Archivio mensile:settembre 2018

Cesare Pavese – Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Cesare Pavese

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Mario Luzzi – 11 settembre

Mario Luzzi

11 settembre

Dimettete la vostra alterigia

sorelle di opulenza

gemelle di dominanza,

cessate di torreggiare

nel lutto e nel compianto

dopo il crollo e la voragine,

dopo lo scempio.

Vi ha una fede sanguinosa

in un attimo

ridotte a niente.

Sia umile e dolente,

non sia furibondo

lo strazio dell’ecatombe.

Si sono mescolati

in quella frenesia di morte

dell’estremo affronto i sangui,

l’arabo, l’ebreo,

il cristiano, l’indio.

E ora vi richiamerà

qualcuno ai vostri fasti.

Risorgete, risorgete,

non più torri, ma steli,

gigli di preghiera.

Avvenga per desiderio

di pace. Di pace vera.

Mario Luzi

Roberto Roversi Da «Il tedesco imperatore»

Roberto Roversi

Da «Il tedesco imperatore»

Quando venni in Lombardia

ero giovane, allora.

Per strade róse dai fischi dei vapori

il pianto di un ragazzo

migrò libero verso la frontiera:

l’ombra dei montanari saliva verso il cielo

e in tiepidi restaurants i camerieri

scoprivano agli ufficiali

distratti da un occhio adolescente

fragili zuppiere.

Nel rifugio della stazione,

mentre i treni bruciavano

bianchi neri contro le vetrate,

la donna appoggiò i chiari

capelli sul mio zaino.

Terra per eserciti

in fuga verso i monti.

Tremano al lume della luna le giovani foglie.

Austria, Svizzera, Francia alla frontiera.

In due giorni di cammino

sui laghi volarono,

col balzo delle trote, le speranze.

A Novara, a Novara;

oh a Novara, in un osteria

avvinghiata da caserme bruciate;

un uomo grida sul prato della periferia,

al mattino era morto. Ivrea, Aosta…

su quelle strade marciavo e per i monti

frustrato da tristezza, dai ricordi.

da «Tutto bruciato»

Marco appare. "Il paese bruciato.

Guarda le case, tronchi senza vita,

macerie, polvere.

La forte gioventù morta, fuggita".

Il sole indora la campagna,

cade dai nevai;

odore di un fuoco calmo dentro al vento.

La gente ferma sulla piazza.

M’azzanna il cuore una vespa infuriata.

"I mongoli affamati

dànno alla nostra carne questi morsi.

I tedeschi li armano, li avventano

ubriacandoli; bruciati dalla grappa

cadono urlando sulla strada,

prendono le donne come cani.

Pecore siamo nell’Italia morta".

M’avvio nella valle solcata

da un fiume, con cime fuggenti,

stormire d’alberi,

ruscelli stenti migrano, fra onde

di foglie i castelli persi nelle ombre.

Case incendiate specchiano le nubi;

dentro ai paesi occhi e ossa d’uomini

tendono la mano, pellegrini

vinti da una sciagura.

Pendono le travi delle case.

"Le donne uccise", dicono, "o scampate

al massacro, spente di paura

giacciono nel buio delle stalle.

Da uscio a uscio per fienili e case

i mongoli cercarono, fra le balle

di paglia, carrette rovesciate;

bruciò il paese, fuggono le donne

rauche disfatte pazze di terrore".

I vigorosi uomini lontani.

Pagarono le donne con la vita

la breve età felice

e i neri capelli.

Tornano adesso i giovani strisciando

lungo le siepi della valle.

da «La piazza è in festa»

Carri armati posano

sotto gli alberi, i negri

ridono, stendono le mani,

la gente nelle vie,

tutte le finestre al sole.

Giorno sacro d’aprile. Alti vocianti

feroci uomini nuovi.

"E’ finita la guerra", questo

il popolo grida; gli anni si frantumano,

un mondo nuovo affiora ribollendo

dalle schiuma aspra del dolore.

La piazza bianca di calce, bianca nell’aria d’aprile,

tacque; un uomo apparve sul palco,

parlò poche parole aprendo

la nuova storia.

Lucio Dalla – 4 marzo 1943

Lucio Dalla

4 Marzo 1943

Dice che era un bell’uomo e veniva
Veniva dal mare
Parlava un’altra lingua
Però sapeva amare
E quel giorno lui prese a mia madre
Sopra un bel prato
L’ora più dolce prima di essere ammazzato

Così lei restò sola nella stanza
La stanza sul porto
Con l’unico vestito ogni giorno più corto
E benché non sapesse il nome
E neppure il paese
Mi aspettò come un dono d’amore fin dal primo mese

Compiva sedici anni quel giorno la mia mamma
Le strofe di taverna
Le cantò a ninna nanna
E stringendomi al petto che sapeva
Sapeva di mare
Giocava a fare la donna con il bimbo da fasciare

E forse fu per gioco o forse per amore
Che mi volle chiamare come nostro Signore
Della sua breve vita è il ricordo più grosso
È tutto in questo nome
Che io mi porto addosso

E ancora adesso che gioco a carte

E bevo vino
Per la gente del porto
Mi chiamo Gesù bambino

Cesare Pavese – Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Cesare Pavese

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –

questa morte che ci accompagna

dal mattino alla sera, insonne,

sorda, come un vecchio rimorso

o un vizio assurdo. I tuoi occhi

saranno una vana parola,

un grido taciuto, un silenzio.

Così li vedi ogni mattina

quando su te sola ti pieghi

nello specchio. O cara speranza,

quel giorno sapremo anche noi

che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.

Sarà come smettere un vizio,

come vedere nello specchio

riemergere un viso morto,

come ascoltare un labbro chiuso.

Scenderemo nel gorgo muti.

(Ad Un Partigiano Caduto – Giuseppe Bartali)

(Ad Un Partigiano Caduto – Giuseppe Bartali)

la strada che conduce

a quei giorni lontani di smeraldo

dove sostammo come creduli ragazzi

a creare coi sogni nelle vene

fantasie di speranze e di parole

fra pugni di “canaglie in armi”

Forse potrei dimenticare il giogo

che mi lega all’arco dei rimpianti

se soltanto le voci dei compagni

tornassero a cantare

come quando la vita dilagava

e tu portavi alla gioia di tutti

il tuo sorriso di fanciullo

e la forza serena dei tuoi occhi

Ma anche se il tempo non ricama

che fili d’ombra sulla memoria

e il tormento di quel assurdo giorno

quando attoniti restammo

davanti alla pietà della tua forca

è pur sempre l’ora della tua lotta

del tuo caldo vento di libertà

immenso come grembi di colombe

in volo fra fiori d’acquadiluna

Tu solo amico adesso

puoi scegliere i ritorni

e dirci ancora

col battito delle tue ali

le bellezze della vita

e le dolci innocenze della morte.

Pietro Gori – Inno dei lavoratori del mare

Pietro Gori

Inno dei lavoratori del mare

 

Lavoratori del mar s’intoni
l’inno che il mare con noi cantò
da che fatiche stenti e cicloni
la nostra errante vita affrontò
quando con baci d’oro ai velieri
l’ultimo raggio di sol morì
e giù tra i gorghi de’ flutti neri
qualcun de’ nostri cadde e sparì.
Su canta, o mare, l’opra e gli eroi
tempeste e calme, gioia e dolor
o mare canta, canta con noi
l’inno di sdegno, l’inno d’amor.
Canto d’aurore di rabbie atroci
sogni e singhiozzi del marinar
raccogli e irradia tutte le voci
che il nembo porta da mare a mar
e soffia dentro le vele forti
che al sole sciolse la nostra fè
e chiama e chiama da tutti i porti
tutta la gente che al mar si die’.
Su canta, o mare, l’opra e gli eroi
tempeste e calme, gioia e dolor
o mare canta, canta con noi
l’inno di sdegno, l’inno d’amor.
Solo una voce da sponda a sponda
sollevi al patto di redenzion
quanti sudano solcando l’onda
per questa al pane sacra tenzon
mentre marosi gonfi di fronde
e irose attardan forze il cammin
noi da la nave scorgiam le prode
dove le genti van col destin.
Su canta, o mare, l’opra e gli eroi
tempeste e calme, gioia e dolor
o mare canta, canta con noi
l’inno di sdegno, l’inno d’amor.
Già da ogni prora che il corso affretta
la evocatrice diana squillò
e all’alba il grido della vendetta
la verde terra già salutò
terra ideale dell’alleanza
tra menti e braccia giustizia e cor
salute o porto de la speranza
che invoca il mesto navigator.
Su canta, o mare, l’opra e gli eroi
tempeste e calme, gioia e dolor
o mare canta, canta con noi
l’inno di sdegno, l’inno d’amor.
Noi sugli abissi tra le nazioni
di fratellanza ponti gettiam
coi nostri corpi su dai pennoni
dell’uomo i nuovi diritti dettiam
ciò che dai mille muscoli spreme
con torchi immani la civiltà
portiam pel mondo gettando il seme
che un dì per tutti germoglierà.
Su canta, o mare, l’opra e gli eroi
tempeste e calme, gioia e dolor
o mare canta, canta con noi
l’inno di sdegno, l’inno d’amor.

Pietro Gori Canto della prigione

 

Pietro Gori
Canto della prigione

 

Quando muore triste il giorno,
e ne l’ombra è la prigione
de’ reietti e de’ perduti
intuoniamo la canzone.

 

La canzone maledetta
che ne’ fieri petti rugge,
affocata* da la rabbia
che c’infiamma e che ci strugge.

 

La canzon che di bestemmie
e di lacrime è contesta**;
la canzone disperata
de l’uman dolore è questa.

 

Noi nascemmo e fanciullini
per il pane abbiam lottato,
senza gioia di sorrisi
sotto un tetto sconsolato.

 

Noi soffrimmo, e niun ci volse
un conforto, o porse aita***
niuno il cor ci ritemprava
a le pugne de la vita.

 

Noi cademmo, e giù sospinti
rotolammo per la china,
supplicammo, e de li sdegni
ci travolse la ruina.

 

Or, crucciosi e senza speme
qui da tutti abbandonati,
maledetto abbiamo l’ora
ed il giorno in cui siam nati.

 

Ma su voi, che luce e pane
a noi miseri negaste,
e caduti sotto il peso
de la croce c’insultaste;

 

Sopra voi di questo canto
che ne l’aura morta trema,
come strale di vendetta
si rovescia l’anatema.

 

Pietro Gori Canto dei coatti

Pietro Gori

Canto dei coatti

Addio compagni addio

sorelle spose e madri.
La società dei ladri
ci ha fatto relegar
sepolti in riva al mar!
Siamo coatti e baldi
per l’isola partiamo
e non ci vergognamo
perché questo soffrir
è sacro all’avvenir.
Ma la sublime idea
che il nostro cor sorregge
sfida l’infame legge
che ai cari ci strappò
e qui ci incatenò.
A viso aperto i diritti
al popolo insegnammo
e a liberar pugnammo
da tanta iniquità
l’oppressa umanità.
Sognammo una felice
famiglia di fratelli
perciò fummo ribelli
contro ogni sfruttator
contro ogni oppressor.
Vedemmo l’alba immensa
delle speranze umane
lottammo per il pane
e per la libertà
contro ogni autorità.
Vi giunga o plebi ignare
da questa fossa infame
del freddo e delle fame
sdegnoso incitator
quest’inno di dolor.
O borghesia crudele
tu non ci fai paura
la società futura
per la tua gran viltà
te pur condannerà.
Ma voi lavoratori
voi poveri sfruttati
per questi relegati
rei di bandire il ver
avrete un pio pensier.
Addio dolente Italia
d’illustri ladri ostello
di tresche ree bordello
stretti alla nostra fé
oggi partiam da te.
Ma un dì ritorneremo
più fieri ed implacati
finché rivendicati
non sieno i diritti ancor
di ogni lavorator!
Straziate o sgherri vili
le carni e i corpi nostri
ma sotto i colpi vostri
il cor non piegherà
l’idea non morirà.