Enzo Forcella – Perché ho combattuto

La guerra in Jugoslavia vista dal «chiuso» dei reparti rimasti inoperosi per lunghi mesi, mentre a pochi chilometri infuriava un conflitto crudele e le forze dell’Asse si scatenavano nelle rappresaglie contro la popolazione civile e i partigiani di Tito. I soldati italiani «aspettavano solo che finisse», augurandosi che le cose continuassero così il più a lungo possibile. Nessuno, nemmeno il comandante, credeva nella guerra fascista. E con l’8 settembre tutto si sfaldò in modo quasi naturale.

Enzo Forcella

Perché ho combattuto

La prima volta sono stato a Sebenico, in un reparto di fanteria accampato sulla costa. A­vevo il grado di sergente con un rombo ri­camato in oro e la scritta Vu, «volontario u­niversitario», su una manica della divisa. Non era vero, ero stato chiamato alle armi con re­golare cartolina precetto. Ma Mussolini, de­luso che al momento della dichiarazione di guerra gli studenti non si fossero presentati volontari rinverdendo la tradizione risorgi­mentale dei battaglioni Curtatone e Monta­nara, ci aveva fatto arruolare d’autorità. Or­dinando però, con una sorta di operazione magica, di essere considerati, per l’appunto volontari; poiché era scritto diventava vero. Passai un paio di mesi a leggere e giocare a carte sulla riva del mare. Non dovevamo fa­re niente, soltanto aspettare di essere even­tualmente trasferiti nell’interno dove di­vampava la guerra partigiana. Una guerra feroce, con eccidi, fucilazioni di ostaggi, de­portazioni di massa; i vilaggi distrutti con i lanciafiamme. i partigiani di Tito avevano già occupato larghe zone della Bosnia, del­l’Erzegovina, del Montenegro costringendo gli italiani a ritirarsi nelle guarnigioni fortifi­cate. Ma sono tutte cose che apprenderò sui libri, molto più tardi. Mentre ero là non sep­pi neppure che, proprio nei giorni del mio arrivo, a pochi passi dal mio accampamen­to, erano stati fucilati 65 ostaggi tra cui Rade Koncar, uno degli eroi della guerra di libera­zione.

Poi fui richiamato in Italia per partecipare al corso allievi

ufficiali. Ritornai in Balcania, come allora veniva chiamata l’ex Jugoslavia, dopo sei mesi. Questa volta ero a Zegar, un villaggio al confine tra la Dalmazia e la Croazia, sottotenente delle «Guardie al­la frontiera». Anche qui per tutto il tempo che vi rimasi non accadde niente. Ma ora, contrariamente a quanto era avvenuto a Se­benico, era un niente in qualche modo or­ganizzato.

Tutti gli uomini validi erano in montagna, nel villaggio erano rimasti soltanto le don­ne, i bambini, qualche vecchio e un prete. Non so bene come, il prete era riuscito a sta­bilire un tacito accordo tra noi e i partigiani: se ci fossimo tenuti nel perimetro del villag­gio senza tentare sortite o rastrellamenti nessuno ci avrebbe dato fastidio, la posta e i viveri sarebbero arrivati regolarmente.

Il capitano che comandava la compagnia e­ra un tipo tranquillo e sornione. Si era acca­parrato l’unica ragazza piacente e disponi­bile, gli piaceva bere, il reparto non gli dava grane. «Aspettiamo che finisca» diceva «e auguriamoci che continui così sino alla fi­ne». Soltanto il vice comandante si lamenta­va della nostra inattività e ogni tanto, a mensa, proponeva qualche azione dimostrativa. Era l’unico, tra noi, che credeva ancora al fasci­smo e all’utilità di quella guerra. Il capitano lo guardava ironico e rispondeva invariabil­mente: «lo non ho ordini e non posso pren­dere iniziative. Il nostro compito è di garan­tire le linee di comunicazione e rispondere se siamo attaccati».

Per sei o sette mesi le cose continuarono a andare così, molto tranquillamente. II mio servizio si riduceva a fare ogni tanto il giro delle postazioni di mitragliatrici per control­lare il rispetto dei turni e delle consegne. Il resto del tempo lo trascorrevo nella mia baracca cercando di preparare qualche esame universitario. Oltre, naturalmente, le grandi bevute e le partite a carte.

Mai sparato un colpo di fucile e i partigiani li vidi soltanto una volta, da lontano. C’era sta­to un attacco nella zona e ero stato inviato col mio plotone in un certo punto per taglia­re la strada al nemico quando avrebbe ripie­gato. Passammo alcune ore acquattati tra i cespugli, riparati dai muretti a secco che divi­devano i vari appezzamenti di terreno. Final­mente li vedemmo, i partigiani; tante piccole sagome scure che correvano velocissime sal­tando agilmente i muretti; ma erano troppo lontani per aprire il fuoco, e anche loro ci vi­dero ma proseguirono, decidendo di non in­gaggiare il combattimento. Se avessero in­vertito la corsa ci sarebbero saltati addosso annientandoci. 0 almeno così pensavo men­tre con la faccia schiacciata contro l’erba cer­cavo di capire ciò che provavo.

Paura, ovviamente, molta paura. Non ero però affatto sicuro di volerla superare. Nien­te, se fossi rimasto steso su quelle pietraie, avrebbe dato un senso all’assurdità di quella morte. Uscirne vivo, questa era l’unica pro­spettiva che avesse senso. Me lo sarei dovu­to ricordare quando, magari, mi sarei ram­maricato di aver mancato la prova virile del cosidetto battesimo del fuoco.

In autunno il comando del Corpo d’armata decise di sferrare l’ennesima offensiva anti­partigiana e a Zegar ci avvertirono che pre­sto sarebbe arrivato un reparto della milizia con l’ordine di passare all’attacco e bruciare con i lanciafiamme tutti i villaggi sospettati di connivenza con i partigiani. Non so come andò a finire perché prima che arrivassero, approfittando di certe disposizioni ministe­riali sui combattenti che si trovavano in de­terminate condizioni familiari, chiesi e ot­tenni il rimpatrio. L’anno successivo, al mo­mento dell’armistizio, i tedeschi disarmaro­no tutti i militari italiani an­cora in Jugo­slavia [15 divi­sioni, tranne qualche reparto che si unì ai partigiani] e li avviarono, un po’a piedi e un po’nei vagoni bestiame, verso i campi di concentramento polacchi.

Sono stato fortunato, mi è andata bene. Non rimpiango niente, non nutro alcun senso di colpa. C’è tuttavia qualcosa che ancora mi scotta e, a cinquant’anni di distanza, mi sto chiedendo come sia potuta accadere. Come è potuto accadere che un giovane di ventanni, non del tutto sprovveduto, abbia po­tuto trascorrere mesi e mesi in mezzo agli eccidi, alle fucilazioni, alle deportazioni, alla distruzione di intere comunità senza accor­gersi di niente. Certo, queste cose non avve­nivano sotto i miei occhi, si viveva in com­partimenti stagni, la censura era l’unico ser­vizio che nel nostro esercito funzionava. Ma è possibile che non abbia mai avuto la curiosità di procurarmi qualche libro, di dare almeno uno sguardo a una carta geografica per capire qualcosa della terra in cui mi tro­vavo e degli uomini contro i quali stavo combattendo?

«La seconda guerra mondiale ha una me­moria frantumata» ha notato Mario Isnen­ghi a proposito della memorialistica italiana sugli eventi del 1940-’43.Tante testimonian­ze sui sentimenti che hanno accompagnato l’entrata in guerra e, soprattutto, su come è stato vissuto il disastro dell’8 settembre: u­no straordinario riserbo, invece, una reticen­za diffusa nel racconto dei tre anni di guer­ra. [Unica eccezione la tragica ritirata del corpo di spedizione in Russia]. La mia testi­monianza fa parte di questa memoria fran­tumata. O, più esattamente, cancellata. Ed è anche significativa, mi sembra, la riluttanza degli storici a cercare di riempire il vuoto. È come se un’intera collettività fosse rimasta prigioniera di un passato cancellato mentre ancora stava accadendo; e quindi non me­tabolizzato, amputato dalla possibilità di di­ventare esperienza.

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Articolo tratto dal Settimanale “Il Manifesto 1995

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