Via Tasso 145

Via Tasso 145

Via Tasso è oscura, ha un aspetto poco allegro, il suo sfondo è sbarrato dalle alte rovine di un acquedotto i cui archi sono acce­cati da una casa. Il fabbricato più moderno e di colorazione più
viva degli altri íè quello contrassegnato con il n.145; ma anche quello, con le fine­stre murate non ha nulla di allettante. A quel tempo poi, metà della strada era sbarrata da due file di cavalli di frisia scortati da uomini armati e, nella parte chiusa, vi erano sparse
casse vuote e rottami che completavano il senso di desola­zione che tutto l’assieme, compresala fantasia eccitata di quei mesi, dava a quel luogo.
Il n.145 è un fabbricato a cinque piani, una di quelle case moderne per abitazioni piccolo borghesi come Romane è piena. Le sue finestre sono tutt’oggi in gran parte murate come le ridussero i tedeschi per farvi la famosa prigione.
L’interno era diviso in due ali, da una parte stavano gli «uffici», dall’altra le prigioni. Dagli uffici alle prigioni si ac­cedeva per un lungo corridoio in fondo al quale era una porta stretta e di là si sbucava su un ripiano delle scale che prima davano accesso agli appartamenti dei cinque piani. Quando, dopo le formalità di amministrazione, chiamia­mola così, attraverso quel corridoio qualcuno veniva in­trodotto nell’aula della prigione, si trovava davanti ad un militare che, manovrando alcuni telefoni, dava qual­che ordine e poi faceva se­gno di salire. Si saliva da so­li, s’imboccavano quelle rampe con le ringhiere di marmi lucidi e colorati dalla sagoma «novecento», co­me se si andasse a trovare un amico che ha sposato da poco e che ha preso un appartamento in una casa nuova. Il contrasto tra l’aspetto di quell’accesso e il luogo a cui era destinato chi saliva quelli scalini au­mentava lo sconforto che a molti proprio in quel trat­to prendeva. Ad ogni ripiano vi era un uomo armato che, con più o meno grazia, secondo l’umore, faceva segno di continuare l’ascesa fintanto che arrivati al piano in cui si era destinati non si trovava una delle solite guardie pronta con le chiavi in mano. Allora, in­vece di continuare a salire si entrava nelle porte senza battenti che in precedenza furono quelle degli appar­tamenti.
Di là ci si trovava in un breve corridoio illuminato dà una lampada elettrica appesa a un filo. Ai lati ed in fondo vi erano delle porte di legno grezzo, pareva che fossero state fatte allora e che aspettassero l’operaio per la rifinitura. I tre muri del corridoio erano anch’es­si rimasti incompleti, erano ancora di mattoni e di calcina viva come quelli delle case ancora da finire.
Attraversando quella soglia dopo l’accesso dalla scala dall’aspetto freddamente familiare, ci si trova­va in qualche cosa che dava l’impressione di un’at­trezzatura industriale. scompartimenti di una ghiacciaia o di una incubatrice, non so. non era pos­sibile formulare un’idea di ciò che era quel luogo; non certo una prigione, semmai un misterioso luogo di tortura moderna. Non era possibile pensare a qualche cosa del resto perché, appena entrati un tanfo tiepido, un odore di uomini ammassati da tempo, faceva sentire fisicamente, assieme alla mancanza d’aria, la presenza di molti esseri vicini e invisibili, chiusi come in tanti armadi.
Entrando infine nella cella destinata, se non era ac­cesa una lampada elettrica, in un primo momento pareva di essere al buio, ma proprio buio non era perché di sopra l’inferriata delle porte entrava il ri­verbero della lampada del corridoio.
Le celle erano di diversa grandezza: quella n. 31 [la stessa in cui passò gli ultimi suoi giorni di martirio Giorgio Labò] era larga due metri e lunga tre e mez­zo, conteneva da un minimo di quattro a un massi­mo di sei persone.
Dopo essersi abituati a quella oscurità, dopo aver scambiato un muto saluto col bianco dei volti, sfug­genti spesso nella tenebra della barba, spesso quasi quasi lucenti di luce propria sui lineamenti scarni dei giovani, guardandosi attorno si scorgeva prima di tutto un grande riquadro sulla parete maggiore for­mato da una muratura non finita di vecchi mattoni sotto i quali si indovinava la finestra di un tempo. In un angolo all’altezza di due metri e mezzo era un buco di pochi centimetri quadrati dal quale luce non passava, ma sarebbe dovuta passare l’aria, l’aria per cinque persone che si urtavano tutto il giorno cer­cando un modo come distendersi sul pavimento di mattonelle di cemento.
Per tutto arredamento due tavole inchiodate sulle quali due compagni potevano distendersi invece che sul pavimento. In un angolo poi si vedevano allineati degli spazzolini da denti, le ciotole di alluminio, alcu­ni cucchiai di legno e qualche pezzo di sapone. nulla poteva stare attaccato al muro pena venti bastonate. Dopo qualche giorno si imparava a riconoscere le o­re dai rumori che giungevano da lontano e da vici­no: la prima circolare della mattina, certi rumori del cortile che riuscivano anch’essi a giungere lontani e tristi, il rumore delle marmitte quando era l’ora di mangiare . Si imparava anche a riconoscere il movi­mento delle entrate e delle uscite dalle celle vicine ri­conoscendo quale delle porte era stata aperta, s’im­parava a sentire quando la guardia era lontana per scambiare qualche parola coi prigionieri vicini: biso­gnava misurare la voce in modo che raggiungesse la porta a cui ci si rivolgeva senza poter essere udita qualche metro più avanti dalla guardia che stava quasi sempre sulle scale. Le prime volte, tali voci pa­reva venissero da fondo a un sepolcro.
Altre ore erano fisse. il gabinetto della mattina, il «pasto», il gabinetto delle tre del pomeriggio e quel­lo della sera. Chi avesse avuto bisogno di andarvi ad altre ore della notte o del giorno, non aveva che ado­prare lo stesso recipiente in cui mangiava.
Quando per una ragione qualunque entrava una guardia o una ispezione tutti i prigionieri della cella che veniva aperta dovevano scattare in piedi e, se qualcuno, anche inavvertitamente sfiorava con la manica il muro, veniva schiaffeggiato perché, dice­vano, si appoggiava. Le nostre tasche venivano fru­gate molte volte la settimana e se avessero contenu­to anche un piccolo pezzo di giornale, uno stecco di fiammifero o che so io, erano percosse ed ingiurie.
Ma le due sofferenze capitali di chi risiedeva in via Tasso erano la fame e la mancanza d’aria. La fame, dopo il quarto o il quinto giorno era continua, una specie di languore che il sonno non spegneva e nes­suna divagazione riusciva a far dimenticare. La mancanza d’aria invece era avvertita con un gira­mento di testa che prendeva chiunque faceva un movimento poco più che lento, spesso poi qualcuno si sveniva e riprendeva poi piano piano come se si svegliasse.
Ognuno, ad un dato momento subiva un interroga­torio che poteva durare un’ora o più giorni. All’ora si scendeva e si passava di nuovo nell’ala degli «uf­fici», nessuno è mai tornato senza aver subito qual­che bastonatura,• quello non era nulla ed i resto, i mezzi più energici che avevano una scala in cre­scendo che poteva arrivare fino ai limiti estremi, so­no notissimi a tutti.
Di solito andando nella stanza destinata all’interro­gatorio, posati su un tavolo accanto agli inquisitori, vi erano degli scudisci di varie dimensioni e di diversa fattura, ma quelli, com’è noto, erano gli strumenti in­dulgenti, d’ordinaria amministrazione. Chiunque ha sostato un poco a via Tasso ha visto come tornavano alcuni dall’interrogatorio: c’era tutta una graduato­ria, si poteva tornare un poco dinoccolati e con le ma­ni posate delicatamente sulla schiena, o si poteva tornare irriconoscibili, coperti di sangue, sfigurati dalle ferite, portati come un morto per le gambe e per la testa da due guardie che sorridevano ributtando i disgraziati nelle celle come sacchi di legumi.
Con tutto questo in ogni cella non v’era giorno che un momento tra i silenzi e le imprecazioni, i volti dei prigionieri si aprissero a qualche sorriso,• qualche momento di indifferenza, non certo felice, ma capa­ce di sorridere.

G.B da “Mercurio”
Mensile di politica, arte e scienze

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Articolo tratto dal Settimanale “Il Manifesto 1995

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