Il Capitano Pampaloni

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Il capitano Pampaloni
(21 settembre 1943)
Il capitano Amos Pampaloni giunse a Cefalonia nella prima­vera del 1942 con la divisione Acqui, composta di 1200 uo­mini. A Cefalonia si trovavano anche 3500 soldati tedeschi, dei quali circa 600 erano accampati alla periferia di Argostoli con 14 o 15 pezzi di artiglieria. L’8 settembre 1943 la notizia del­l’armistizio giunse al capitano Pampaloni mentre conversava con dei commilitoni a Argostoli: per loro, come per la grande maggíoranza dei soldati italiani, non v’era dubbio che si trattava della fine della guerra. Ma la mattina del 9 settembre fu diffuso un ordine del giorno col quale il generale Gandin, comandante di divisione, ordinava a tutte le truppe sparse lungo le coste del­l’isola di concentrarsi nei dintorni di Argostoli, e contempora­neamente giunse dal comando Supergrecia di Atene l’ordine di consegnare senza resistenza le armi ai tedeschi. Trascorsero al­cuni giorni in un clima di crescente incertezza e smarrimento. La maggior parte dei soldati italiani si chiedeva perché mai il comando di divisione non si decidesse a dare l’ordine di attac­care i tedeschi e attendeva con impazienza istruzioni definitive.

Il capitano Pampaloni, insieme ad altri ufficiali si rivolse ad un ufficiale superiore ed espresse il desiderio di prendere subito le armi contro i tedeschi. Le inten­zioni dei tedeschi ed il significato dell’ordine pervenuto da Atene sono chiari, ma contrari all’ordine di Bado­glio di resistere ad ogni attacco. Perciò il nostro do­vere è di difenderci e di immobilizzare i tedeschi. Del resto, questo atteggiamento è quello che piú corrisponde al sentimento dei soldati e del popolo."
Finalmente i soldati seppero che il comando ita­líano aveva fatto precise proposte al comando tedesco; gli italiani avrebbero consegnato al presidio germanico di Cefalonia le armi pesanti a condizione di avere assi­curazione scritta che non si sarebbe opposto all’evacua­zione dall’isola delle nostre truppe, le quali avrebbero conservato l’armamento leggero. Si trattava di condi­zioni fin troppo concilianti e opportunistiche che già si discostavano da quelle poste dall’armistizio. Esse erano anche contrarie al sentimento dei soldati, che nutrivano un odio profondo contro i tedeschi, arroganti e violenti.
Gli ufficiali italiani erano convinti che queste con­dizioni sarebbero state accettate dai tedeschi. Ma ogni speranza di tregua crollò nel pomeriggio del 10 settembre. Verso le quattro giunse la notizia che scon­volse tutte le illusioni e confermò i timori di quelli che, come Pampaloni, si aspettavano un attacco dei tedeschi. A Santa Maura, un’isola che sorge tra Corfú e Cefa­lonia, i tedeschi, dopo aver disarmato il presidio italiano, avevano fatto prigionieri tutti i nostri soldati ed ave­vano fucilato il comandante che si era opposto all’ope­razione.
I soldati fatti prigionieri stavano per essere inviati in Germania. Il generale Gandin tenne a rapporto i cappellani militari ed essi lo consigliarono di evitare ad ogni costo atti di guerra.

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Padre Romualdo Formato cappellano del 33° Reggimento artiglieria

Dopo fece il consiglio di guerra di tutti i comandanti di corpo, ma solamente il colonnello Romagnoli, comandante di artiglieria, si oppose alle proposte di consegnare le armi.
La mattina del 13, quando appena albeggiava ed il sole non era alzato ma all’orizzonte nitida si distingueva la linea del mare e del cielo nel tenue chiarore che na­sceva, Pampaloni fu svegliato dall’ufficiale di guardia della sua batteria. Entrato nella tenda, concitato e impacciato l’ufficiale disse che all’imbocco del golfo di Ar­gostoli, la vedetta della nostra batteria aveva avvistato tre pontoni tedeschi. Pampaloni usci in fretta dalla ten­da e si fece largo fra i rami. del grande ulivo e si precí­pito` ai limiti del caposaldo. Portatosi rapidamente il cannocchiale agli occhi poté chiaramente vedere, se pu­re lievemente velati dalla nebbia del mattino, i tre pontoni tedeschi, carichi di carri armati e di soldati in pieno assetto di guerra. Pampaloni doveva prendere un’immediata decisione. "Se quelle truppe e quei carriarmati riescono a sbarcare nell’isola la nostra suprema­zia numerica sarà compromessa," pensò.
Lo spirito combattivo, la decisione e la pronta intui­zione sorressero ed animarono ancora, come al solito, l’uomo Pampaloni. Attaccatosi prontamente al telefono Pampaloni si consultò con gli altri ufficiali sostenendo la necessità di aprire il fuoco sui pontoni e di respin­gerli oltre il golfo.
Avuta la solidarietà dei commilitoni, pochi istanti dopo dette l’ordine di sparare. In un momento estre­mamente drammatico e carico di tensione, Pampaloni sentiva tutta la responsabilità che assumeva, sorretto da una profonda convinzione non soltanto militare, ma anche umana. Tale convinzione era infatti sostenuta da una significativa constatazione: non aveva bisogno di ordinare agli artiglieri di correre ai pezzi poiché quando giunse alle batterie tutti erano lí, già pronti intorno ai cannoni. I primi colpi scossero l’aria e l’eco di quei tuoni si diffuse sui colli. Dopo il fuoco della batteria di Pampaloni segui a breve distanza quello di altre batterie sparse lungo i costoni del golfo. I tedeschi reagirono prontamente. Nel giro di pochi minuti anche sul caposaldo di Pampaloni caddero i colpi dei cannoni dei carri armati che i tedeschi avevano nell’isola. Nei caposaldi italiani si ebbero i primi feriti, che vennero allineati per terra, fra i cespugli. Il tentativo tedesco fu respinto due pontoni affondati ed il terzo, danneggiato, riuscí a fuggire doppiando il capo del golfo di Argostoli. nell’incantevole golfo verso le sette del mattino tornò il silenzio. La bellezza calma e maestosa del mare e la pigra lucc del sole settembrino che lentamente si alzava avevano subito ricreato un’atmosfera di pace naturale La guerra sembrava già un evento molto lontano.

Quella pace invece sarebbe stata presto turbata da un sanguinoso conflitto. Il comando di divisione italiano non interruppe Ie trattative con i tedeschi, ma cercò di trarre profitto dal successo ottenuto e s’irrigidí sulle sue proposte Si stabilí di fatto una tregua.

Nelle file italiane nessun fatto nuovo. Malgrado non avessero,chiesto l’autorizzazione al comando di divi­sione per aprire il fuoco contro i tedeschi, contro Pampaloni e gli altri ufficiali non fu preso alcun provvedimento disciplinare.
Nel pomeriggio tutti gli ufficiali furono convocati nel­la grande tenda del quartiere generale della divisione Acqui. Il generale Gandin tracciò un quadro della si­tuazione, confermò che ormai in caso di conflitto armato con i tedeschi dell’isola, nel giro di poche ore le forze italiane si sarebbero trovate contro tutte le forze germaniche dislocate nel teatro di guerra greco e, con­seguentemente, avrebbero subito gli attacchi della "Luftwaffe." E allora l’aviazione tedesca era ancora forte.
Il generale Gandin disse che potevano scegliere tre strade: andare coi tedeschi, o consegnare loro le armi, o resistere. Il capitano Pampaloni, come altri ufficiali e soldati, capi che il rapporto del generale era un ammonimento. Prima di congedare gli ufficiali assicurò che avrebbe cercato con ogni mezzo di ottenere dai tedeschi il loro rimpatrio.
1,a situazione precipitò quando il comando germanico, dette l’ultimatum a quello italiano, il quale seppe rompere ogni indugio e dette l’ordine di iniziare le ostilità. Tale decisione derivava anche dalla convinzione che in Italia i tedeschi sarebbero stati sopraffatti, che in definitiva essi non avrebbero potuto a lungo resistere ne ricevere rinforzi. Quindi anche nel settore greco i tedeschi sarebbero stati isolati e sopraffatti. Ma questo agionamento ,presupponeva sempre una ferma decisione in Italia dello Stato Maggiore e del re, anziché la fuga a Pescara.
Lo spirito combattivo dei soldati italiani, guidati con ferma decisione dagli ufficiali in un nuovo spirito di collaborazione fra combattenti e ufficiali, ottenne subito risultati che sembravano decisivi. Nel volgere di poche ore gli italiani riuscirono a neutralizzare le forze tede­sche nell’isola.
Pochi combattimenti fruttarono centinaia di prigio­nieri e posero i rimanenti gruppi tedeschi ancora sparsi a Cefalonia nell’impossibilità di nuocere. Questi risul­tati crearono entusiasmo e fiducia fra i combattenti. I prigionieri venivano disarmati e concentrati, trattati lealmente. Ormai la partita nell’isola sembrava chiusa, poiché i tedeschi, attaccati in Italia — si pensava —non avrebbero potuto concentrare forze dagli altri scac­chieri. Ma come il generale Gandin aveva previsto, ben presto entrò in azione l’aviazione tedesca, che non era disturbata né nelle sue basi di partenza né nel cielo dell’isola.
Le poche postazioni di mitragliere a disposizione dei presidi italiani invano tentarono di fronteggiarla. Le incursioni si susseguirono quasi indisturbate. Gli stukas piombarono per alcuni giorni, il 16, 17, 18, 19, senza tregua sull’isola bombardando e mitragliando tutte le postazioni e i magazzini italiani. I tedeschi ricevettero continui rinforzi dalla Grecia mentre gli italiani non ricevettero aiuti né dall’Italia né dagli alleati.
Le perdite furono ingenti; centinaia di morti e feriti costituivano il bilancio dell’aggressione. Nella notte del 20 le capacità difensive degli italiani erano decisamente ridotte. Lo spirito degli uomini era sempre combattivo e sempre fermo il loro proponimento di non arrendersi, ma l’efficienza bellica dell’armamento non era in grado di fronteggiare i tedeschi. In questa situazione il co­mando germanico fece sbarcare ingenti forze nella parte orientale dell’isola provenienti dalla Grecia. Di queste forze faceva parte la divisione alpina Edelweiss, composta in gran parte di altoatesini e di truppe au­striache.
"… e vi fu grandine e fuoco, mescolati con sangue, che furon gettati sulla terra; e la terza parte della terra fu arsa, e la terza parte degli alberi fu arsa, ed ogni erba fu arsa. Poi una massa simile ad una gran montagna ardente fu gettata nel mare; e la terza parte delle creature viventi che erano nel mare morì… ".
(Apocalisse di Giovanni, 8, 7 -9)
All’alba del 21 incominciò l’attacco ed il massacro. Ad uno ad uno i piccoli presidi italiani furono investiti
Durante la notte il capitano Pampaloni si spostò coi suoi uomini e la batteria nei pressi di Dilinata con l’ausilio di un sottufficiale che li guidò nella zona. La postazione che gli era stato ordinato di raggiungere era in una posizione estremamente e inspiegabilmente infe­lice, in un fondo valle ad imbuto, circondata da monti privi di piante d’alto fusto e perciò scoperta. L’ordine sembrava dato per mettere la postazione in crisi. Pam­paloni, malgrado la gravità della situazione, con spirito di fraterno cameratismo incitava i soldati al combatti­mento essendosi ormai convinto da vari sintomi che il comando di divisione era deciso alla lotta. Purtroppo la situazione e le circostanze erano diverse. Il comando di divisione non aveva operato il trasferimento nella scuola di Dilinata, come annunciato, e sulle montagne che separavano la sua batteria dai tedeschi non v’era traccia di fanteria italiana. Proposte di collaborazione da parte dei partigiani greci erano state respinte dal co­mando. Alle prime luci dell’alba del 21 Pampaloni ten­tava di individuare un caposaldo nemico su cui puntare la batteria, ma sui versanti osservati scorse un forte movimento di soldati che scendevano su un fronte molto ampio: non si trattava di italiani in ritirata, bensì di reparti tedeschi che avanzavano indisturbati.
Le qualità dell’uomo e del comandante emergevano in Pampaloni quanto piú la situazione era grave. Coraggio e intuizione erano le doti che gli avevano consentito di creare un rapporto nuovo di fiducia coi suoi soldati. Questo rapporto, piú personale che gerarchico, aveva fatto dell’unità da lui comandata l’unità piú decisa e combattiva.
Pampaloni dispose gli 80 uomini che gli erano rimasti a difesa ravvicinata. Erano giovani dai 22 ai 28 anni, toscani, trentini e bergamaschi. Telefonò al comando del gruppo ma il comandante non seppe dirgli altro che "Fatti onore, Pampaloni!" Tentò di collegarsi con altri comandi superiori, ma senza successo. E ne­mico avanzava quasi al coperto dal tiro essendo il ter­reno sovrastante fatto a terrazze. Restava una debole speranza che da un momento all’altro giungessero aiu­ti della fanteria.
Ma la difesa era ormai disperata. Prodigandosi nel co­mando e nella direzione dell’impiego delle poche forze Pampaloni contrastò metro per metro l’avanzata dei tedeschi utilizzando al massimo le due mitragliatrici Fiat 35 e i pochi moschetti.
I tedeschi compirono un vasto movimento aggirante e circondarono la batteria. La situazione divenne inso­stenibile quando sulla batteria cominciarono a piovere precisi colpi di mortaio. I morti e i feriti aumentavano di minuto in minuto. Non potevano neanche essere rac­colti. L’animo di Pampaloni era agitato da un con­trasto di sentimenti; il dolore per la dura sorte dei suoi soldati e l’odio crescente contro i tedeschi. Era stanco, col volto stravolto, ma convinto che per la con­quista della libertà ed il riscatto dell’indipendenza na­zionale bisognava pagare un prezzo.
Al piccolo presidio sopraffatto e circondato non re­stò altra cosa utile da fare che rendere inutilizzabili le armi. Pampaloni fece subito rompere e nascondere gli otturatori dei pezzi, sparò con la sua stessa pistola ne­gli strumenti di puntamento.
Giudicando inutile ogni resistenza ordinò di cessa­re il fuoco. Intorno giacevano morti o feriti la mag­gior parte degli uomini, le armi ancora fumanti cir­condate da mucchi di bossoli, i pochi superstiti inco­lumi stanchi, assetati e affranti dall’esito della lotta. La polvere ed il fumo avvolgevano tutto in un’atmo­sfera rovente e drammatica.
Il capitano austriaco si fece avanti immediatamente seguito da un centinaio di uomini e ordinò di deporre le armi. A mezzo di un interprete che parlava perfettament italiano, ingiunse a Pampaloni di consegnare gli otturatori dei pezzi minacciandolo di morte se non lo avesse fatto subito. Pampaloni rifiutò. Ripetutamente invitato a rivelare dove fossero nascosti i pezzi il co­mandante italiano oppose sempre un preciso rifiuto. Il capitano austriaco aveva un aspetto pacifico, sembra­va un buon padre di famiglia. Gli occhiali cerchiati d’ oro, la corporatura panciuta ed i modi formalmente calmi e cortesi gli conferivano un aspetto quasi cardi­nalizio. Nel frattempo i soldati austriaci si dettero al recupero delle poche armi efficienti e a predare i sol­dati italiani. Si trattava di tirolesi della divisione Edel­weiss, bene armati e freschi. Con la razionalità dei gesti che deriva dall’esperienza di operazioni piú volte ripe­tute incominciarono a prendere tutti gli oggetti: orologi, anelli, portafogli, penne stilografiche, con modi insul­tanti e minacciosi venivano sottratti ai soldati italia­ni. Frugavano nelle tasche con la sveltezza dei borsaioli, davano spintoni e schiaffi a coloro che mantenevano un atteggiamento dignitoso e distaccato. Pampaloni in­tervenne: "Le leggi di guerra, oltre ai principi umani, prescrivono che si rispettino gli oggetti di proprietà dei prigionieri." "Dei prigionieri sí, ma non deí tra­ditori," replicò il capitano austriaco a mezzo dell’inter­prete.
1 tedeschi prelevarono una trentina di uomini avviandoli verso un sentiero a sinistra. Ai rimanenti ordinavano di mettersi in riga per uno, compresi i feriti.

" Pensai che ci volessero trasferire lontano," narra Pampaloni, "perciò intervenni nuovamente e protestai i feriti non erano in grado di camminare. Alcuni erano feríti alle gambe e alle braccia, altri alla testa e perciò gravissimi. Per quanto conservassero ammirevole fierezza e dignità, oltre ogni resistenza umana alcuni non potevano desistere dal lamentarsi per gli atroci dolori. Vedevo nei volti dei ragazzi che conoscevo benissimo e ai quali ero legato da affetto, espressioni di atroce sofferenza; in alcuni le smorfie dovute ad alterazioni fisiologiche che precede­vano di poco la morte. Il sergente Bruni tentò di scap­pare, fuggendo a precipizio in un borro, ma fu abbat­tuto da una scarica di mitra. Alla mia richiesta di soc­corso ai feriti i tedeschi non dettero neanche risposta.

"I soldati ancora incolumi e quindi piú lucidi inco­minciavano ad avere coscienza che qualcosa di tragi­co e di definitivo stava per accadere. Qualcuno mi disse ‘ora ci ammazzano tutti.’ Il sottotenente Tognato, un padovano pacifico e religioso che parlava tedesco e probabilmente aveva sentito trasmettere qualche or­dine, disse ai soldati: ‘ragazzi, recitate tutti un atto di contrizione.’
"Malgrado le circostanze avverse conservai calma e serenità. Avevo fiducia. Poiché il nostro era un esercito regolare nutrivo la speranza che ci avrebbero consi­derati prigionieri, e condotti in qualche campo di concentramento dell’isola. Rimproverai bonariamente Tognato perché demoralizzava gli artiglieri.
"Invece in Tognato e negli altri uomini v’era una evidente intuizione delle intenzioni dei tedeschi e perciò coscienza della situazione ed ammirevole serenità, senza disperazione, di fronte alla prospettiva della morte.
"Il capitano austriaco aveva perduto la calma ed abbandonato il contegno distinto, appariva in tutta la sua evidenza l’ufficiale dell’esercito nazista. Con voce rauca e perentoria, nervosamente con la pistola in mano mi ingiuse ancora una volta di rivelare dov’erano gli otturatori. Avendo ricevuto un altro rifiuto mi ordinò di mettermi in fila con gli altri. Allo scopo di controllare la situazione mi misi in coda, ma il capitano mi ordinò di portarmi alla testa. Alcuni soldati si erano caricati sulle spalle i compagni feriti ed erano pronti per marciare.
Avanti a noi sí apriva uno stretto sentiero che bordeggiavauna lunga fila di immensi ulivi, alti e grossi come quelli della nostra Calabria. Una voce perentoria comandò di metterci in marcia. Il piccolo dolorante cor­teo si mosse lentamente, in un silenzio assoluto. Tutti, forse, senza parlarci, presentivamo che incombeva l’e­pilogo della nostra strenua lotta.
"In quel silenzio udii chiaramente gli scatti del pa­rabellum; il capitano austriaco che camminava al mio fianco leggermente arretrato lo aveva caricato. Pochi at­timi dopo sparò. Il colpo mi colpi alla nuca. Sentii una grande confusione e stordimento. Mi sembrò d’essere as­salito dalle fiamme alla testa. Vidi tutto rosso intorno e poi ogni cosa perse i contorni. Nei pochi attimi di confusa conoscenza potei percepire l’operazione che certamente i tedeschi avevano stabilito di compiere; quasi contemporaneamente al colpo sparato a me dal­l’ufficiale altri tedeschi, credo tre o quattro, spararono con le mitragliatrici sulla fila dei soldati, compresi i feriti.
"Caddi riverso al Iato del sentiero. Il proiettile mi aveva colpito in basso alla nuca, dietro l’orecchio, ed era uscito dalla mandibola. Avevo la bocca impastata e la lingua ingrossata. Anche in quello stato udii le raffiche del mitra, le grida dei soldati. Le raffiche continua­rono rabbiose con l’evidente intenzione- di eliminare tutti.
"Nel cadere avevo allungato le braccia e dal polso era esposto il mio orologio d’oro che i tedeschi non mi avevano chiesto. Un tedesco prontamente, sghignazzan­do, si precipitò su di me. Era mancino e non gli fu facile togliermelo.
Sentivo il tepore del sangue che mi bagnava la spal­la. Per quanto mi sembrasse d’essere in un mondo ir­reale e non mi rendessi conto del mio reale stato di sa­lute cominciai a percepire l’idea della non fatalità del­la morte. Perciò mi preparai istintivamente a resistere al dolore, senza lamenti. Rimasi immobile. Lasciai che il tedesco strapazzasse il mio braccio e mi meravigliai che nella caduta non mi si fossero rotti gli occhiali. Snl mio corpo, forse in un disperato sussulto poggiavano parte dei corpi dei miei compagni.
"Potei accorgermi che sulle gambe avevo la testa sanguinante del tenente Tognato. Sentivo lamenti, gemiti indistinti cessavano e ricominciavano. Ero letteralmente immerso nella carneficina, mi sembrava d’essere sulla soglia della vita e della morte. La testa mi sembrava leggera come se galleggiasse nell’aria.
"I tedeschi cominciarono a cantare. Nel canto emergevano ogni tanto delle grida, forse di soddisfazione e di gioia. Passarono alcuni minuti che mi parvero tanto lunghi e pesanti. Sempre cantando i tedeschi comin­ciarono ad allontanarsi. Sentivo la loro voce e i loro pas­si affievolirsi, ma non distinguevo bene se effettiva­mente si allontanavano o se erano i miei sensi che percepivano piú debolmente i rumori. Ma lo stato di coscienza diventava sempre piú preciso. Capii che tutti i miei compagni erano morti."
Alcuni soldati di un drappello della stessa divisione Acqui che era di collegamento sui monti circostanti fra i vari gruppi videro, da lontano, le rapide fasi dell’azio­ne. Impotenti ad intervenire, si convinsero che i solda­ti della batteria erano tutti morti. I pochi superstiti por­tavano la notizia.
Pampaloni rimase per oltre un’ora fra i corpi dei compagni, nell’impossibilità di muoversi.
"In quello stato di assopimento, sempre in posizione supina pensai alla terribile tragedia. Mi sentivo legato, ai miei compagni e l’eventualità di sopravvivere mi parve piú dura della morte.
"Dopo un’ora circa sentii un fruscio di lievi passi e frugare nel gruppo. Potei scorgere una donnetta greca che raccoglieva fra i corpi dei morti gli oggetti rimasti.

"Mi feci animo, le rivolsi la parola per domandare se c’erano ancora tedeschi. Fui assicurato che non ve n’erano in quei pressi. Con uno sforzo di volontà mi alzai. Solo allora potei vedere la scena terribile, allucinante che mi circondava. I miei soldati e gli ufficiali distesi in posizioni scomposte, come corpi gettati alla rinfusa con violenza, orribilmente straziati nelle mem­bra e nella faccia dalle raffiche delle mitragliatrici che li avevano ripetutamente investiti. Ero disperato. Per un momento provai una specie di attrazione: mi sembra­vano assurti ad un simbolo altissimo, circondati da una grande luce. Mi sembrava che anche il mio spirito stesse per abbandonare il corpo, come se deponessi un abito consumato ed inutile. Ma fu un attimo. Ogni sentimento mistico mi abbandonò. L’individuo è forte­mente attaccato alla carne e al mondo vivente. Non riesce ad allontanarsi da ciò che possiede del mondo. Ed anche questo mondo in cui si erano consumate le gesta infamidei nazisti e dei fascisti non mi sembrava fa­talmente dominato dalla bestialità umana. D’altronde l’ultraterreno al cui confine mi pareva d’essere giunto, non esercitava nessuna attrattiva. Non mi assicurava neanche di poter ricomunicare coi miei compagni. Nel mio animo risorgeva la volontà di vita, la fiducia, la volontà di lottare.

"Sopraggiunsero due partigiani greci, laceri, ma armati.
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Partigiani Greci
"incominciai a parlare con loro. Mi aiutarono, mi soccorsero. Un sorso di acqua fresca trangugiato percorse, il mio corpo e stimolò i miei sensi.
I partigiani incominciarono a medicarmi. Mi fasciarono la testa per arrestare la perdita di sangue.
Improvvisamente da un per cespugliodi sbucò una ragazza

"Spaventata e agitata gridava: `germanus,’ ‘germanus"
In un attimo i partigiani e la ragazza scomparvero.

Riuscii anch’io a gettarmi in una macchia. Di lí a pochi minuti passarono nel sentiero sul quale anche noi eravamo stati incamminati, i tedeschi in fila indiana. Li lasciai passare Venne dopo un ragazzo che mi procurò del latte. Attesi alcune ore nascosto nella macchia per recuperare le forze e per accertarmi che non vi fossero tedeschi.
"Verso sera decisi di mettermi in cammino. Provai un immenso dolore e rimpianto a lasciare i corpi dei miei compagni ai quali, da solo, non potevo neanche dare sepoltura. Sentivo che mi separavo definitivamente. Ma dovevo salvarmi, ed ero animato dal desiderio di ri­prendere la lotta.
"I partigiani tornarono sul posto per seppellire i sol­dati italiani uccisi. Sapevano, dal precedente incontro, che ci doveva essere il capitano italiano Pampaloni e mi cercarono affannosamente, ma inspiegabilmente, per lo­ro, non trovarono il mio corpo.
‘Mi ero diretto verso il paese di Faraclata, per farmi medicare. Le forze mi mancarono. Incominciava ad im­brunire e dagli arbusti che costeggiavano la strada mi sembrava sempre veder sbucare i tedeschi. Scorsi una casa di contadini, mi fermai, bussai; chiesi asilo fino al giorno dopo.
"Volevo recarmi all’ospedale militare italiano di Ar­gostoli. Il contadino era un ometto anziano, ma vispo. Mi concesse ospitalità e ci scambiammo poche parole. Contrattai con lui i miei stivali con abiti civili che mi erano necessari per sfuggire ai tedeschi. Dormii su una pelle di capra. Un sonno agitato, pieno di incubi, ma egualmente ristoratore.
"Il giorno dopo il contadino mi propose di prosegui­re nelle ore diurne e di farmi accompagnare da sua mo­glie, la quale, per mia sicurezza, mi avrebbe preceduto. Invece, essendo capitata in casa, mi accompagnò la figlia del prete ortodosso, una giovane e bella ragazza.
"Attraversammo la valle passando nel bosco, fra due colline. Sui fianchi di una di esse c’erano i tedeschi e sull’altra gli ultimi italiani che resistevano. Gli spari s’incrociavano ed udivamo i fischi delle pallottole.
"La ragazza insisté vivacemente perché non andassi all’ospedale Cercò di dissuadermi in ogni modo assicurandomi che con loro, i contadini ed il prete, sarei stato sicuro. Ma io volevo raggiungere l’ospedale e ricongiungermi coi soldati italiani e proseguire la lotta. Di fronte alla mia decisione di proseguire la ragazza si rifiutò di andare avanti e di accompagnarmi ulteriormente
"A malincuore mi decisi di tornare indietro con lei poiché non potevo avventurarmi da solo senza conosce­re la strada.
"Non avevo altra alternativa.
"Ci recammo a casa del prete. Lí rimasi alcuni giorni, nascosto in soffitta. I miei soccorritori rischiavano molto perché i tedeschi trucidavano chi ospitava i soldati italiani. In quei giorni infatti in una casa vicina i tede­schi scoprirono un italiano e per rappresaglia ammazza­rono tutti e bruciarono la casa. Non mancai di comprendere il pericolo che incombeva sul prete e su sua liglia. Per questo decisi di andarmene.
"Il figlio del prete mi accompagnò per uscire dal paese. I tedeschi quando lo vennero a sapere lo impicca­rono.
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Angelos Kostandakis
"La mattina del 23 i tedeschi occuparono l’ospedale militare italiano di Argostoli che io avrei voluto rag­giungere; lo invasero, prelevarono tutti gli ufficiali ita­liani e, lí vicino, in una casetta rossa li fucilarono tutti, a gruppi di 4, 8 e 12 alla volta, sotto gli occhi del cappellano militare Romualdo Formato. Soltanto grazie al­l’intervento della figlia del prete riuscii a sfuggire alla morte per la seconda volta. Cosí il mio desiderio di unirmi ai superstiti soldati italiani era tragicamente frustato
Il 24 settembre il bollettino di guerra del comando militare tedesco affermò:
La Divisione Acqui, che presidiava l’isola di Cefalonia dopo il tradimento del governo Badoglio aveva rifiutato di deporre le armi e aveva aperto le ostilità. Dopo azioni di preparazione svolte dall’arma aerea le truppe tedesche sono passate all’attacco,
hanno infranto la resistenza dei ribelli e hanno conquistato la città di Argostoli. Oltre 4000 uomini hanno deposto le armi. Il grosso della divisione ribelle, compreso lo Stato Maggiore, è sta­to annientato in combattimento.
Ma la decisione ed il coraggio di Pampaloni non era­no estinti. Non era piú il capitano di artiglieria dell’e­sercito italiano, ma un combattente del nuovo esercito ribelle che nasceva in Europa. Attraverso peripezie, va­gando di paese in paese, sfuggendo sempre ai tedeschi che ormai presidiavano tutti i centri, trovò la sua strada. Il comandante partigiano greco Papafotis aveva saputo che in casa del prete v’era stato un ufficiale ita­liano e comprese che si trattava di Pampaloni.
Papafotis lo mandò a cercare. Rintracciatolo, lo pre­gò di recarsi su in montagna. Era quello che Pampa­loni cercava. Giuntovi, circondato da premure, da af­fetto e d’amicizia, Pampaloni fraternizzò coi partigiani greci.
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Alla testa di Partigiani greci

Pensò che fino a poco tempo prima il popolo italiano era in guerra contro quel popolo. Da quel momento si iniziò una svolta ideale e politica nella coscienza e nella vita di Pampaloni. Il vuoto lasciato dal tradimento dei capi monarchici e militari italiani, l’amarezza delle tragiche sconfitte subite coi suoi soldati erano sostitui­ti da una nuova speranza.
A bordo di un veliero lasciò l’isola e raggiunse i par­tigiani in Grecia. Il primo ottobre prese parte, coi par­tigiani dell’Ellas alla battaglia di Pondolovizza e restò con loro fino alla fine del novembre 1944.
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Monumento ai Caduti della Divisione “Acqui”

"… Il massacro dei novemila di Cefalonia e Corfù compiuto dai tedeschi e la testimonianza di coraggio e di dignità di cui tutti quegli sventurati italiani dettero prova di fronte alla morte, costituì uno dei momenti fondamentali e luminosi nella tragedia che sconvolgeva l’Europa. Quello sterminio collettivo, provocato dal rifiuto unanime di arrendersi e ne­anche di accettare una prigionia per altro non disonorevole, quel gesto comune deciso lontano dalla Patria, senza ordini precisi, per una di quelle sublimi ribellioni della coscienza, costituì l’inizio di un nuovo periodo storico per l’Italia, offrì un esempio fertile, fecondò il seme di quella Resistenza ar­mata che appunto in quel fatale mese di settembre 1943 do­veva cominciare are come una epopea nuova e quale riscatto per il nostro Paese.
Il ‘no’ del Generale Gandin, il ‘no’ dei suoi ufficiali; il ‘no’ dei suoi soldati, sono in realtà la prima affermazione cosciente e libera della nuova Italia che pagava la libertà con il sacrifi­cio, con una morte senza sepoltura, in n una piccola isola del Mediterraneo… ".
SANDRO PERTINI

Le foto sono tratte dal libro I sommersi di Cefalonia
Di Christoph U. Schminck-Gustavus

Edizione “Il Combattente”
Dicembre 1995

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