Archivio mensile:ottobre 2016

I Lager tedeschi – Majdanek

Majdanek

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Costituzione: primavera 1941. Liberato dall’Armata Rossa tra il 22 e il 23 luglio 1944
Ubicazione: a 3 km ad est di Lublino

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Situato 3 km. a Est di Lublino (di fatto in un sobborgo della città, Majdan Tatarski, da cui il nome), il campo di Majdanek (Lublin-Majdanek) nacque nella primavera del 1941 come Lager per prigionieri di guerra sotto controllo delle Waffen-SS. Nel novembre dello stesso anno passò sotto il controllo dell’Ispettorato dei Campi (Inspekteur der KL), diventando poi Campo di concentramento a pieno titolo il 16 febbraio 1943. Svolse, analogamente ad Auschwitz, la duplice funzione di KL e di campo di sterminio immediato.

Al culmine dell’attività il Lager presentava una vasta area dal perimetro asimmetrico, contenente la Kommandantur, le caserme SS, il magazzino e altre strutture di servizio, per una superficie originariamente prevista di 270 ettari. Il cuore del campo, molto più ridotto (30 ettari), era però costituito da cinque campi interni, disposti in fila, circondati da doppio reticolato elettrificato, e comprendenti ciascuno 22 blocchi; all’estremità di questo settore erano il crematorio e la zona delle esecuzioni. Ogni campo ebbe una destinazione specifica (Revier, sovietici, donne e bambini, nazionalità miste) cambiata, in qualche caso, nel corso degli anni. Un sesto campo, anch’esso di 22 blocchi, non fu pienamente utilizzato. Anche la capienza prevista subì non poche variazioni, da 20.000 a 250.000 prigionieri.

Furono aperti, a partire dal febbraio 1942, 14 sottocampi, sia maschili che femminili, adibiti a produzioni industriali e belliche. È calcolata in 35-40.000 persone la presenza massima di prigionieri nel campo principale.

Ricerche finora parziali hanno individuato prigionieri di 54 nazionalità (tenendo distinte le nazioni federate nell’URSS e nella Jugoslavia); circa il 59% erano polacchi (per la maggior parte ebrei di Lublino e delle aree limitrofe), seguiti da sovietici (20%), cecoslovacchi (13%), tedeschi e austriaci (4%). Verso i prigionieri di guerra sovietici e gli ebrei furono adottate strategie di sterminio sistematico; ma il Lager funzionava anche da luogo di uccisione di prigionieri inabili selezionati in altri Lager (specialmente Buchenwald e Ravensbrück) e inviati a Majdanek.

In effetti il Lager per circa un anno (settembre-ottobre 1942- novembre 1943) si dotò di camere a gas (due in legno, provvisorie, e almeno tre in muratura) che funzionarono sia con monossido di carbonio in bombole, sia con Zyklon B (è documentato il consumo di oltre 7 tonnellate di quest’ultima sostanza). Lo sterminio degli ebrei toccò il culmine nel grande massacro del 3 novembre 1943, quando 45.000 prigionieri, in tutti i Lager dell’area di Lublino, furono massacrati (18.000 nel solo campo principale). Dopo questa data non risulta ulteriormente documentata l’attività delle camere a gas.

Nella primavera del 1944 iniziò l’evacuazione del Lager: i prigionieri furono avviati verso Auschwitz, Natzweiler e Ravensbrück. Il campo principale, dove restavano alcune centinaia di malati, fu liberato dall’Armata Rossa tra il 22 e il 23 luglio 1944; i sovietici raccolsero e divulgarono un’ampia documentazione sulle efferatezze commesse dai nazisti, tanto che per un osservatore italiano precoce e attento come Umberto Saba il nome di Majdanek (“Ma dopo Maidaneck…”) è, nei primi mesi del 1945, il simbolo stesso dello sterminio nazista (“Buchenwald, Auschwitz ecc. erano allora sconosciuti”: Scorciatoie e raccontini. Prime scorciatoie. Roma, febbraio 1945, 5).

Il numero delle vittime del KL Lublin-Majdanek è stato variamente calcolato, dato il carattere contemporaneo di struttura di sterminio immediato e di sterminio mediante il lavoro (direttamente o indirettamente). Oggi alle stime fatte in passato di circa 800.000 e più vittime si preferisce il calcolo, dichiarato per difetto, di 230.000 morti, di cui circa 100.000 ebrei. La stima di 800.000 vittime forse fu suggerita dal fatto che al momento della liberazione del campo si trovò al suo interno un enorme magazzino, contenente tra l’altro circa 800.000 paia di scarpe.

Comandanti del Lager sono stati Karl Otto Koch (lo stesso di Buchenwald, fucilato dagli stessi nazisti per corruzione), Hermann Florstedt, Martin Weiss (comandante anche a Neuengamme), Max Koegel e Arthur Liebenhenschel. Quest’ultimo fu condannato a morte da un tribunale polacco, mentre diverse guardie furono condannate a morte nel processo istruito dai sovietici a Lublino, nell’autunno del 1944, di fatto il primo processo per crimini di guerra, anteriore a quello di Norimberga.

Militari italiani, provenienti forse dai campi di internamento di Chelm, Biala Podlaska e Deblin,  furono deportati e uccisi a Majdanek nell’autunno del 1943, ma se ne ignora il numero e le circostanze non sono documentate (Marszalek p. 57).
Italo Tibaldi nel corso della sua ricerca aveva individuato un trasporto di 114 italiani arrivati a Majdanek il 4 novembre 1943, tutti provenienti da Dachau. Di questo trasporto indicò gli estremi nel Calendario della deportazione… (2003), assegnandogli il n. 260.
Oggi, grazie alle attente ricerche di Antonella Filippi e Lino Ferracin (si veda il loro documentatissimo volume Deportati italiani nel lager di Majdanek, Torino, Silvio Zamorani, 2013), il quadro della deportazione italiana a Majdanek appare praticamente definitivo, pur nella sua complessità. Majdanek infatti fu sempre Lager di secondo arrivo, per i 215 italiani la cui presenza è sicuramente documentata (ma il totale dei nominativi rintracciati finora è di 227). In genere si tratta di trasporti di malati e inabili per i quali Majdanek fungeva prevalentemente da campo di eliminazione; solo una lista, quella dell’arrivo da Dachau il 21 gennaio 1944, con 14 italiani, riporta le professioni (dunque si trattava di persone abili al lavoro).
La maggior parte dei 227 (variamente classificati, come AZR, Schutzhaft It. o BV; nessun ebreo), presumibilmente oltre 150 prigionieri, morì nel Lager lublinese. Per gli altri vi fu una drammatica sequenza di ulteriori spostamenti (prevalentemente ad Auschwitz) al termine dei quali solo 25 persone, sulle 227 indicate sopra, videro la liberazione.

L’area di Majdanek si presenta in uno stato di relativa buona conservazione a causa della decisione molto precoce (autunno 1944) di conservarla a documentazione e monito delle violenze nazifasciste.

(Lucio Monaco)

Bibliografia utilizzata

  • Jozef Marszalek, Majdanek. Konzentrationslager Lublin, Varszawa, Verlag Interpress, 1984.
  • Gudrun Schwarz, Die nationalsozialistischen Lager, Frankfurt a. M., Fischer, 1997.
  • E.Kogon-H.Langbein,A. Rückerl, Les chambres à gaz secret d’Etat, Paris, Ed. de Minuit, 2000 (ed.or. Frankfurt a. M., Fischer, 1983).
  • Das nationalsozialistische Lagersystem, Frankfurt a. M., Zweitausendeins, 2001.
  • Italo Tibaldi, Giorni della memoria. Calendario della deportazione politica e razziale italiana nei campi di eliminazione e sterminio nazisti (1943-1944-1945), Sansepolcro (AR), Stab. Arti Grafiche, ANED-Fondazione Memoria della Deportazione, 2005.
  • A. Filippi-L. Ferracin,  Deportati italiani nel lager di Majdanek, Torino, Silvio Zamorani, 2013

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· Tratto da

· ANED – Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti

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I Lager Tedeschi – Gross Rosen

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Gross Rosen

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Costituzione: 2 agosto 1940
Ubicazione: a circa 60 km da Breslavia

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Questo campo che prende nome dal vicino villaggio di Gross Rosen, Rogoznica in polacco, venne istituito originariamente come dipendenza del KZ Sachsenhausen e divenne campo principale ed autonomo il 1° maggio 1941. Il campo fu costruito da un primo contingente di 98 deportati polacchi, distaccati da Sachsenhausen e progettato originariamente per una capienza massima di 12.000 persone. Ma, attraverso successivi ingrandimenti, nel 1944 ospitava ben 35.000 persone.
La sua ubicazione fu scelta la DEST (Deutsche Erd und Steinwerke GmbH) che aveva in appalto lo sfruttamento di alcune cave di pietra che si trovavano nella zona e per le quali la società – che apparteneva interamente all’amministrazione delle SS – «noleggiava» a condizioni di favore la manodopera a portata di mano. L’impresa non risultò particolarmente vantaggiosa, ma ciò nonostante migliaia di belgi, bulgari, danesi, cechi, greci, francesi, polacchi, rumeni, ungheresi, italiani e russi vi condussero una vita di stenti, di fame, di epidemie. Si calcola che su circa 200.000 deportati che nel giro degli anni passarono per Gross Rosen i morti furono al meno 75.000.
Ad onta del suo nome poetico, Gross Rosen si è conquistata una solida fama di luogo infernale tra coloro che ebbero la disavventura di capitarci, perché sopravvivere in quel Lager non era cosa facile. Infatti il tasso di mortalità era talmente alto che il crematorio risultò insufficiente per «trattare» tempestivamente le spoglie delle vittime. Risulta dagli atti che la ditta Topf & Sohne di Erfurt, specializzata nella costruzione di crematori, fu sollecitata per l’installazione di un impianto di grande capacità, a quattro bocche.
Da Gross Rosen dipendevano circa un centinaio di sottocampi e comandi esterni di deportati messi a disposizione di imprese d’ogni genere, impegnate nella produzione di prodotti chimici e materiale bellico.
Gross Rosen fu liberato il 14 febbraio 1945 da reparti della 52.a armata sovietica del fronte ucraino.

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Tratto da

ANED – Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti

I Lager tedeschi – Fossoli

Fossoli

clip_image002Il campo, originariamente costruito su due aree contigue – su via Remesina (circa 6 ha) e via Grilli (circa 9 ha) – è stato attivo dal 1942 al 1970, con diverse fasi di utilizzo. Nel tempo le baracche sono state modificate, soprattutto all’interno e dopo il 1945 l’intera area su via Grilli è tornata ad usi agricoli.
Un lungo periodo di abbandono ha portato all’attuale condizione di degrado delle strutture, costruite in fretta, in un periodo di ristrettezze economiche e senza pretese di durata.

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Campo per prigionieri di guerra alleati PG/73
Ministero della Guerra – Regno d’Italia
Luglio 1942 – 8 settembre 1943
A Fossoli, nelle vicinanze di Carpi, in provincia di Modena, nel 1942 il ministero della Guerra del regno d’Italia insedia un campo di concentramento fascista, "Campo prigionieri di guerra n. 73", destinato a raccogliere soldati e sottufficiali alleati catturati nel nord Africa. Resta in funzione dal luglio 1942 all’8 settembre 1943. La mattina del 9 settembre è occupato militarmente dai tedeschi, che deportano i prigionieri in Germania.

Campo di concentramento ebrei
Campo della Repubblica sociale italiana
5 dicembre 1943 – 15 marzo 1944
Funziona inizialmente nel Campo vecchio, mentre si sistemano alcune baracche del Campo nuovo per le famiglie, il “Campo di concentramento ebrei”: la Rsi ha individuato qui uno dei luoghi dove concentrare gli israeliti, italiani e stranieri, ormai privi di diritti civili e politici. Ma i tedeschi danno inizio già in febbraio alle deportazioni di ebrei: il primo convoglio per Auschwitz è partito il 22 febbraio, e tra gli oltre 600 deportati c’era anche Primo Levi.

Polizeiliches Durchangslager / Campo di concentramento Fossoli
Bds Verona / Questura di Modena della Rsi
15 marzo 1944 – primi di agosto 1944
Il Campo nuovo passa sotto il controllo delle SS e diventa un Campo di polizia e di transito: vi sono internati ebrei e oppositori politici destinati alla deportazione in Germania.
Il Campo vecchio, formalmente controllato dagli italiani, è destinato per lo più a internati civili di nazionalità nemica, ma serve anche per oppositori politici, ostaggi, cittadini razziati per il lavoro “volontario” in Germania. Non è chiaro per quale motivo si possa finire nell’uno o nell’altro campo. La doppia gestione rende molto più complessa la ricostruzione dei fatti e l’indagine sui deportati da Fossoli, perché le informazioni sul campo italiano sono lacunose, per non dire assenti.
Per l’avvicinamento del fronte (Roma è liberata il 4 giugno, Firenze lo sarà il 2 settembre) e il rafforzamento della presenza dei partigiani nella zona, il 15 luglio 1944 il Campo vecchio viene ufficialmente chiuso e viene deciso il trasferimento del Dulag dal Campo nuovo a Gries, presso Bolzano, strutture di comando, sorveglianza, dotazioni, materiali e internati compresi: d’ora in poi sarà questo il capolinea principale di partenza per la deportazione politica e razziale in Germania.
È stata accertata la partenza di almeno sei convogli di ebrei e di uno, molto numeroso, di deportati politici, il 21 giugno 1944., dal Campo nuovo: molti furono destinati a Mauthausen o ai suoi sottocampi.
Nel circa sette mesi di attività sono passati da Fossoli circa 2.800 ebrei, quasi tutti destinati ad Auschwitz o, in misura minore, Bergen Belsen, e un numero quasi equivalente di deportati politici, al quale vanno, però aggiunti tutti coloro che sono stati deportati dal Campo vecchio, di cui a tutt’oggi non sono noti registri né elenchi.
La vita a Fossoli è ricordata dai superstiti, forse per il paragone con quella successiva dei lager della Germania, come abbastanza sopportabile, nonostante la fame, la promiscuità, i parassiti e l’incertezza della sorte futura; ma funestata dalla strage di settanta internati politici – poi ridottisi avventurosamente a sessantasette – il 12 luglio 1944 al poligono di tiro di Cibeno, preceduta dall’assassinio di Leopoldo Gasparotto, luminoso esponente del Partito d’Azione il 24 giugno, e da quello di un internato ebreo nel maggio.

Centro di raccolta per mano d’opera per la Germania
General Bevollmachtige fur den Arbeitensatz
Agosto 1944 – fine novembre 1944
Mentre il Campo Vecchio viene a poco a poco smobilitato, il Campo Nuovo diventa Centro di raccolta per la mano d’opera razziata in Italia e destinata al lavoro in Germania. Le testimonianze documentano il passaggio di un grande numero di deportati, uomini e donne, fino a 800 o mille in alcuni giorni. Tra loro anche molti politici, allontanati sbrigativamente dalla zona del fronte, nei mesi di agosto e settembre. A fine novembre 1944 anche questo centro viene spostato a nord, dopo un violento bombardamento.

Centro di raccolta profughi stranieri
Questura di Modena
Settembre 1945 – luglio 1947
Nel settembre del 1945 il Campo Nuovo diventa Centro di raccolta per fascisti in attesa di epurazione, presto trasformato in Centro di raccolta per profughi stranieri: persone entrate in Italia irregolarmente, prive di documenti di identità e di mezzi, mentre procede lo smantellamento del Campo Vecchio, anche per riutilizzarne i materiali nella ricostruzione.
Vi figurano anche ebrei sopravvissuti alla shoa, per lo più giovanissimi, in attesa di un passaggio per Israele o gli USA. Il Campo profughi viene chiuso, dopo aver suscitato mille polemiche, nel luglio 1947.

Nomadelfia
Don Zeno Saltini – Opera Piccoli Apostoli
Maggio 1947 – agosto 1952
La struttura è occupata dall’Opera Piccoli Apostoli, fondata da un sacerdote originario di Fossoli, don Zeno Saltini, per dare famiglia a bambini abbandonati e orfani di guerra. Sono abbattuti muri e fili spinati, le baracche vengono modificate in case di abitazione, scuole, laboratori, bar, e si piantano alberi, orti, giardini: il Campo diventa Nomadelfia, la città dove la fraternità è legge. Problemi economici e difficoltà di vario tipo portano nel 1952 alla chiusura di Nomadelfia: i bambini accolti devono lasciare le nuove famiglie e la comunità si sposta nel Grossetano, dove esiste tuttora.

Villaggio San Marco
Opera per l’assistenza ai Profughi Giuliano-Dalmati
Luglio 1954 – marzo 1970
L’ultima fase di occupazione del Campo Nuovo (1954-1970) è quella dei profughi giuliano-dalmati: poco più di un centinaio di famiglie di lingua e cultura italiana che hanno abbandonato le loro terre assegnate alla Jugoslavia in seguito ai trattati di pace dopo la seconda guerra mondiale. Il sito viene di nuovo ristrutturato e rimaneggiato. Nel 1970, cambiati tempi e le esigenze di vita, i profughi dal campo si trasferiscono in città.
Il visitatore di oggi vede quanto resta di quest’ultima fase di occupazione, dopo oltre trent’anni di degrado.

A Carpi, nel Castello dei Pio, per ricordare la memoria di tutti i deportati, è stato allestito nel 1973 il "Museo monumento al deportato politico e razziale nei campi di sterminio nazisti", su progetto di Lodovico Barbiano di Belgiojoso, che fu internato a Fossoli dall’aprile al luglio 1944.

(anna maria ori)

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Tratto da

ANED – Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti

Langston Hughes – Eroica Brigata Internazionale

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Langston Hughes
(Usa)
Eroica Brigata Internazionale

Il sangue,
o una bandiera,
o una fiamma,
o la vita stessa
sono forse tutt’uno
come il nostro sogno?
Sono accorso. Dietro di me un oceano
E mezzo continente.
Frontiere,
e montagne alte all’orizzonte,
e governi che mi dicevano NO,
NON PUOI ANDARE!
Sono accorso.
Sulle frontiere splendenti di domani
ho deposto la forza e la saggezza
dei miei anni.
Non molta,
giovane come sono.
(Ero giovane,
è forse meglio dire,
ché adesso sono morto.)
*
Ma fossi vissuto cent’anni
la vita non avrebbe potuto
avere termine migliore.
Ho dato ciò che desideravo
E quanto avevo da dare
perché altri vivessero.
*
E quando le pallottole
m’hanno spezzato il cuore,
e il sangue m’è salito a fiotti in gola
mi chiesi s’era sangue
che a fiotti arrivava.
O era una fiamma rossa?
Oppure soltanto la mia morte
che si mutava in vita?
Sono tutt’uno:
il nostro sogno,
la mia morte,
la tua vita,
il nostro sangue,
un’unica fiamma.
Sono tutt’uno!

Genvieve Taggard – Ai veterani della Brigata Abramo Lincoln

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Genevieve Taggard
(USA)
Ai veterani della Brigata Abramo Lincoln

Dite pure di loro
che non conoscevano lo spagnolo
i primi giorni, e nulla dell’arte della guerra
i primi giorni
come sparare, come attaccare, come ritirarsi,
come uccidere, come andare incontro alla morte
i primi giorni.
Dite pure che conservarono l’aria azzurra
brontolando e lamentandosi,
secche parole e volti aspri. Dite pure
ch’erano giovani;
gli sparuti nella trincea, i morti sul pendio d’olivi
tutti giovani. E i magri, i malati e gli sbranati,
ciechi, negli ospedali, tutti giovani.
Dite pure di loro ch’erano giovani, molte cose non le
[conoscevano,
erano uomini come gli altri. Dite tutto; è vero. Dite
[pure ora
che quando il personaggio eminente, l’importante, il
[benestante, il vecchio,
erano occupati a disputare e a vendere,
tradire, tacere nell’omertà, spaccare il capello in quattro,
scrivere brutti articoli, firmare su cattivi giornali,
mandare conti falsi,
corrompere, ricattare,
piagnucolare, opprimere, strangolare, — essi
seppero e agirono
compresero e morirono.

0, se non morirono, tornarono e trovarono una pace
Che non è non è pace. Dite pure di loro
che non sono piú giovani, non hanno più appreso
le furbizie, gli espedienti della pace, di questa pace, i
[trucchi della paura;
e dite pure che ciò che sapevano, tuttora sanno.
E ciò che osarono, osano tuttora.

Erich Weinert–Gioco di bimbi a Madrid

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Erich Weinert
(Germania)
Gioco di bimbi a Madrid

Siede su una pietra Maria.
Sei sola, Maria? E perché
non vieni da me nel giardino!
E la porta dov’è?
Ah, cercala te!
*
I bimbi ballano e cantano in cerchio
felici del loro allegro stridio.

Maria, discosta, siede sulla pietra,
ha una sola gamba: non può unirsi a ballare,

e se il suo piede batte a tempo la danza,
a tempo le trema il moncone.

Discreto e leggero, a tentoni, nel cerchio
va il piccolo Pedro. Passa da uno all’altro,

tende le mani, gli occhi aperti sulle facce
(Pedro li ha persi), cerca di riconoscerle.

Siede su una pietra Maria.
Sei sola, Maria? E perché
non vieni da me nel giardino!
E la porta dov’è?
Ah, cercala te !

Ma appena rompe l’imbrunire
sulla città ulula di nuovo il cannone.

Vasti per lo spavento sono gli occhi dei bambini
Si sciolgono le manine sudate

La gamba trema a Maria e anche Pedro
Il ragazzo cieco diviene pallido e piccino

Ma quando l’ultimo rombo si dilegua
Si riaffolla la strada di bambini

E dove la morte ha sferrato i suoi colpi
Ricanta la vita, insopprimibile

Siede su una pietra Maria
Sei sola Maria? E perché
Non vieni da me nel giardino !
E la porta dove?
Ah cercala te

I campi di concentramento nazisti — Testimonianze Orali

I campi di concentramento nazisti — Testimonianze Orali
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Ruth Webber
Data di nascita: 1935, Ostrowiec, Polonia
Ruth descrive una brutale punizione nel campo di Ostrowiec [Intervista: 1992]
— US Holocaust Memorial Museum – Collections
Testo
Ho visto molta gente morta attorno a me, ovunque, e credo che quando vedi così tanti morti alla fine non ti fa più così tanta impressione. Una volta, mentre ero nel lager di Ostrowiec, mi trovavo nel… insomma, nella latrina, che era all’angolo di una grande area nel centro del campo. Era circondata dalle baracche, che erano sui due lati e la latrina era a uno degli angoli. E io ero lì dentro e… ecco… improvvisamente sento una gran confusione e tutti vengono spinti nelle loro baracche, perché era lì che dovevano andare e io rimasi bloccata nella latrina. Allora, salii sul water e guardai fuori attraverso la finestrella in cima alla porta; ciò che era accaduto era che alcune persone avevano cercato di scappare ed erano state prese. Credo che fossero ferite e si sentivano anche degli spari. Presero circa, credo, quattro persone per scavare delle fosse proprio al di là del filo spinato che chiudeva il campo. Poi portarono quelle persone, che avevano cercato di scappare, e a cui avevano già sparato, ma che non erano ancora morte, e obbligarono gli altri Ebrei a seppellirli, anche se non erano ancora davvero morte. Loro pregavano di non venire sepolti, che erano ancora vivi e che dovevano fare qualcosa per ucciderli, prima. Ma non fecero nulla, li seppellirono vivi. E loro dovettero farlo, altrimenti quei poveretti che erano stati scelti per seppellirli… altrimenti sarebbero finiti ammazzati anche loro. Quella fu un’esperienza molto traumatica per me. Sento ancora le loro grida.
Ruth aveva quattro anni quando i Tedeschi invasero la Polonia e occuparono Ostroviec. La sua famiglia fu obbligata a trasferirsi nel ghetto e i Tedeschi sequestrarono lo studio fotografico del padre, anche se gli venne permesso di continuare a lavorare al di fuori del quartiere. Prima che il ghetto venisse liquidato, i genitori di Ruth riuscirono a trovare un nascondiglio per sua sorella e un impiego per loro in un campo di lavoro fuori dal ghetto. Anche Ruth venne poi nascosta, alternativamente all’interno del campo o nei boschi che lo circondavano. Quando anche quel campo di lavoro venne liquidato, i genitori di Ruth vennero separati. Ruth venne mandata in diversi campi di concentramento prima di venire definitivamente deportata ad Auschwitz. Dopo la guerra, Ruth visse in un orfanotrofio di Cracovia fino a quando poté riunirsi a sua madre.

I campi di concentramento nazisti — Testimonianze Orali

    I campi di concentramento nazisti — Testimonianze Orali

    Doris Greenberg
    Data di nascita: 1930, Varsavia, Polonia
    Doris descrive la procedura cui venne sottoposta all’arrivo a Ravensbrueck [Intervista: 1990]
    Chapters
  • Chapters
    — US Holocaust Memorial Museum – Collections
    Testo
    Quando ci portarono nei bagni, eravamo sicuri che saremmo morti. Ne eravamo convinti.Così pensammo che avevamo avuto l’occasione di prendere il veleno, mache ormai non ce n’era più, e ci dicemmo che probabilmente non ci sarebbe voluto molto a morire, con il gas. Beh, fummo veramente sorpresi quando l’acqua cominciò a uscire dai tubi e noi…noistavamo davvero sotto la doccia. C’era persino questo sapone grigiastro che sembrava pietra pomice, ma era meno duro; e niente gas. Allora noi facemmola doccia e poi uscimmo dall’altra porta dell’edificio e lì ci diedero delle uniformi a righe; e allora capii perchéavevamo pensato di prendere il veleno prima di entrare là dentro: perché ogni gruppoche era entrato prima di noi, una volta usciti ci sembrava fossero scomparsi perché, in effetti, non li riconoscevamo più. Erano stati rasati e obbligati a indossare quegli abiti a righe. Così, anche a noivennero dati questi vestiti…e ci davano delle misure che non avevano senso: alcuni…alcuni grandi e grossi ricevevano uniformi minuscole. Altri, piccolini, ce l’avevanogrande. Ma almeno eravamo vivi. Poi, ognuno ebbe il suo numero e untriangolo e venne assegnato a una baracca. Quando entrammo nella nostra vedemmo sulle pareti delle scritte in ebraico, nomi, messaggi… Moltierano in Yiddish, che io non conoscevo, ma Pepi sì e lei midisse che erano nomi. Allora li lesse ad alta voce e così capii….Io non sapevo leggere né scrivere [l’Yiddish] e lei mi disse che c’eranomessaggi molto molto commoventi, spezzavano il cuore, con i nomi delle persone; per esempio, uno diceva "siamo stati qui, siamo stati gli ultimi, prima di voi. Dite agli altri diricordarsi di noi". Era molto triste .
    I Tedeschi invasero la Polonia nel 1939 e istituirono il ghetto a Varsavia nel 1940. Dopo che i suoi genitori furono deportati, Doris si nascose con sua sorella e altri parenti. La sorella di Doris e uno zio vennero poi uccisi e poco dopo lei apprese che anche i suoi genitori erano stati trucidati; più tardi, sua nonna si suicidò. Doris venne fatta uscire di nascosto dal ghetto e visse poi lavorando come cameriera e cuoca, fingendo di non essere Ebrea, ma venne alla fine deportata anche lei, nel campo di concentramento di Ravensbrueck. Al loro arrivo nel campo, Doris e il suo amico Pepi pensarono di uccidersi ingoiando del veleno, ma poi decisero di non farlo.
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    Lager tedeschi – Flossenbürg

    Flossenbürg

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    Costituzione: 16 maggio 1938
    Ubicazione: a nord-est di Norimberga

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    Lager “di frontiera”, situato nel nord-est della Baviera vicino al confine con la regione dei Sudeti (all’epoca territorio cecoslovacco), il KL Flossenbürg fu aperto il 3 maggio 1938 da prigionieri provenienti da Dachau. Le categorie destinate al campo furono inizialmente quelle degli “asociali” e dei “criminali” (triangoli neri e verdi); come a Mauthausen, fu la DEST (fondata nell’aprile 1938) a far lavorare i prigionieri nelle cave di pietra circostanti. Ai primi quattrocento prigionieri di Dachau si aggiunsero, in novembre, altri 1.300 internati provenienti in gran parte da Buchenwald e Sachsenhausen.

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    La possibilità di sfruttamento intensivo e fortemente redditizio della manodopera schiavile fece salire, nel giro di un anno, il numero dei prigionieri a 3.000 (contro una capienza iniziale progettata di 1.600 persone).
    Con l’inizio e l’evoluzione della guerra, e l’aumento della popolazione del Lager, il lavoro e l’assetto del campo subirono consistenti modifiche. I primi deportati non tedeschi furono “politici” cecoslovacchi e polacchi, giunti a partire dalla primavera 1940; alla fine dello stesso anno giunsero anche i prigionieri di guerra sovietici, confinati in tre blocchi (11-13) isolati all’interno stesso del Lager. A partire dal 1942 vennero aperti sottocampi destinati alla produzione di armi e macchine belliche (tra le altre, spicca la produzione degli aerei Messerschmitt 109). Distribuiti tra Baviera, Sassonia e Boemia, arrivarono al numero di 97: cinque di essi furono ceduti dall’amministrazione del Lager di Ravensbrück a quella di Flossenbürg nel settembre 1944. Circa la metà (45) erano sfruttati per la produzione industriale; in un quarto di essi (22) si svolgevano attività legate all’edilizia e alle costruzioni. Tra i sottocampi più grandi vanno ricordati quelli di Hersbrück (oltre 4800 internati) e Leitmeritz (Litomerice; oltre 5.000 internati). In quello di Mülsen-Sankt Micheln, si ebbe anche una rivolta dei prigionieri, soffocata nel sangue (maggio 1944).

    Luogo di “sterminio attraverso il lavoro”, Flossenbürg conobbe anche esecuzioni di massa mirate, soprattutto di prigionieri di guerra sovietici. A russi, polacchi e cecoslovacchi fu riservato un apposito settore nel Lager principale, con una capienza (nel 1944) di circa 8.000 prigionieri.
    A Flossenbürg furono eseguite anche condanne a morte legate all’attentato contro Hitler, tra qui quella del teologo e filosofo Dietrich Bonhoeffer.
    Campo maschile fino al gennaio 1943, Flossenbürg vide poi affluire un numero crescente di donne deportate, sempre distribuite nei Lager dipendenti (un settore femminile nel Lager principale fu aperto solo nel marzo 1945).  
    Al termine di questo periodo (fine 1944) il sistema di Lager coordinato dal KL Flossenbürg racchiudeva circa 40.000 prigionieri, di cui 11.000 donne. Nel 1945 affluirono deportati evacuati dai Lager dell’Est (Auschwitz) e da altri che venivano progressivamente sfollati (Gross Rosen, Buchenwald). A metà aprile i prigionieri risultavano 45.813 (di cui 16.000 donne); nella prospettiva di un’avanzata della 90a Divisione di Fanteria USA,  il Lager principale fu evacuato e i 14.800 prigionieri in grado di camminare furono avviati a Sud (negli stessi giorni era in atto l’evacuazione, con altrettante “marce della morte”, dei vari sottocampi). La marcia durò tre giorni, fino a quando la colonna fu intercettata dalle truppe alleate; morì circa un terzo dei prigionieri, a cui si devono aggiungere i 1.500 morti nell’evacuazione complessiva dei sottocampi. Il Lager principale fu liberato il 23 aprile; vi si trovavano ancora 1.500 prigionieri, malati o impossibilitati a muoversi.

    Secondo le fonti più recenti risultano registrati nell’insieme del Lager principale e dei sottocampi 96716 internati, di cui circa 16000 donne. I morti individuati sono circa 30000. Si tratta, come spesso avviene in questo tipo di ricerche, di cifre non sicure e approssimate per difetto. Oltre ai casi di mancata registrazione, risulta infatti che a Flossenbürg i numeri di matricola di prigionieri deceduti venivano riassegnati, almeno fino al marzo 1944.

    Quanto alle nazionalità dei prigionieri, polacchi e sovietici assommavano al 60% del totale, seguiti da ungheresi (9%), francesi (7%) e tedeschi (5%) . Gli ebrei passati per Flossenbürg sono stati circa 10.000.

    I deportati italiani a Flossenbürg

    Se i primi italiani arrivarono da altri Lager già nel 1943, nell’ordine di alcune centinaia, poco più di 2.600 italiani furono deportati dall’Italia a Flossenbürg tra il settembre 1944 e il gennaio 1945, con tre trasporti partiti da Bolzano (settembre e dicembre 1944, gennaio 1945) e due da Trieste (dicembre 1944 e gennaio 1945).
    Tra i 3.020 nominativi di italiani individuati risultano 342 donne. Anche fra queste alcune provenivano da altri Lager; in particolare un certo numero di “politiche” (per la precisione operaie arrestate dopo gli scioperi del marzo 1944), in un primo tempo inviate a Birkenau e di qui trasferite a Flossenbürg. Rimane da studiare con precisione la percentuale dei decessi. Un terzo degli italiani (1.077) è sicuramente morto in Lager; ma solo di 180 deportati è attualmente documentata la liberazione.

    Il Lager dopo il 1945

    Le strutture del Lager furono utilizzate in un primo tempo per la detenzione di prigionieri tedeschi (per la maggior parte SS) sotto custodia alleata (luglio 1945-aprile 1946). Successivamente e fino al 1947 le strutture vennero occupate dall’UNRRA, organizzazione ONU che si occupava di profughi e di famiglie disperse (“Displaced Persons”). Vi erano, tra i rifugiati, anche ex prigionieri, che organizzarono una parte dell’area a ricordo dello sterminio: la zona interessata è quella della cosiddetta “Valle della morte”, incentrata sul crematorio (conservato e aperto ai visitatori fin dal 1946), all’ingresso della quale fu edificata una cappella cattolica con le pietre delle torri di guardia. La zona circostante e a monte del piazzale dell’appello è stata sottoposta,negli anni successivi, a una completa ristrutturazione edilizia (edifici residenziali), dietro la quale si scorge con difficoltà la disposizione originaria del campo. Nel 1966 fu aperto un museo nel blocco dell’ex prigione; nel 1995 è stato inaugurato un luogo di culto ebraico a fianco della cappella.

    Indicazioni bibliografiche

    I dati e le statistiche sono stati ricavati, tra l’altro, da:
    Das nationalsozialistische Lagersystem, Frankfurt a.M., Zweitausendeins, 1990 (riediz. a c. di M. Weinmann et al. del Catalogue of Camps and Prisons in Germany and German-occupied Territories, Arolsen 1949)
    Gudrun Schwarz, Die nationalsozialistischen Lager, Frankfurt a.M., Fischer, 1990
    Valeria Morelli, I deportati italiani nei campi di sterminio, Milano, 1965
    I.Tibaldi, Compagni di viaggio. Dall’Italia ai Lager nazisti. I "trasporti" dei deportati 1943-1945, Milano, Franco Angeli,  1994
    I.Tibaldi,
    Calendario della deportazione politica e razziale, Aned Piemonte-Consiglio Regionale del Piemonte, Arezzo, 2003
    Dario Venegoni,
    Uomini, donne e bambini nel Lager di Bolzano. Una tragedia italiana in 7982 storie individuali, Milano, Mimesis, 2005, online su questo sito
    (altre informazioni sono state fornite da Italo Tibaldi che qui ringrazio).

    Ulteriori informazioni di carattere storico e documentario si possono rintracciare nel Dizionario della Resistenza, a c. di E. Collotti, R. Sandri e F. Sessi, Torino, Einaudi, 2001, vol. II, pp. 458-9 (scheda di C. Saletti).
    Molto utile la consultazione (in tedesco) del sito
    http://www.gedenkstaette-flossenbuerg.de/

    Memorialistica italiana

    Flossenbürg è stato raccontato assai presto, nell’ormai introvabile Il triangolo rosso del deportato politico n. 6017 di P. Da Prati (Milano, Gastaldi, 1946), in cui trovano ampia descrizione molti altri Lager e  sottocampi, da Bolzano a Saal-Donau, Mauthausen, Linz e Dachau.
    Altro resoconto di particolare interesse ed efficacia è quello di un religioso, padre Giannantonio Agosti ofm,
    Nei lager vinse la bontà, Milano, Artemide, 1960 e 1987 (online su questo sito), ricco di ritratti di compagni di deportazione tra cui quello di Teresio Olivelli.
    Ricco di umanità e caratterizzato da uno sviluppo non semplicemente cronachistico, nonostante il titolo, è il racconto di S. Rusich De Moscati, Il mio diario: a venti anni nei campi di sterminio nazisti. Flossenbürg 40301, Fiesole, ECP, 1992. Avvenimenti e compagni sono rievocati a quarant’anni di distanza da una memoria in cui prevalgono gli elementi riflessivi rispetto alla descrizione degli eventi compresi fra l’arrivo al Lager e la liberazione.
    E’ inserito in una storia autobiografica più ampia, che spazia dal 1929 al 1976 e comprende anche una condanna da parte del Tribunale Speciale e un anno di detenzione a Gaeta e Peschiera, il racconto di deportazione a Dachau e Flossenbürg di G. Ponzuoli, "E il ricordo continua…": memorie di un ex deportato nei campi di sterminio nazisti, Genova, Tip. Graphotecnica, 1987.
    Si vedano anche le prospettive di giovanissimi (17-18 anni) deportati in A. Scollo, I campi della demenza, Milano, Vangelista, 1975, e nelle memorie di F. Varini, Un numero un uomo, Milano, Vangelista, 1982. 
    Un resoconto attento e minuzioso è quello di G. Cantaluppi, Flossenbürg. Ricordi di un generale deportato, Milano, Mursia, 1995, uscito nello stesso anno in cui sono state pubblicate le memorie di un suo compagno di trasporto, Gianfranco Mariconti, Memorie di vita e di inferno. Percorso autobiografico dalla spensieratezza alla responsabilità, a c. di E. Ongaro,  Sesto S. Giovanni, Il Papiro, 1995.
    Su questo stesso sito è reperibile il drammatico resoconto di un superstite, pubblicato postumo a cura dei figli: Italo Geloni,
    Ho fatto solo il mio dovere, Pisa, 2001.

    (lucio monaco)

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    Tratto da

    ANED – Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti

    Testimonianze di superstiti

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    Testimonianze di superstiti 

    II

    Testimonianza raccolta dal prof. Carlo Schiffrer di Trieste dall’interrogatorio di un amico superstite:

    «Egli vide un milite delle SS di statura gigantesca che stava conducendo per mano nel secondo cortile davanti alle prigioni, un bamberottolino bruno e ricciuto (certo un ebreo) che zampettava appena. Il bambino incespicò e cadde in avanti: il milite lanciando una bestemmia lo colpi al capo col tacco del suo scarpone. La testa scoppiò letteralmente. Ad anni di distanza quell’amico non riusciva a liberarsi dall’incubo del tonfo provocato dalla povera testolina…».

    (Carlo Schiffrer, "La Risiera". Trieste, 1961).

    Inizio

    ALBINA SKABAR di Rupingrande (Trieste)

    Dopo essere stata denudata, appesa per le trecce a una trave e bastonata fino a svenire, venne cacciata nella cella numero 7. «Di notte, ricorda, sentivo urla terribili, specialmente di quelli che si trovavano nelle prime celle e venivano portati fuori. Ricordo la voce disperata di una donna: diceva di es sere di Gabrovizza e urlava che le SS le avevano ucciso il figlio nella culla. C’era anche una certa Olga Fabian, di un paese del Carso che ora appartiene alla Jugoslavia. C’era una signora di 67 anni, che abitava a Trieste in via Milano: urlava continuamente di essere innocente. L’odore di capelli bruciati era terribile. Ogni tre giorni aprivano le celle e lasciavano che ci lavassimo il viso con un po’ d’acqua in un catino. Quell’acqua del catino doveva servire per tutte. Dopo la guerra sono tornata una volta in Risiera, e sono svenuta».

    (Testimonianza raccolta da A. Bubnic e Ricciotti Lazzero).

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    GIORDANO BASILE di Rovigno d’lstria

    «Subimmo ogni sorta di sevizie e maltrattamenti. Non potrei dire a quanti interrogatori fui sottoposto. Come conseguenze ebbi una frattura all’occhio destro e alla spalla destra e subii pure una infiltrazione polmonare, oltre alla depressione generale di tutto l’organismo, depressione dalla quale non ho potuto riprendermi ».

    (Testimonianza raccolta da Giovanni Postogna)

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    DARA VIRAG di Fiume

    «Dietro il garage c’era un passaggio un po’ stretto. Ho fatto alcuni passi in quel vicolo che girava intorno al locale del forno e una delle guardie. il vecchio Fritz, mi ha urlato: "Non lo faccia mai più, non lo faccia mai più!". Era il maggio del 1944. Sulla base di cemento del camino spuntava un filo d’erba. Pensai che forse era il segno di quelle povere anime dissolte. In marzo si sentivano grida anche di giorno (gridavano anche le SS). Erano urla di dolore, tutti capiscono quando qualcuno urla per il dolore. Ma confesso che non riuscivamo a comprendere chiaramente queste atrocità: dovevamo pensare a vivere e avevamo sempre paura. Dopo un anno così, anche un chiodo che cada sul pavimento scatena un brivido. Se sento il rumore d’uno scarpone sul selciato, adesso, ancora, dico spaventata: "Vengono"».

    (Testimonianza raccolta da A. Bubnic e Bicciotti Lazzero).

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    BRUNO PIAZZA di Trieste

    «Dovetti sdraiarmi sul tavolato […] ma ero stato fortunato, mi spiegò la sentinella, perché tutti quelli che finivano là dentro venivano prima bastonati […]. Incominciarono a parlare le voci della notte. Dal bunker accanto al mio udii un uomo che mi chiamava piano: "Sono sepolto vivo da 40 giorni, non posso respirare, ho sete. Dammi una sigaretta. Forse stanotte sarò fucilato. Fammi fumare l’ultima sigaretta […]". E subito dopo dall’altra parte una voce di donna: "Ne ammazzano ogni notte qualcuno. Li portano nel cortile e poi li ammazzano con un colpo alla nuca. Dopo ogni sparo i cani urlano […]. Siamo tutti partigiani".

    (Dal libro "Perché gli altri dimenticano" di Bruno Piazza – Ed. Feltrinelli, Milano, 1956).

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    ANTONIETTA CARRETTA nata a Lignano, abitante a Genova

    «Mi misero in un grande camerone, composto di piccole celle. In una di queste rimasi oltre un mese senza lavarmi, pettinarmi ed altre cose assolutamente necessarie in modo particolare per una donna. Non solo d’igiene non si poteva parlare, ma neanche della più elementare forma di pulizia. Il mangiare ce lo portavano dal Coroneo. Nelle celle queste distribuzioni venivano fatte dai mongoli. Le condizioni psichiche e morali erano tremende. Ero in un continuo stato di terrore di essere ammazzata da un momento all’altro. Dopo circa dieci giorni portarono vicino alla mia cella una signora ebrea di nome Olga che abitava a Servola. La notte stessa l’hanno ammazzata. Quando vennero a prenderla, la poveretta piangeva e supplicava; le SS rispondevano con la massima brutalità. Così accadeva tutte le notti. Le celle di giorno si riempivano e di notte si svuotavano. Prima di essere bruciati li ammazzavano con un colpo d’arma da fuoco, perché sentivo gli spari, oppure con un colpo di mazza. I forni crematori erano lì vicino, a pochi metri di distanza dalle nostre celle… Per non far sentire i colpi d’arma da fuoco, mettevano in moto dei motori di camion, o facevano suonare musiche allegre».

    (Testimonianza raccolta da Giovanni Postogna)

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    ANTE PELOZA di Vele Mune (Istria)

    «lo ero nella cella n. 8, solo, nel buio. Mi mancava l’aria. Solo nel soffitto c’era un piccolo foro per l’aria e la luce. Ci passavano il cibo attraverso la finestrella della porta, che altrimenti restava sempre chiusa. Nella cella c’erano molti ratti. Di pomeriggio e di sera sentivo quasi in continuazione le urla della gente e delle grida in croato, sloveno e italiano. Per il cortile andava su e giù un carro armato oppure un’auto blindata e faceva un grande rumore sì da coprire le grida alla libertà e le urla sconvolgenti. Allora sapevamo che i nostri compagni venivano trascinati in crematorio. Quando faceva scirocco e non c’era vento il fumo fetido entrava anche nelle celle. C’era un tale tanfo di carne umana bruciata che quasi non si poteva respirare e sconvolgeva lo stomaco».

    (Testimonianza raccolta da A. Bubnic)

    Inizio

    CARLO SKRINJAR di Trieste

    «Le urla delle donne e degli uomini duravano anche tre o quattro ore. Finiva un urlo e poco dopo ne cominciava un altro. Molte notti andarono avanti così. Vicino a me, in cella, c’era un giovane di diciott’anni dai capelli ricciuti. Non ricordo il suo nome. Per lo spavento imbiancò in tre giorni. Dalla mattina alla sera tardi si sentivano aprire e chiudere i cancelli. Chi guardava da qualche spioncino avvertiva: "E’ arrivato un autocarro…". Verso le otto di sera c’era un periodo di silenzio, poi cominciavano le urla. Noi eravamo convinti che stessero trascinando i condannati dal cortile verso la zona del forno. Si sentiva la guardia che veniva a tirar fuori la gente dalle celle, e la gente che urlava finché la voce spariva nel nulla. Il giovane dai capelli ricci tremava e balbettava: "Adesso tocca a noi". Eravamo terrorizzati. Sento ancora quelle grida rauche ».

    (Testimonianza raccolta da A. Bubnic e Ricciotti Lazzero).

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    LUIGI JERMAN nato a Capodistria, abitante a Trieste

    «Essendo impiegato presso la raffineria di S. Sabba, ebbi più volte occasione di passare per ragioni di lavoro lungo il pontile, dove i soldati tedeschi portavano i sacchi delle ceneri dei cadaveri che venivano bruciati nei forni crematori della Risiera. Ho potuto vedere nel fondo del mare molte ossa umane, resti cioè di cadaveri che non poterono essere completamente bruciati».

    (Testimonianza raccolta da Giovanni Postogna)