Archivio mensile:ottobre 2017

Le Stragi nascoste – Cuneo

Le stragi nascoste

QUATTRO CASI DI ORDINARIA VIOLENZA, INSABBIATI

(1) Cuneo

Un esame più dettagliato del materiale processuale «provvisoria­mente archiviato» dalla Procura generale militare può essere con­dotto attraverso lo studio a campione di quattro fascicoli rappresen­tativi della gran massa della documentazione occultata, relativi ad aree geografiche eterogenee e a fasi differenti della campagna mili­tare: gli incartamenti intestati rispettivamente al maggiore Alfred Grundmann (fascicolo numero 1191 del ruolo generale), al capitano Richard Henning (n. 192), al tenente colonnello Karl Ortlieb (n. 657) e al sottufficiale Fritz Wunderle (n. 1954).

L’ultima settimana del luglio 1944 due reparti della divisione Bran­denburg effettuarono una manovra a tenaglia nell’alta valle Tanaro, in provincia di Cuneo, per distruggere le formazioni partigiane autono­me e garibaldine che minacciavano la sicurezza della strada statale n. 28. Secondo i piani concepiti dalla Geheime Feldpolizei 751 di stanza a Savona, la 13a compagnia Panzerjàger al comando del capitano Josef Tochtrop sarebbe scesa su Garessio dal Colle San Bernardo, mentre la 6′ compagnia, guidata dal capitano Richard Henning, avrebbe inve­stito la cittadina dalla parte meridionale della vallata.’ Il 25 luglio 1944 questo secondo reparto, proveniente da Ceva, travolse le linee partigiane nei pressi della frazione Pievetta (comune di Priola), rastrellò casa per casa l’abitato e si macchiò di violenze efferate:

Uccisione di un vecchio di 80 anni da parte di un soldato tedesco.

Uccisione di un uomo di 61 anni e ferimento di un altro di 50 anni da parte di un ufficiale.

Ferimento di un uomo di 65 anni.

Uccisione di 9 uomini tra i 28 e i 65.

Uccisione di altri 2 uomini, uno di 45 e l’altro di 41, mentre si trovavano presso la salma del padre, poco prima ucciso dai tedeschi.

Uccisione e distruzione del cadavere di un uomo di 52 anni, sorpreso dai tedeschi mentre cercava di mettere in salvo le sue bestie.

Uccisione di un uomo di 36 anni, in presenza della moglie, mentre cer­cava di accompagnarla in un luogo sicuro.

Uccisione di un uomo di anni 57.

Uccisione di un uomo di anni 41, per giunta mutilato a un braccio.

Uccisione di un uomo di anni 46, trasportato in Bagnasco e poscia im­piccato al balcone soprastante la porta d’ingresso alla farmacia di quel co­mune.

Inoltre due donne vennero violentate.

Le 19 uccisioni si accompagnarono a distruzioni e a ruberie di ogni genere, il paese fu dato alle fiamme (bruciarono 55 case su 80) e ai civili fu intimato di non spegnere l’incendio, a meno di incorrere nella più dura repressione:

I tedeschi mediante fosforo ed altre sostanze infiammabili incendiarono l’abitato, dopo averlo suddiviso in tre zone e vietarono ogni tentativo di spegnimento del fuoco.

Furono così distrutte moltissime case, tra cui quella parrocchiale, ed altre furono gravemente danneggiate, nonché mobili e masserizie. Infine i tede­schi saccheggiarono le abitazioni, rimaste incustodite, asportandovi tutti gli oggetti di maggior valore ed anche vini e liquori, con i quali si ubriacarono. Considerando tutto il paese preda di guerra, i tedeschi s’impossessarono anche di macchinario, di viveri e di capi di bestiame.3

Ai rastrellamenti seguì una massiccia deportazione di forza-lavo­ro in Germania: circa quattrocento civili dell’alta valle Tanaro furono catturati e inviati nel Reich.

Il 10 maggio 1945 il comune di Priola e l’ANPI di Cuneo denunziarono al ministero della Guerra l’incendio e il massacro di Pievetta, «onde giustizia sia resa a questa popolazione». Le prime testimo­nianze furono raccolte dalla Commissione alleata d’indagine. L’in­cartamento predisposto nel 1945-46 per la Commissione delle Na­zioni Unite per i delitti di guerra rimarcò la responsabilità di Henning, «tanto più che egli, quale comandante della colonna, dette ai suoi dipendenti l’ordine di essere "spietati" nei riguardi della po­polazione civile della borgata Pievetta». Le imputazioni a carico del capitano concernevano la violazione degli articoli 185, 187 e 187 del Codice penale militare di guerra: violenza con omicidio contro pri­vati nemici, saccheggio, incendio, distruzioni e gravi danneggia­menti; il caso ricadeva nella disciplina prevista dall’articolo 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale sui crimini di guerra. Nelle «Note sul procedimento» si prefigurò la probabile strategia di­fensiva dell’ufficiale, del quale si riteneva essenziale l’arresto:

Non è possibile stabilire su quali elementi l’imputato baserà la propria difesa, e cioè se escludendo qualsiasi iniziativa personale egli cercherà di at­tenuare le sue responsabilità, affermando di aver agito in ottemperanza a ordini superiori circa la rappresaglia da porre in atto anche contro inermi cittadini nelle zone occupate dai partigiani.

Soltanto dall’interrogatorio dell’imputato si potrà stabilire se vi siano o meno responsabilità di altre persone e in quale misura, e potranno trarsi inoltre elementi per l’identificazione del tenente e degli altri militari tede­schi che si sono resi colpevoli dei suddetti crimini di guerra.

Contrariamente a queste premesse, la magistratura militare italia­na evitò di processare i reparti della divisione Brandenburg responsabili del massacro. A una quindicina d’anni dai fatti, la Procura cri­minale di Dortmund pose sotto inchiesta Henning e Tochtrop, chiedendo informazioni all’amministrazione comunale di Priola e a esponenti del movimento partigiano di Cuneo. Il processo, apertosi il 23 ottobre 1962, proseguì sino al 24 gennaio 1967. Gli esecutori dell’incendio e delle uccisioni di civili si difesero con le consuete moti­vazioni della propria estraneità alle uccisioni e/o dell’obbedienza agli ordini. La corte assolse tutti, con motivazioni varianti dall’insuf­ficienza di prove alla morte degli imputati. La documentazione reperita lasciava credere che l’ordine dell’operazione provenisse dalla Geheime Feldpolizei 751 di Savona, ma i suoi componenti furono prosciolti, prestando fede alle loro dichiarazioni:

Tutti i membri interrogati del Gruppo GFP 751 hanno assicurato di non essere a conoscenza dell’uccisione in totale di 27 civili italiani a Pievetta e Bagnasco, nel periodo che va dal 25 luglio al 22 agosto 1944 e neppure di aver mai prestato servizio in questi luoghi. Il contrario non può essere pro­vato, tanto più che il sospetto si indirizza verso i membri del Gruppo GFP 751, in generale, solo a causa della connessione di tempo e spazio con i fatti accaduti a Garessio il 28 luglio 1944.5

Il dispositivo finale della sentenza getta una luce sconsolante sul­l’intero processo, suscitando l’impressione che esso sia servito più che altro a chiudere in via definitiva una vicenda «fastidiosa»: Per quanto persone conosciute o sconosciute abbiano collaborato oggetti­vamente all’uccisione di 31 civili italiani nel territorio di Garessio, nel perio­do dal 25 luglio al 22 agosto 1944, un ulteriore procedimento penale non promette alcun successo, perché in queste uccisioni si tratterebbe di omici­dio, ma non di omicidio premeditato.

1) Per quanto riguarda l’uccisione di 4 civili e del tentato omicidio di un’altra persona a Garessio il 28 luglio 1944, non esistono futili moventi, poiché, secondo le dichiarazioni al punto b.111.1 le vittime erano partigiani o persone che li aiutavano. Non sono emersi altri punti per l’applicazione del paragrafo 211 StGB.

2) Nel contesto dell’uccisione di 27 civili italiani a Pievetta e Bagnasco il 25, 26, 28 luglio e il 22 agosto 1944, non si sono potute accertare le precise circostanze. Si è solo venuti a conoscenza che 8 persone sono state «uccise» e che altre 6 persone sono «morte». Solo da queste dichiarazioni non si può dedurre in nessun caso che chiaramente si sia perpetrata un’uccisione sleale e spietata, o condotta con mezzi pericolosi per la pubblica incolumità.

Sui motivi delle uccisioni non si sa nulla. A parte il fatto che per ora non esiste possibilità alcuna di ottenere prove certe, gli imputati ascoltati in istruttoria certamente si appellerebbero al fatto che le vittime erano parti­giani, o persone sospette di attività partigiana, oppure che le uccisioni, in via del tutto straordinaria, sono state misure di ritorsione o di rappresaglia.

Una simile giustificazione ha ottenuto un notevole supporto grazie alle informazioni dei testi S. e dott. E. e non può essere confutata. Dopo tutto, in nessun caso, si può provare con sicurezza la consistenza della fattispecie di assassinio. Il procedimento penale per omicidio non premeditato è caduto in prescrizione.

Tratto da

Le stragi nascoste

Di Mimmo Franzinelli

Editore Le Scie Mondadori 2002

Migliacci, Lusini – C’era un ragazzo

Francesco Franco Migliacci, Mauro Lusini

C’era un ragazzo
che come me
amava i Beatles e i Rolling Stones
girava il mondo
veniva da gli Stati Uniti d’America
Non era bello
ma accanto a sé
aveva mille donne se
cantava Help, Ticket to Ride,
o Lady Jane, o Yesterday,
cantava viva la Libertà
ma ricevette una lettera
La sua chitarra mi regalò
fu richiamato in America
Stop! Coi Rolling Stones!
Stop! Coi Beatles stop!
Man detto “va nel Viet-nam
E spara ai Viet-cong

tatatatatatatatata…………

C’era un ragazzo
Che come me
amava i Beatles e i Rolling Stones
Girava il mondo e poi finì
a far la guerra nel Viet-Nam
Capelli lunghi
non porta giù
non suona la chitarra ma
uno strumento
che sempre dà
la stessa nota “ta.ra.ta.ta

Non ha più amici,
non ha più fans,
vede la gente cadere giù,
nel suo paese non tornerà,
adesso è morto nel Viet-Nam.
Stop! Coi Rolling Stones!
Stop! Coi Beatles, stop!
Nel petto un cuore più non ha.
ma due medaglie o tre

tatatatatatatatatatata

Giuseppe Giusti – Sant’Ambrogio

Giuseppe Giusti

Sant’Ambrogio

Vostra Eccellenza che mi sta in cagnesco
Per que’ pochi scherzucci di dozzina,
E mi gabella per anti–tedesco
Perchè metto le birbe alla berlina,
O senta il caso avvenuto di fresco,
A me che girellando una mattina,
Capito in Sant’Ambrogio di Milano,
In quello vecchio, là, fuori di mano.

M’era compagno il figlio giovinetto
D’un di que’ capi un po’ pericolosi,
Di quel tal Sandro, autor d’un Romanzetto
Ove si tratta di Promessi Sposi…
Che fa il nesci, Eccellenza? o non l’ha letto?
Ah, intendo: il suo cervel, Dio lo riposi,
In tutt’altre faccende affaccendato,
A questa roba è morto e sotterrato.

Entro, e ti trovo un pieno di soldati,
Di que’ soldati settentrïonali,
Come sarebbe Boemi e Croati,
Messi qui nella vigna a far da pali:
Difatto, se ne stavano impalati,
Come sogliono in faccia a’ Generali,
Co’ baffi di capecchio e con que’ musi,
Davanti a Dio diritti come fusi.

Mi tenni indietro; chè piovuto in mezzo
Di quella maramaglia, io non lo nego
D’aver provato un senso di ribrezzo,
Che lei non prova in grazia dell’impiego.
Sentiva un’afa, un alito di lezzo:
Scusi, Eccellenza, mi parean di sego,
In quella bella casa del Signore,
Fin le candele dell’altar maggiore.

Ma in quella che s’appresta il sacerdote
A consacrar la mistica vivanda,
Di subita dolcezza mi percuote
Su, di verso l’altare, un suon di banda.
Dalle trombe di guerra uscìan le note
Come di voce che si raccomanda,
D’una gente che gema in duri stenti
E de’ perduti beni si rammenti.

Era un coro del Verdi; il coro a Dio
Là de’ Lombardi miseri assetati;
Quello: O Signore, dal tetto natio,ì
Che tanti petti ha scossi e inebriati.
Qui cominciai a non esser più io;
E come se que’ cosi doventati
Fossero gente della nostra gente,
Entrai nel branco involontariamente.

Che vuol ella, Eccellenza, il pezzo è bello,
Poi nostro, e poi suonato come va;
E coll’arte di mezzo, e col cervello
Dato all’arte, l’ubbie si buttan là.
Ma cessato che fu, dentro, bel bello
Io ritornava a star, come la sa:
Quand’eccoti, per farmi un altro tiro,
Da quelle bocche che parean di ghiro,

Un cantico tedesco lento lento
Per l’äer sacro a Dio mosse le penne:
Era preghiera, e mi parea lamento,
D’un suono grave, flebile, solenne,
Tal che sempre nell’anima lo sento:
E mi stupisco che in quelle cotenne,
In que’ fantocci esotici di legno,
Potesse l’armonia fino a quel segno.

Sentìa nell’inno la dolcezza amara
De’ canti uditi da fanciullo: il core
Che da voce domestica gl’impara,
Ce li ripete i giorni del dolore:
Un pensier mesto della madre cara,
Un desiderio di pace e d’amore,
Uno sgomento di lontano esilio,
Che mi faceva andare in visibilio.

E quando tacque, mi lasciò pensoso
Di pensieri più forti e più soavi.
Costor, dicea tra me, Re pauroso
Degl’italici moti e degli slavi,
Strappa a’ lor tetti, e qua senza riposo
Schiavi gli spinge per tenerci schiavi;
Gli spinge di Croazia e di Boemme,
Come mandre a svernar nelle Maremme.

A dura vita, a dura disciplina,
Muti, derisi, solitari stanno,
Strumenti ciechi d’occhiuta rapina
Che lor non tocca e che forse non sanno:
E quest’odio, che mai non avvicina
Il popolo lombardo all’alemanno,
Giova a chi regna dividendo, e teme
Popoli avversi affratellati insieme.

Povera gente! lontana da’ suoi,
In un paese qui che le vuol male,
Chi sa che in fondo all’anima po’ poi
Non mandi a quel paese il principale!
Gioco che l’hanno in tasca come noi. ―
Qui, se non fuggo, abbraccio un Caporale,
Colla su’ brava mazza di nocciolo,
Duro e piantato lì come un piolo.

Anonimo Ebreo – Freddo.

Anonimo Ebreo
Freddo.
Com’è spietata la notte invernale.
Me ne vado, immersa nei miei pensieri,
il cielo pieno di tetre nubi.
Freddo. Il vento ghiacciato inizia a ghignare,
pioverà tutta la notte. Il mio cuore si dirige
su di te, amore mio. Questo è un tale mondo,
nel quale la gente danza sui soldi e il vino purpureo
è versato in calici d’oro e d’argento, questo è un tale mondo…
Freddo. Com’è spietato il mio sgomento.
Quando tu sei andato via da me io sono rimasta qui sola.
Freddo. Verrà mai il momento? E forse che non arriverà presto?
Noi vivremo per il riscatto!
«Poiché sono un piccolo ebreo, canto una canzoncina,
poiché sono un ebreo, canto una canzone.
Quando iniziò la guerra, non avevamo di che cenare,
e gli ebrei iniziarono subito con la speculazione.
Uno viene ucciso dalle pallottole, un altro da una granata.
Ora la gente s’accorge che i ricchi vanno in rovina.
Ecco un ebreo – un industriale con la pancia grossa – Crash!
Cadde una bomba, e l’industriale non c’è più,
rimane solo il fumo. / subito ci fu penuria di monetine d’argento,
santo cielo: c’è la guerra nel mondo intero!»

Giulio Stocchi – Ormai li tirano su a pezzi

Giulio Stocchi

Ormai li tirano su a pezzi
dal fondo del mare i pescatori
braccia gambe tronconi
qualche volta una testa
smangiati dai pesci incrostati di sale
Poi li ributtano all’onda
Il loro nome affondò con loro
Hassan Mriam Alì
“Fleba il fenicio” dice il poeta
“dimenticò il guadagno e la perdita”
La perdita fu loro
Di altri il guadagno

Giulio Stocchi – Il Polpo

Giulio Stocchi

Il Polpo

Ha costruito un cerchio di conchiglie lucenti
in mezzo alle quali si adagia aperto come un fiore
cambiando colore a seconda dei riflessi del mare
Non è allarmato dall’intrusione piuttosto incuriosito
il polpo
Basterebbe un colpo di fiocina per distruggere lui e il suo regno
Così caddero le antiche città
Così si contorcono sotto “il grande fosforo imperale”
i corpi che ardono nei telegiornali
Con un guizzo delle pinne risalgo in superficie
più leggero

Otello Ferri – Si mangia con appetito, di fronte ai cadaveri

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Si mangia con appetito, di fronte ai cadaveri

Otello Ferri racconta bombardamenti, morti, feriti, cibo, orrori, vita in trincea a San Floriano del Collio (GO) il 21 aprile 1916

Una serata piacevole, con musica di organetto, è appena trascorsa a San Floriano del Collio in provincia di Gorizia, dove sono dislocati i pezzi di artiglieria ai quali è addetto anche Otello Ferri.

21 aprile 1916

L’ allegria della sera fu scontata dalla nera giornata del 21. Alla mattina, ben si capiva che eravamo in Aprile per il sonno che ci tratteneva a rimanere coricati, ma questo veniva subito annullato quando qualche fischio si faceva udire vicino a noi. Il tenente Rizzo mi ordinò di fare i coperchi per i fornelli della cucina e il porta mestoli. Presi due asce e cominciai a segare, il rumore prodotto dalla sega non mi fece sentire il sibilo di un proiettile in arrivo, ma sentì bene lo scoppio che fu fortissimo, in un momento fummo circondati dal fumo. Per prudenza lasciai tutto e andai in grotta. Era scoppiata a pochissimi metri da me, ne arrivarono parecchie altre con lo scopo di rompere la strada per intralciare il traffico dei carri e camion, che in gran quantità venivano alla notte per portare legname, munizioni, viveri, ecc… Sembrava tutto spento e calmo, volli andare al buco dove era caduta la granata per vedere se trovavo qualcosa; proprio mentre raspavo per terra, ecco che di nuovo un diavolo fischiava in aria e il suo ruggito rabbioso cresceva più si avvicinava a terra.

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Un drachen balloon, 1917 (fondo Arturo Busto)

Per me era inutile fuggire, rimasi in quel posto con rassegnazione, ma la fortuna ancora una volta mi fu alleata, ma non lo fu per certi altri poveri ragazzi. Difatti il grosso obice cadde proprio sopra al baraccone ove vi erano dentro più di un centinaio di soldati. Per metà il baraccone crollò seppellendo parecchi feriti che non erano riusciti a fuggire. Dopo poco vedemmo parecchie coppie di soldati portare fuori i primi morti e feriti, quest’ultimi venivano portati al posto di medicazione in una baracca distante 60 metri. La disdetta ancora non era appagata, un altro fischio e scoppio si fecero sentire, cadendo ove i feriti si medicavano; un saldato che era andato a vedere questi e che se ne stava con la gavetta in mano, fu lanciato con nostro raccapriccio a 10 metri di altezza, ricadendo a terra come uno straccio, rimase ucciso sul colpo. Intanto la pasta in acqua era pronta, carne non si poteva mangiare a causa della vigilia. Incredibile raccontarlo ai borghesi ignari della guerra, ma si mangiò con appetito, anche se questo se ne andava ogni qual volta si rivolgeva lo sguardo ai cadaveri, distesi sui sassi con la faccia coperta da sacchi, e con i vestiti strappati da dove ancora sortiva il sangue fumante. La prima granata cadde dove Amedeo dormiva quando era qua. La seconda per poco non offese il mio nuovo compagno Betti, che più tardi venne a trovarmi, raccontandomi la brutta sorpresa toccatagli, di essersi trovato all’atto dello scoppio con un uscio sul groppone. Più tardi ci lasciammo, mentre i Drachen Ballon si abbassavano in lontananza, scomparendo dietro le prime alture di sbarramento del Friuli. Dopo aver avvisato la sentinella che mi svegliasse alle 3.00, mi coricai assieme ai miei tre compagni di casa. G. Brutto.

Giordano Campagnolo – Verso la libertà –

Verso la libertà di Giordano Campagnolo

Sono nel campo di concentramento di Bolzano, appoggiato al reticolato che divide il mio blocco (blocco H, pericolosi) dagli altri blocchi, e c’è un’eccitazione in giro, in quanto si dice da «Radio scarpa» che la Croce Rossa Internazionale veglia sul campo stesso. Ad un tratto vedo, nello spazio riservato alle guardie, i componenti della banda Carità che fraternizzano con i loro camerati delle SS tedesche. Passa il professor Meneghetti, lo chiamo per comunicargli ciò che ho visto; ma mi risponde che li ha già affrontati beffeggiandoli. Col suo carattere deciso ed orgoglioso ciò era inevitabile. Un bel coraggio! e glielo dico (siamo sempre noi i prigionieri), ma lui imperterrito mi fa: «Senti, Campagnolo, era il minimo che potessi fare con quelle canaglie! ». E se ne va stizzito. agitando le braccia. Verso sera mi vien dato il foglio di uscita. Con una ventina di compagni vengo fatto salire su un camion che ci porta al Passo della Meldola. il 29 aprile 1945 e siamo liberi. Passo la notte in un fienile a Ruffré ed al mattino ritorno a Bolzano. Mi apposto nei pressi del campo con la speranza di trovare degli amici con cui fare il viaggio verso casa, e mi accorgo che tutti i nostri ex carcerieri entrano in una villetta e ne escono in abiti civili. Non so che fare, ma poiché devo fare qualcosa, dopo una altra sbirciata, mi dirigo verso la zona industriale: allo Stabilimento Lancia mi rivolgo al portiere chiedendo di poter parlare con qualcuno della commissione interna. Viene subito un bel giovanotto, gli dico chi sono e da dove vengo, avvertendolo che potrei anche essere un agente provocatore e pertanto lo prego di non compromettersi in alcun modo. Gli esprimo l’urgenza di segnalare a qualcuno quei personaggi, già segnalati da Radio Londra come criminali di guerra, perché li si possa pedinare ovunque essi vadano. Capisce subito mi era parso un tipo molto sveglio) e mi affida ad un uomo in bicicletta, informandomi che stanno approntando un pullman per portare il professor Meneghetti ed altri in Svizzera, e mi chiede se voglio approfittarne. Ricuso in quando ritengo che ho ancora quel dovere da assolvere. Ritorno perciò alla villetta e segnalo a l’uomo molti dei nostri compari. Faccio ulteriori raccomandazioni a quella cara persona e poi mi dirigo in Val Sarentino. Sono fra compaesani. A notte cominciano le scaramucce che, dopo alterne vicende, porteranno il comando tedesco del generale von Senger und Etterlin ad aprire le trattative tramite il vicentino Rodella, conclusesi con il controllo della città da parte dei partigiani e il libero passaggio alle truppe tedesche in ritirata. Il 16 maggio rientro a Vicenza. Alcuni giorni dopo leggo sui giornali che una pattuglia americana delle OSS ha fatto irruzione in un rifugio dell’alta Val di Siusi uccidendo il maggiore Carità e ferendo la sua amante

 

 

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Massimo Coltrinari – Prigionieri di guerra italiani

Massimo Coltrinari

Prigionieri di guerra italiani

700.000 militari italiani prigionieri in Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Unione Sovietica, 650.000 internati in Germania. Le condizioni di detenzione. Il ritorno nel nostro Paese

La guerra, voluta da Mussolini, doveva finire nell’estate del 1940 con la resa dell’Inghilterra. In breve ci si sarebbe messi al tavolo della pace e l’uomo di Predappio avrebbe svolto il ruolo di mediatore tra le sconfitte democrazie occidentali e il leone tedesco. Secondo certe leggende, stando dalla parte del vincitore, Mussolini avrebbe dovuto svolgere un ruolo di contenimento alle pretese quasi illimitate della Germania.

Ma, contro ogni aspettativa, la Gran Bretagna resistette e tutto ciò non avvenne; il nostro Paese dovette così affrontare una guerra a cui non era assolutamente preparato.

Le inevitabili sconfitte cui andò incontro portarono, tra lutti e rovine, anche a lasciare nelle mani del nemico oltre 700.000 militari prigionieri che furono dispersi in tutte le regioni del mondo. Prigionieri italiani furono detenuti per la maggior parte dalla Gran Bretagna (circa 400.000), dagli Stati Uniti (circa 125.000), dalla Francia (circa 50.000) e dall’Unione Sovietica il cui numero, al termine del conflitto, risultò essere di circa 12.000 prigionieri anziché i previsti 60-80.000. A questa massa di uomini – il fior fiore delle classi di leva – si andarono ad aggiungere altri circa 650.000 militari italiani, catturati dai tedeschi dopo l’armistizio ed internati in Germania.

La gestione dell’uscita dalla guerra fu così disastrosa che dovemmo pagare anche questo enorme prezzo in termini di sofferenze e privazioni. In più i militari catturati dai tedeschi non ebbero nemmeno lo status di prigionieri secondo la convenzione di Ginevra del 1929, ma lo status di «internati», essendo considerati «non belligeranti» non essendoci nel settembre 1943 tra Italia e Germania uno stato di guerra dichiarato.

Questa enorme massa di prigionieri, che coinvolgeva tantissime famiglie in Italia, non poteva non avere, al momento del rimpatrio, un suo peso ed una sua valenza sulle scelte che il nostro popolo andò ad affrontare per darsi una vita istituzionale rispondente alle proprie necessità. In altri termini i prigionieri di guerra e gli internati, che nel loro totale, secondo la relazione Facchinetti del 1947, ammontarono a 1.350.000 considerando tutti gli aspetti in cui la prigionia italiana si articolò nella seconda guerra mondiale, al momento del loro ritorno in Patria portarono un loro contributo diretto o indiretto alla rinascita della vita politica del nostro Paese. Dal maggio 1945 al febbraio 1947 quasi tutti i prigionieri italiani furono restituiti all’Italia e ognuno ebbe la possibilità di partecipare alle decisioni di quegli anni difficili e determinanti. Così, a seconda dell’esperienza vissuta, i prigionieri di guerra poterono dare un loro contributo.

Il documento di un militare italiano prigioniero degli inglesi (da http://m.coratolive.it/rubriche/334/ seconda-guerra-mondiale-lettere- dalla-prigionia-di-soldati-coratini)

Iniziamo da quelli più numerosi, quelli in mano alla Gran Bretagna. La prigionia inglese fu severa, non certamente piacevole, ma corretta. Gli italiani ebbero modo di vedere da vicino il modo di essere degli inglesi nel mondo e come stavano gestendo il loro Impero. Una esperienza sicuramente positiva fu quella dei prigionieri in Kenya, in Sud Africa, a Ceylon, in Australia e, in parte, in India; un po’ meno per quelli che inizialmente furono tenuti nel Nord Africa ed in Palestina o inviati in Inghilterra dove anche questi ultimi ebbero modo di vedere lo stile di vita anglosassone. In linea generale ne trassero insegnamenti favorevoli ed un senso di ammirazione – non certo elevato ma sostanzialmente reale – del modo di vivere inglese. Saranno costoro che in Italia – in linea di massima – aderiranno con sincerità ai principi democratici di stampo occidentale.

Lo stesso discorso vale per i soldati italiani prigionieri degli Stati Uniti. Gli statunitensi al momento della cattura avevano assunto – e questo non solo nei confronti degli italiani ma anche dei giapponesi e dei tedeschi – un atteggiamento pedagogico. Erano convinti che questi soldati, educati nel clima della dittatura, potessero essere orientati su principi democratici; sicuramente se messi in contatto con il sistema di vita americano, i prigionieri, una volta rientrati nel loro Paese, sarebbero stati ottimi veicoli di propaganda per gli Stati Uniti.

Con questo atteggiamento la prigionia negli Stati Uniti fu umana, accettabile e, se paragonata a tutte le altre, la migliore.

Sbarco di prigionieri italiani provenienti dai Paesi anglo-americani

II segno cambia completamente con le altre due prigionie, quella sovietica e quella francese. Quella sovietica diede vita nel 1945-’47 a roventi polemiche che incisero molto nella vita politica di quegli anni. Da una parte si sosteneva che le tesi espresse dall’URSS erano accettabili, dall’altra si era convinti, davanti alla mancanza di informazioni, che grandi masse di italiani erano ancora tenute prigioniere nell’Unione Sovietica, senza nessuna possibilità di restituzione.

Nella realtà – ormai è acclarato – oltre il 90% dei prigionieri caduti, dopo la ritirata del gennaio 1943, in mano sovietica, morì nei mesi di febbraio, marzo, aprile e maggio 1943.

Le cause di ciò sono ben descritte da chi subì la prigionia russa fin dagli anni 50: condizioni ambientali orrende, tifo, mancanza di alimentazione, malattie, interminabili marce nella neve, campi di concentramento in condizioni igieniche pessime; tutto contribuì ad elevare il tasso di morte dei nostri prigionieri. E ciò senza colpe specifiche da attribuire ai sovietici impegnati in una guerra per la sopravvivenza; non c’era spazio per attenzioni o risorse da dedicare ai prigionieri nemici. In Italia rientrarono circa 12.000 soldati dalla Russia dei previsti 60-80.000.

Le polemiche che, come detto, accompagnarono questi rientri, misero un po’ in ombra l’altra grande tragedia: quella dei prigionieri italiani in mano francese.

Giuridicamente i francesi di De Gaulle non avrebbero dovuto tenere prigionieri soldati italiani in quanto l’Italia con la Francia aveva concluso un armistizio. Ma De Gaulle dettò le sue regole e non solo trattenne come prigionieri quei soldati italiani che le sue truppe avevano catturato in Nord Africa, ma pretese – per l’economia dell’Algeria e della Tunisia, disse – altri 15.000 soldati italiani catturati da americani ed inglesi. Questa prigionia francese fu veramente crudele. Rifacendosi alla cosiddetta «pugnalata alla schiena» del 1940 i francesi commisero sui nostri connazionali ogni sorta di sopruso, non accettando nemmeno in linea teorica di avere gli italiani come loro collaboratori, come invece fecero americani ed inglesi, e usando nei campi un trattamento che non è secondo a quello dei campi tedeschi. Sia per i reduci dalla prigionia russa che da quella francese, si manifestò, una volta arrivati in Italia, un’avversione così radicata verso i loro detentori. Saranno questi reduci che – imputando le loro sofferenze a chi nel 1940 dichiarò la guerra – negli anni del dopoguerra, opteranno per una scelta rinnovatrice e democratica.

Si può anche dire che se l’Italia non è scivolata nella guerra civile, nello scontro armato – come era facile accadesse soprattutto nel momento di massima crisi con l’attentato a Togliatti – in parte lo si deve anche al senso di misura e di equilibrio di questa massa di giovani e meno giovani ex combattenti, che attraverso le sofferenze della guerra e della prigionia non era più disposta a risolvere i contrasti interni con l’uso delle armi.

L’epoca delle avventure, che loro avevano pagato duramente, era per fortuna terminata.

Da “Patria indipendente” n. 10/11 del giugno 1996

March Strand – Il cunicolo

March Strand
Il cunicolo
Un uomo sta fermo

davanti a casa mia
da giorni. Lo spio
dalla finestra del
salotto e la sera,
non riuscendo a prendere sonno,
con la torcia elettrica
illumino il prato.
È sempre lì.
Dopo un po’
socchiudo appena
la porta e gli ingiungo
di andarsene dal giardino.
Strizza gli occhi
e geme. Sbatto
la porta e mi precipito
in cucina, poi su
in camera, poi di nuovo giù.
Piango come una scolaretta
e faccio gesti osceni
alla finestra. Scrivo
messaggi enormi sul proposito
di suicidarmi e li espongo
in modo che li legga facilmente.
Distruggo gli arredi
del salotto per dimostrare
che non posseggo nulla di valore.
Lui resta impassibile
e allora decido di scavare un cunicolo
che sbocchi nel giardino del vicino.
Separo lo scantinato
dai piani superiori
con un muro di mattoni. Scavo
come un matto e il cunicolo
è subito finito. Lascio sotto
il piccone e la pala,
sbuco davanti a una casa
e resto lì troppo stanco
per muovermi o parlare, sperando
che qualcuno mi aiuti.
So di essere osservato
e a tratti sento
la voce di un uomo,
ma non succede niente
e sono giorni che aspetto.
da “Dormendo con un occhio aperto”