosfera pesante. A Milano si è già saputo qualche cosa. L’affluenza dei parenti Qi è intensificata. L’andirivieni dei biglietti si esatto piú frequente e Renato Carenini e Brenna organizzano un servizio eccellente di raccolta all’interno e all’esterno.

Alcuni affermano che appena giunti in Germania ci sarà tolto tutto. Rispediamo a casa ,pacchi di oggetti meno necessari e piú cari al nostro cuore: vogliamo salvarli dalle mani rapaci dei tedeschi, ma non ci si può privare di tutto e forse l’affermazione è esagerata. Perché dovrebbero essermi tolti i miei libri, le fotografie dei miei cari, gli indumenti personali, la biancheria, questa piccola scorta di viveri, questi medicinali?

***

Adunata generale. Il capo campo Maltagliati, il vice capo campo Bandivi e alcuni internati si avvicendano nella lettura delle liste dei partenti. Si leggono i numeri. A San Vittore leggevano i nomi, ma si partiva per una località italiana. Ora si leggono soltanto i numeri. Si parte dunque davvero per la Germania. La macchina poliziesca di Hitler comincia a stritolarci.

Le liste si succedono alle liste. Nell’attesa che si protrae, i non ancora chiamati si sentono come sospesi sull’orlo di un abisso che può ingoiarli da un istante all’altro. « Nessun potere eguaglia quello del sacrificio, perché solo dal sacrificio nasce ogni cosa grande ». Qualcuno di noi lo ha ripetuto a sazietà. Ma in quei mille volti protesi sembra ora riflettersi- soltanto il dolore veduto e intravveduto. Il sole italiano illumina questa folla di italiani vilipesi, dalla quale, a ogni numero che il lettore scandisce, un uomo si stacca e si allontana. Ogni designato si reca al suo giaciglio per adunare in una valigia, in un sacco, in un involto ciò che porterà con sé. Ignota è l’ora della partenza, ignota la destinazione, ignoto l’itinerario, ignoto il mezzo di trasporto. Ciascuno sa soltanto che deve andare, che non può restare sotto questo cielo italiano; che il potere mostruoso che lo ha afferrato, si è impadronito definitivamente di lui, e che non allenterà mai la presa dei suoi cento tentacoli.

La lettura è finita. Parecchie centinaia di « numeri » partiranno come lavoratori semiliberi. Circa centocinquanta saranno deportati come « politici » condannati ai lavori forzati in campi speciali. Noé, Violante, Brioschi, Pugliesi, Martello, Cambi, Barzini, Montuoro, Aulisio, Trinchero, Bon-fantini, Valcarenghi, Banfi, Belgioioso, Steiner, Puecher sono tra questi ultimi. La baracca 18 è quella che ha versato il maggior tributo al mostro nazifascista. Abbraccio uno a uno gli amici partenti.

E ’il 21 giugno. Noi rimasti guardiamo i posti vuoti. Per ciascuno dei compagni partiti, ciascuno di noi ha commosse parole di rimpianto. Evochiamo episodi, frasi, atteggitinienti: è partita una parte dei migliori. I commenti si prolungano fino a notte tarda. Quando ci corichiamo credo che ciascuno di noi abbia l’impressione che il capezzale sia diventato di pietra.

22 giugno. Alle tredici e trenta Poldo Gasparotto è stato assassinato. Pochi minuti dopo le tredici, un inviato entra nella baracca 18 ad informare che il maresciallo attende Gasparotto alla sede del Comando.

Poldo interrompe la colazione, si alza e va diritto verso l’ uscita. Fatti pochi passi fuori dalla baracca, rientra, chiama Brenna e gli consegna un sottile pacco di carte. c Tieni », gli dice. « Nascondi ». E si avvia ancora verso l’ uscita in calzoncini e zoccoletti. I piú vicini lo seguono con lo sguardo. Qualcuno esce dalla baracca e lo vede proseguire attraverso il cancelletto al di là della rete, soffermandosi un istante davanti a un posto di controllo, per fare annotare il suo numero e procedere verso la baracca del Comando. Qualcuno che è in quei pressi osserva che due SS ferme accanto a un’automobile fanno alcuni passi verso di lui, e dopo un brevissimo scambio di parole gli applicano ai polsi le manette. L’autista è al suo posto. Gasparotto e i due sicari armati di mitra, salgono sull’automobile che parte seguita da una SS in motocicletta. Uscita dal portone, la macchina volta a sinistra e il rombo del motore in marcia velocissima si perde nella campagna assolata.

Dopo una quindicina di minuti il motociclista rientra al campo, conferisce col maresciallo Haage e riparte.

Piú tardi fa il suo ingresso al campo un furgoncino dalle cui commettiture cadono sulla polvere stille di sangue. Il corpo assassinato di Poldo Gasparotto è ritornato.

A San Vittore e a Fossoli, dal 10 dicembre 1943, Poldo — come lo chiamavano tutti era il simbolo vivente del coraggio, dell’ardimento, delW risolutezza. Per la sua fede aveva accettato senza esitazione il rischio, aveva offerto senza esitazione la vita. Egli avrebbe lottato sempre, in città, in montagna, in carcere, a Milano, a Fossoli, ovunque. O proseguire la lotta o morire. Pose lui stesso ai suoi nemici il dilemma: o subire la sua lotta o ucciderlo. Egli volle che le reciproche posizioni fossero nette. La decisione di Gasparotto fu irremovibile e irrevocabile. Lottò in montagna e in città; raggiunto e torturato, lottò nelle carceri di San Vittore, tradotto nel campo di concentramento di Fossoli, prosegui la sua battaglia. Il nemico dovette riconoscersi vinto. Non potendo spegnere quell’ardore, lo ha assassinato con una raffica di mitraglia scaricatagli a tergo, a tradimento. Nessuna vittoria avrebbe eguagliato la potenza di questa morte trionfale. Gasparotto non ha subito l’onta del processo, l’ingiuria di una formale sentenza, l’infamia di una esecuzione rituale. Egli, rendendo i suoi nemici d6- menti di odio e di ferocia, li ha consegnati senza maschera al giudizio dei contemporanei e della storia dopo aver scritto col suo purissimo sangue sulla loro fronte, a perpetua ignominia, l’appellativo di assassino.

L’assassinio di Poldo, commesso a meno di ventiquattro ore dalla partenza del convoglio per il campo di concentramento di Mauthausen, ha prodotto in tutti noi un’angoscia che non avrà facile lenimento.

Ho fatto amicizia con una piccina ebrea di tre anni. Mentre mangiava i biscotti che 1e ho regalato-improvvisamente mi ha detto: « Io non ho più il papà lo hanno portato via in novembre, anche la mia bambola in novembre è morta. Io e la mia mamma siamo andati in prigione sai, con una sola vestina. E quando c’era l’allarme bisognava stare in cella. Il tedesco faceva la guardia e picchiava ».

E’ arrivato per una visita al campo Guido Buffarini Guidi, ministro della cosiddetta Repubblica Sociale. Quel corpo grasso e pesante si è aggirato qua e là, è entrato nelle baracche, nell’infermeria, nella cucina, col seguito di un ufficiale, delle SS e di alcuni addetti alla polizia fascista. Superando lo schifo ho voluto seguirlo per un tratto con lo sguardo due enormi spalle e rotondità di bagascia su due gambe corte polpute, lente; un volto in cui il grassume, cascando sotto il mento, gli conferisce l’aspetto del suino. Al sommo di quelle enorme sacca di lardo, il cappelluccio nero sembra essere stato collocato da un umorista per rendere insuperabilmente ridicola quella sconcia pinguedine.

Che cosa è. venuto a fare costui? Noi preferiamo i tedeschi. A costoro possiamo opporre il nostro disprezzo, ma tutto il disprezzo e tutto l’odio che circolano nel mondo non lontano contro costui. E scannarlo non basterebbe, darlo in pasto ai lupi non basterebbe. Perché questo traditore, questo venduto, questo sicario è venuto qui in veste di Ministro a ingiuriarci con la sua presenza? Costui non è tedesco, non è italiano, non è cittadino di nessuna nazione. Costui è soltanto un miserabile. Ma egli è venuto qui in qualità di Ministro italiano. Quale orribile sciagura si è dunque abbattuta sull’Italia?

***

E’ il 3 luglio. Ricevo un biglietto. Mia moglie è ancora tornata a Fossoli con mio figlio e mio cognato; ma non potrò vederli. La sorveglianza al campo è ora rigidissima. La strada è stata sbarrata alle due estremità del campo. Non si transita senza autorizzazione. La signora Martinella è stata ferita alla testa da un milite perché nell’ansietà di vedere il suo figliuolo si era avvicinata al campo oltre la nuova linea che passa assai lontana.

Anche nell’interno del campo la disciplina è piú rigorosa. t severamente proibito avvicinarsi alla rete verso la strada. Si nota l’arrivo frequente di automobili della Gestapo. Da alcuni giorni i contatti del campo con l’esterno si sono ridotti all’indispensabile. Quasi tutti gli operai civili sono stati licenziati. I pochi che— lavorano al campo hanno ricevuto una piú severa ingiunzione di non parlare con noi. t ormai certezza comune che sia prossima un’altra spedizione.

Corrono cento notizie.

Una lista di partenti è già pronta. arrivata stamattina da Verona » –

Ai chiamati il maresciallo rivolge un altro breve discorso: Il campo dove sarete trasferiti è in fase di organizzazione. Ho scelto voi che, avendo capacità varie, potrete prestare un’opera utile a favore dei compagni che vi seguiranno. Anche il Comando del campo di Fossoli si trasferirà prossimamente nel nuovo campo ».

21 luglio. Mezz’ora dopo la sveglia, noi partenti ci aduniamo davanti alle cucine ove ci vengono distribuiti viveri per una giornata nil maresciallo Koming è affabile, quasi cerimonioso e poiché balbetta qualche parola in italiano ci da una confortevole notizia che verrà con noi e che nel nuovo campo staremo molto meglio che a Fossoli. Domando dove siamo diretti ed egli cortesemente risponde “ al campo di Gries”

La vita nel nuovo campo si annuncia molto dura. Cibo scarsissimo e pessimo, lavoro faticoso e, terminato il lavoro, sepoltura in questa tomba di pietra e di ferro dove ricominciano a circolare le ipotesi piú nere. B. è certo che ci fucileranno tutti qui. E non è il solo a pensarlo.

Infatti, perché non ci hanno trasportati direttamente in Germania? B. dice: « L’eccidio di Fossoli ha sollevato scalpore, ha destato preoccupazioni. Avete visto quanto si è dato da fare Haage per tenerci calmi? E quante frottole ci ha somministrato per farci stare buoni buoni? Non bisogna dimenticare che Fossoli non è molto distante dalle colline del Modenese che sono gremite di partigiani. Qui tutto si semplifica.. Una strage alla chetichella e nessuno ne sa qualche cosa per un pezzo ».

Un giovanotto toscano, S. O., ha anche lui una grande voglia di parlare e di gettar olio sul fuoco. Con una spiccatissima e compiaciuta intonazione regionale a sua volta dice:

« O che non ve l’avevo detto io? Questi cani non avran pace fin che non ci avranno visti crepare tutti. Ci hanno il sangue del demonio nelle vene e chi non è crepato prima creperà poi. Già per noi non c’è via di scampo. Avete visto quel sergente con quel vecchietto che avrà settant’anni a dir poco; quello che è stato trovato con du’ mele che non so com’abbia fatto ad averle?

Gli si è messo davanti, qui nel mezzo del campo, e gli ha dato, voi l’avete visto, prima un ceffone a diritta poi uno a manca. Poi uno a manca e uno a dritta. Ceffoni da far cascare un gigante. E il poveretto doveva rimettersi in equilibrio per non prendersi un calcio nel ventre. E piú gliene dava di ceffoni e piú gliene veniva voglia. E tanti gliene ha dati che il poveraccio s’è infine buttato giú per terra come un cencio. E lui a tirarlo su per rimetterlo in piedi, e quando gli è riuscito a fargli ritrovare l’equilibrio, allora ci ha preso piú gusto e gli ha sferrato piú ceffoni di quanti gliene avesse dati prima. Picchiava sodo come un battacchio, picchiava, e il poveretto è cascato giú di nuovo mencio come uno straccio con du` fili di sangue dalla bocca. Ma non s’è chetato ancora il bravaccio. Io non so che ci avesse Ip quel= le mani maledette. L’ha ripescato ancora da terra, ha tentato di rimetterlo sui du’ piedi ma non gli è riuscito, ché quello cascava giú come morto. Allora, l’avete visto, l’ha trascinato per il colletto della giubba e l’ha fatto ‘ raddrizzare ancora con le spalle contro quel travi ed ha ricominciato a menar ceffoni, quell’anima dannata, fino a che non l’ha visto tramortire ».

Per trasportare l’enorme quantità di legname che è nel campo al nuovo deposito distante circa trecento metri, occorrerà una decina di giorni, e saranno per me giorni di vero martirio, perché, sebbene il dottor Zannini abbia accertato che la cassetta piena di viti e bulloni che dall’alto mi è caduta sul petto mi ha fratturato una costola e sebbene della stessa opinione sia il medico del campo, non ho ottenuto la dispensa dal lavoro. Dovranno passare almeno due giorni prima che possa essermi fatta una fasciatura perché il campo è sprovvisto anche di garza.

Anche Taranti è ammalato da ieri. Una guardia, accortasi che egli tentava di sottrarsi al getto gelido della doccia, lo ha denunciato al sergente. Il castigo è piombato rapido e crudele. C’è nel campo un grosso idrante dal quale esce violentissima. A pochi metri di distanza un rollio, anche un uomo pesante e vigoroso, non regge al getto e stramazza. ‘l’aranti è alto sopra il normale, è uno dei piú gagliardi giovani che siano nel campo. Il giuoco sarà piacevole, per il sergente che fa predisporre dallo zelante Cologna l’idrante al massimo di pressione. La prova riesce ottimamente. Il poderoso getto di acqua gelata sprizza fuori con un fruscio sonoro. La istintiva riluttanza è presto vinta. Ili Cologna, armato di un grosso randello, è alle costole della vittima che deve immergere i piedi in una pozza d’acqua e aspettare. Un altro guardiano manovra l’idrante e il sergente, con le braccia incrociate, dà segno di gustare il piacere di quell’allegra trovata. L’idrante si dirige sul petto della vittima che viene sbalzata a un metro di distanza, mentre il getto gli si apre intorno in un vasto ventaglio. « Al posto! ». Il randello di Cologna minaccia il giovane che ritorna al suo posto dal quale è nuovamente ributtato lontano a trabalzoni. «Al posto! ». Il misero capisce che se non farà uno sforzo per restare al suo posto il supplizio durerà molto tempo. Comincia allora sotto la vigilanza piú stretta del randello di Cologna, una gara accanita tra colui che manovra l’idrante e la vittima. Il getto di dirige sul volto, poi balza improvviso al petto, colpisce il ventre, le gambe, la nuca, la schiena. Il giovane stramazza. L’acqua lo inonda gelata. Premendo le palme e i piedi sul terreno, lo sventurato tenta di risollevarsi, ma quando le palme abbandonano il terreno, l’urto potente lo fa stramazzare di nuovo. Da una ferita alla fronte sgorga il sangue; un filo di sangue che appena si forma e scompare rapidissimo. Il sergente vuole vederlo in piedi. In una pausa l’Incitatore gli è attorno col randello. Il giovane faticosa mente si risolleva. Il filo di sangue scende ora ininterrotto dalla fronte, scivola rapido dalla gota sul petto fino alla coscia, fino al ginocchio livido. La pelle che era bianchissima è ora chiazzata di vaste macchie rosse. Il getto investe di nuovo quel corpo che tenta di opporgli le sue estreme energie e ricade. Quanto tempo dura quell’atroce spettacolo dal quale il mio occhio vuol rifuggire ma che io voglio vedere fino alla fine? La colonna d’acqua seguita a frantumarsi su quel corpo ormai esausto, a spezzarsi sulla fronte, sulla nuca incurvate sopra un ginocchio mentre le braccia si stringono al petto come in un gesto di estrema-difesa. Finalmente il sergente fa un cenno. Genug! Il supplizio è finito.

Taranti rientra nella cella barcollando; lo avvolgiamo nelle coperte e lo distendiamo sulle tavole del sub giaciglio. Nella notte febbre e delirio. Dalle orecchie, che non percepiscono più il suono delle nostre parole, escono gocce di sangue.

Il medico del campo mi ha chiamato mentre i miei compagni venivano avviati al lavoro. Mi ha condotto fuori del recinto del campo per un viottolo aperto tra una fitta vegetazione di innumerevoli meli i cui rami si piegano sotto l’abbondanza dei frutti. Ci rechiamo al posto di medicazione.

Il medico è un giovanotto di Bolzano che funge anche da capo campo. è prigioniero da sette mesi per motivi che egli dichiara politici, sebbene, prima del nostro arrivo, di « politici » qui non ce ne siano stati, non potendosi attribuire questa qualifica a un gruppo di fascisti dissidenti che, dopo 1’8 settembre, a Roma, hanno compiuto innumerevoli misfatti col pretesto di voler ricondurre il fascismo alle sue origini squadriste. Costoro si distinguono subito dagli altri perché hanno ancora i pantaloni da ufficiale della milizia e gli stivaloni.

Entriamo in una baracca e il medico mi invita a seguirlo in un salottino elegantemente arredato. Un divano con molti cuscini di seta, poltroncine, uno stipo di mogano, tazze di porcellana, una boccia, bicchieri di cristallo su viari mobiletti. Alle pareti, dentro sottili cornici laccate, rosa e azzurre, immagini di femmine ignude tipicamente tedesche.

II medico toglie da un armadietto un rotolo di garza o dopo alcuni tocchi esperti mi fascia strettamente il costato. Due giorni di riposo. Dalla frattura sono trascorsi due giorni e mezzo, durante i quali ho dovuto sollevare e trasportare travi e tavole di quelle maledette stalle smontabiIi già appartenenti all’esercito italiano e ora bottino dell’esercito tedesco.

Si parte. Siamo letteralmente buttati fuori dalle celle e suddivisi in gruppi di quaranta persone. Il sergente getta a questo e a quello una parte delle sigarette e delle scatole di cibi che ci furono sequestrate due giorni or sono. Le SS e guardie speciali si dispongono ai nostri fianchi e usciamo dal campo percorrendo lo stesso sentiero che conduce al posto di medicazione. Poco dopo la stradicciola campestre si allarga scendendo fra ricche piantagioni di meli. Dopo gli addii commossi a San Vittore e a Fossoli, diamo un addio lieto a Gries. Non sappiamo dove siamo diretti, ma ci illudiamo, cambiando pena, di trovar sollievo per le nostre miserie. Un sole di tardo settembre, già declinante, filtra fra i rami rabescando di ombre e luci il tappeto di erba che copre il suolo impregnato di pioggia recente. Taluno, eludendo la sorveglianza, strappa un frutto e lo morde.

Halt! La testa della colonna ha raggiunto la strada ordinaria. Le file si ordinano. Ruhe! Weiter marsch! Silenzio e avanti. Gli ordini dati nella lingua più rude dalla soldataglia più prepotente sembrano scoppi di rabbia. Giunti a una piccola stazione campestre, i soliti carri bestiame con le loro enormi bocche spalancate ci ingoiano. Di fuori le porte sono sprangate.

Al tramonto del giorno successivo, dopo Salisburgo il convoglio attraversa una campagna brulla, desolata, sconvolta. Lunghe soste. Il treno avanza, poi retrocede per lunghi tratti, poi avanza ancora. Oltrepassiamo di un buon tratto una stazione sulla quale è scritto il nome di una località temuta più di ogni altra: Mauthausen. Ma il sollievo dura breve tempo, il treno retrocede ancora di circa un chilometro. Poi si ferma: siamo arrivati. Siamo ritornati’ alla stazione di Mauthausen!

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