Gianfranco Musco

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I Compagni di Firenze

Memorie della Resistenza 1943 / 1944

Istituto Gramsci Toscano

1984

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Gianfranco Musco

Gianfranco Musco, nato a New York il 22 gennaio 1910, si è laureato a Genova nel 1934 in fisica pura. Nel 1935 ,entrò alle Officine Galileo di Firenze. Nel dicembre del 1945 fu nominato, insieme all’ing. Giulio Martinez, direttore delle Officine Galileo, incarico che tenne fino al 1952, quando, nel clima della « guerra fredda » fu allontanato dalla Galileo. Nel 1943 aveva aderito al Partito Comunista. Dal novembre 1943 rappresentò con continuità il partito nel CTLN.

Nei giorni della Liberazione di Firenze prese parte come membro del Comando della III zona di Firenze alla cacciata dei tedeschi. Dopo la guerra ha fatto parte della Commissione Nazionale del PCI. Dal 1946 è stato consigliere comunale di Firenze e Assessore all’Urbanistica e ai Lavori Pubblici nell’amministrazione Fabiani.

Lasciata Firenze nel 1956, si dedicò in Sicilia al settore minerario. Per la sua partecipazione alla Resistenza nel 1974 la Regione Toscana gli ha conferito una medaglia d’oro.

Fu a Genova, negli anni dell’Università che insieme a due miei compagni di studi, Adriano Agostini e Luigi Caratti, maturai i miei sentimenti di opposizione al fascismo. Con gli stessi compagni avevo compiuto il liceo, e durante quegli anni noi avevamo rivolto la nostra attenzione all’opera risorgimentale e al pensiero politico di Giuseppe Mazzini. Fin da quel tempo ci era sembrato che l’Italia dei Savoia non corrispondesse alle aspirazioni e alle aspettative degli uomini del Risorgimento. Nel 1930 decidemmo di aderire alla Comunità Mazziniana Nazionale, con sede a Genova in un vicoletto posto fra via San Luca e Caricamento. Si trattava di un sodalizio che vivacchiava con qualche difficoltà nel culto del grande apostolo genovese. Ne era segretario un vecchio mazziniano, Umberto Riparbelli, che dirigeva il giornaletto dell’associazione, « Il Grido d’Italia ». In breve tempo noi divenimmo collaboratori assidui di quel periodico.

In quel vecchio sodalizio la nostra presenza costituì una ondata di giovinezza. Ma chi ci avvicinò al momento operaio fu Franco Antolini, un fervente antifascista, di qualche anno di noi più vecchio; egli era cognato di Agostini per averne sposato una sorella. Quelli furono anni di intense letture e di febbrili illusioni. La frequenza della Comunità Mázziniana, che aveva diramazioni a Milano e in Toscana, ci consenti di venire in contatto con alcuni elementi antifascisti aderenti alla stessa Comunità, i quali operavano a Milano. I legami con questi elementi si intensificarono quando i miei compagni di studi, dopo il biennio di ingegneria presso la facoltà di scienze, si trasferirono a Milano presso quel Politecnico. Nel 1932 Agostini e Caratti, con gli altri antifascisti della Comunità di Milano vennero arrestati dall’OVRA. Ma dopo diversi mesi di istruttoria, essi furono prosciolti, mentre gli altri antifascisti arrestati ricevettero pesanti condanne da parte del Tribunale Speciale, perché risultarono aver preso contatti con fuoriusciti antifascisti che operavano in Svizzera. Il fatto ebbe però conseguenze gravi nei nostri rapporti con la Comunità Mazziniana, la quale per non avere difficoltà con le autorità fasciste, appena avvenuti gli arresti ci allontanò dal sodalizio.

Conseguita la laurea, dopo 10 mesi di disoccupazione mi trasferii a Firenze, dove dal l’ settembre 1935 avevo trovato lavoro alle Officine Galileo. Nel 1937 fui inviato dalla stessa Galileo a frequentare il corso di specializzazione biennale in ottica presso l’Istituto Nazionale di Ottica di Arcetri. Conseguita la specializzazione e rientrato in Officina, nel 1939 venni posto a capo della Sezione Montaggi Campioni e Collaudi. In questa nuova posizione entrai un po’ alla volta in confidenza politica con alcuni operai e tecnici di quella Sezione, e in particolare con Martino Aliani e Mario Fardi, passati dopo qualche mese a impiegati tecnici della stessa Sezione. In seguito essi divennero due miei preziosi collaboratori nello sviluppo della lotta politica nelle Officine Galileo. Fu un altro tecnico della mia Sezione, Dini, anch’egli ex operaio, che nel luglio del 1943, essendo venuto a conoscenza dei miei sentimenti politici, mi mise in contatto con Rigoletto, un attivista del Partito Comunista, con bottega d’artigiano nei pressi del Mercato Centrale.

Questi, a sua volta, mi presentò a Marco De Simone, un giovane laureato in lettere, calabrese, che nel vuoto di molti compagni comunisti finiti in carcere negli anni del regime fascista, aveva assunto un ruolo di primo piano nella vita del Partito a Firenze dopo la caduta del fascismo. Di questo Comitato facevano parte con Marco De Simone: Roberto Martini, Zelmíro Melas, Bruno Schacherl, Alessandro Susini e Paolo Tíncolíní, Successivamente, in sostituzione di Tincolini, passato ad altro incarico, subentrò Luigi Sacconi. Le riunioni di questo Comitato avvenivano molto spesso in casa di Susini, un ex operaio delle Officine del Gas, dalle quali era stato licenziato per ragioni politiche. La sua casa era posta in via degli Alfani. Un altro punto di riferimento era costituito da un ristorante in via Guelfa, posto nei pressi di via Santa Reparata. Nei lunghi mesi dell’occupazione tedesca questo ristorante fu frequentato da diversi antifascisti; io vi incontrai alcuni compagni che nell’agosto erano stati dimessi dalle carceri fasciste, e anche alcuni uomini del Partito d’Azione, come Tristano Codignola e Carlo Furno.

Dopo l’8 settembre 1943, il disfacimento delle strutture militari della monarchia e la conseguente occupazione tedesca sconvolsero le prospettive di quanti nei 45 giorni dalla caduta del fascismo si erano messi in evidenza per cercare di fare ripristinare la libertà e le libere istituzioni culturali e politiche che la dittatura aveva affossate. Nell’agosto i partiti non si erano ancora formalmente costituiti, e gli elementi superstiti più rappresentativi di questi partiti avevano dato vita fin dal 1942, in previsione dell’inevitabile precipitare degli eventi bellici, alla costituzione di un Comitato Interpartitico formato dal Partito Comunista, dal Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, dal Partito di Azione, dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Liberale Italiano. Questo Comitato Interpartitico dopo il 25 luglio intensificò la sua azione, uscendo allo scoperto. Dopo l’8 settembre con l’armistizio e la conseguente occupazione tedesca dell’Italia centro-settentrionale, quello stesso Comitato si trasformò in Comitato Toscano di Liberazione Nazionale. Nel mese di agosto i suoi membri avevano operato troppo allo scoperto con contatti anche con l’autorità prefettizia; pertanto ragioni precauzionali consigliavano che i partiti sostituissero nel costituendo CTLN quei membri che si fossero messi troppo in evidenza. Ad accelerare questa esigenza concorse un gravissimo infortunio occorso al Comitato Militare Interpartitico, per la Toscana che, dopo la liberazione di Napoli (30 settembre 1943), era stato costituito a iniziativa dello stesso Comitato Interpartitico. li Comitato Militare era composto da uomini politici e da militari di professione. Fu proprio la mancanza di precauzione di uno di questi militari (il ten. col. Guido Frassineti) che fece cadere il Comitato Militare involontariamente in un’imboscata: il 1° novembre il Comitato era stato convocato da Paolo Barile del P. d’A. in una casa posta in via Masaccío, già sede del Comando militare del Partito di Azione. La Polizia repubblichina, a seguito della delazione di una spia infiltratasi astutamente fra i cospiratori, pedinò alcuni membri del Comitato Militare, e così poté individuare la sede della riunione: accerchiato il caseggiato, arrestò tutti quelli che vi erano già convenuti; in particolare furono arrestati Paolo Barile del P.d’A. e Adone Zoli della D.C., e tutti i membri militari. Gli altri membri civili (Medici Tornaquinci, Berti e Ragghianti) riuscirono a sottrarsi all’arresto, perché nell’avvicinarsi al luogo della riunione notarono la presenza della polizia repubblichina. Questi arresti suscitarono viva apprensione nei partiti democratici e anche negli stessi membri dell’istituendo CTLN. Il Partito comunista, che era indubbiamente il più navigato nell’azione cospirativa per la sua lunga ininterrotta esperienza nella lotta clandestina, decise di sostituire il suo rappresentante, che fino a quel momento era stato Giulio Montelatici.

Lo stesso Montelatici si sentiva poco sicuro, per la sua troppo palese attività politica assunta nei 45 giorni c avevano preceduto l’armistizio.

Intanto la guida del Partito Comunista a Firenze era stata assunta da vecchi compagni che, verso la fine di agosto, erano stati dimessi dalle carceri. Fra questi compagni si trovavano Giuseppe Rossi e Mario Fabiani. In relazione alla mia presenza nel Comitato degli intellettuali comunisi, De Simone mi aveva messo in contatto con Fabiani, e fu proprio quest’ultimo che, essendo a conoscenza del ruolo politico che io stavo svolgendo alla Galileo in seno alle maestranze, mi propose un incontro con Rossi. L’incontro avvenne ai primi di novembre in Piazza della Signoria: Rossi, che era accompagnato da Montelatici, in breve mi propose di assumere la rappresentanza del Partito nel CTLN, in sostituzione di Montelatici, il quale per esigenze precauzionali si doveva nascondere. Le ragioni che avevano indotto il Partito ad affidare a me questo delicato incarico erano più d’una: innanzi tutto piaceva a Rossi che il Partito fosse rappresentato da un membro politicamente attivo nella più grande fabbrica della Toscana, quale a quell’epoca erano le Officine Galileo; inoltre, per la mia provenienza da Genova, a Firenze non ero sospettato di antifascismo; infine, avendo io sfollato la mia famiglia a Talla nel Casentino, ero libero da preoccupazioni immediate di ordine familiare, che avrebbero potuto costituire una remora alla mia libertà di movimento. Accettai l’incarico e lo stesso Montelatici mi diede le istruzioni per potermi recare alla lìnma riunione indetta dal CTLN.

Questa prima riunione avvenne in via Maragliano, in un vecchio cascinale posto nel breve tratto in salita che portava al vecchio Ponte di San Donato, più tardi distrutto dai tedeschi in ritirata. Al Comitato io mi presentai con il nome di Viviani. Il CTLN risultò -composto di 5 membri, così distribuiti fra i cinque partiti: Gianfranco Musco per il PCI, Foscolo Lombardi per il PSIUP, Enriques Agnoletti lier il Pd’A, Francesco Berti per la DC e Marino Mari per il PLI. Nel periodo in cui frequentai il CTLN come unico rappresentante del Partito Comunista, alcuni partiti si fecero rappresentare alternativamente da più uomini: così per il Partito Democristiano intervennero Berti e Vittore Branca, e per il Partito Liberale, al posto del Mari, subito sostituiti, intervennero Eugenio Artom, Aldobrando Medici Tornaquinci e Guglielmo di San Giorgio. Il Mari era noto a Firenze come antifascista, e dopo quella prima riunione non lo vidi più. Egli cercò di sottrarsi con notevoli peripezie alla cattura da parte dei repubblichini, ma alla fine di marzo del 1944 fu arrestato e deportato a Mathausen, da dove non fece più ritorno. Lombardi era un fedele collaboratore del vecchio Gaetano Pieraccini; egli lavorava presso l’Editrice Le Monnier, che in breve divenne un punto di riferimento del CTLN. Era un uomo attivissimo, mai dominato da timori, e questo lo portava ad assumere scarse precauzioni di carattere cospirativo. Intuì che il mio vero nome non era Viviani, e da vari atteggiamenti capii che non poteva tollerare che io gli nascondessi la mia vera identità. Ma la questione stava nel fatto che l’esperienza aveva insegnato ai comunisti che nella lotta clandestina le precauzioni non dovevano accogliere eccezioni, se non si voleva incorrere prima o dopo in qualche grosso guaio; in particolare la scoperta del primo Comitato Militare Interpartito aveva creato disagi anche in coloro che non erano stati arrestati, perché dopo quegli arresti nessuno poteva sapere se tutti gli arrestati sarebbero riusciti a sopportare le sevizie a cui i repubblichini solevano sottoporre coloro che cadevano nelle loro mani. Sotto questo aspetto il lavoro cospirativo con i rappresentanti di partiti di diversa esperienza cospirativa era da considerarsi uno dei compiti che offriva la maggiore incognita e i maggiori pericoli di sorprese. Per questa ragione le riunioni del CTLN non avevano mai luogo in una medesima sede, e i partiti si assumevano a turno il compito di procurare la sede per la seduta successiva. 1 questo senso, quando toccò a me di indicare la sede de riunioni, io mi appoggiai a compagni operai della Galileo che mi davano il Maggiore affidamento di riservatezza; c nonostante ebbi l’accorgimento di non rivelare mai ad essi quale era l’organismo politico che ospitavano.

I contatti col Partito Democristiano erano per me i più facili attraverso il compagno Roberto Martíní, che e figlio dell’Avv. Augusto Mattini, uno dei massimi esponenti della DC di Firenze. Roberto era un uomo attivissimo, pieno di risorse: a lui il Partito Comunista faceva capo per procurarsi i documenti falsi per coloro che ne avessero avuto bisogno nell’esplicazione della loro attività cospirativa; ciò era soprattutto indispensabile per quei compagni che erano ricercati dalla polizia repubblichina. Un gran numero di documenti vennero inoltre forniti agli ebrei, onde sottrarli alla cattura, in quanto era norma dei nazisti di arrestare e inviare ai campi di sterminio in Germania quanti ebrei essi riuscivano a catturare. Io stesso — come vedremo — mi procurai dei documenti per ebrei che erano legati a famiglie dei dipendenti delle Officine Galileo. Il padre di Roberto era un ex deputato del Partito Popolare Italiano, ed era stato anche sottosegretario nel primo Governo di Mussolini, fra i rappresentanti in quella coalizione del PPI. Egli aveva il suo studio in via dello Studio, insieme ad altri professionisti democristiani: l’Avv. Paganelli, il Dr. Berti, e il professore di lettere Vittore Branca, un giovane proveniente dal Veneto.

Io ebbi molte occasioni di incontrarmi col padre di Roberto per il quale nutrivo una profonda stima e simpatia. L’Avv. Martini abitava a Scandicci in una vecchia villa di famiglia, dove mi recai più volte con Roberto. In una fredda sera di gennaio del 1944 vi passai anche la notte insieme a Cesare Dami, un altro compagno amico mio e di Roberto.

Il CTLN non teneva rapporti diretti con i Comitati di Liberazione delle altre Regioni italiane occupate dai tedeschi. Le informazioni sulle attività di questi comitati ci arrivavano attraverso i partiti. Io tenevo informato il mio partito dei lavori del CTLN con incontri periodici con Giuseppe Rossi. Questi incontri avvenivano generalmente per strada, come era consuetudine nella lotta clandestina del PCI. Qualche rara volta essi avvennero in casa mia ino via Lambruschini ; ma Rossi agiva con estrema precauzione, e non amava incontrarmi all’interno di locali dove sarebbe stato più facile cadere in un agguato. Per rendersi inriconoscibile, egli si era tinto i capelli che in carcere erano divenuti tutti bianchi, e si vestiva con molta ricercatezza, in contrasto col suo temperamento che, dopo la Liberazione, mi apparve piuttosto trasandato. Dopo il gennaio 1944, a seguito dello sbarco alleato ad Anzio, nel CTLN si cominciò a sperare in una rapida avanzata degli alleati; e. il Comitato si preoccupò seriamente delle decisioni che avrebbe dovuto affrontare nella fase culminante dell’azione militare e al momento di assumere il governo della città . A questo fine il Partito d’Azione presentò una bozza di regolamento sui compiti che il CTLN avrebbe dovuto assolvere in quella fase e sulle prescrizioni da suggerire alla cittadinanza durante il giorno del trapasso dei poteri. Dopo un accurato esame delle proposte del Partito d’Azione, io mi assunsi l’incarico di redigere sulla base della discussione ,avvenuta un testo definitivo da sottoporre al CTLN nella seduta successiva; il che feci. Il testo definitivo, approvato dal Comitato, fu passato alla stampa clandestina per renderlo pubblico. Questa iniziativa andò in porto nel febbraio del 1944, quando eravamo ancora lontani dalla liberazione. Il documento fu poi alla base del proclama sui poteri di Governo che il CTLN approvò il 15 giugno 1944, In quello stesso tempo per iniziativa del Partito Liberale furono confezionati dei bracciali tricolori che i membri del CTLN avrebbero dovuto portare nei giorni dell’insurrezione, al momento dell’assunzione del potere a Firenze. purtroppo, gli alleati rimasero attestati ad Anzio e la prospettiva di una ritirata tedesca lungo la penisola ancora una volta si allontanò.

Rientrate le speranze di una rapida evoluzione della situazione militare, il lavoro cospirativo riprese con lena .in quei mesi la lotta politica si era resa sempre più cruda, per l’inasprimento delle rappresaglie repubblichine attraverso la famigerata banda Carità, la quale conduceva guerra spietata verso gli arrestati, che venivano sottoposti a interrogatori con inaudite torture al n. 67 di via Bolognese in un edificio che fu presto soprannominato con l’eufemia « Villa triste ». Tutto questo portò all’intensificarsi de lotta partigiana, che in città veniva condotta dal PCI rapidi colpi di mano ad opera dei GAP e nei territori 1imitrofi dalle formazioni partigiane. Alcune di queste formazioni appartenevano al P.d’A. Gli altri tre partiti, almeno nel periodo in cui io rappresentai il PCI nel CTLN, non disponevano di proprie formazioni militari e svolgevano soprattutto un’azione politica-cospirativa. Occorre però precisare che i partigiani aderenti alle formazioni promosse PCI e dal P.d’A. non facevano tutti parte di questi due partiti. La riprova che solo PCI e P.d’A. disponessero di formazioni militari si ebbe quando giunse un aiuto finanziario da parte del Comitato di Liberazione dell’Alta Italia (CLNAI), costituito da una somma di un milione di lire in biglietti da mille, che mi sembra sia stata portata a Firenze da Medici Tornaquinci. Fino a quel momento il Comitato non aveva mai affrontato spese dirette, avendo funzionato soprattutto come organo di coordinamento delle azioni svolte da ciascun partito; pertanto le spese di carattere militari e di sostentamento di quanti venivano a trovarsi nella necessità di dover essere aiutati anche economicamente nella loro azione cospirativa venivano sopportate direttamente da ciascun partito, anche se in modo e in misura diversa, indipendentemente dalla consistenza dei mezzi e del numero degli uomini che ciascun partito era riuscito a mobilitare.". Al CTLN, dopo un rapido esame sull’impiego del denaro pervenutoci, si convenne di dividere la somma fra quei partiti che erano in grado di esercitare direttamente l’azione militare. Il Partito Socialista e quello Liberale dichiararono che non avevano bisogno di quel finanziamento non disponendo in Toscana fino a quel momento di unità combattenti. Pertanto la somma venne ripartita in parti uguali fra il Partito Comunista, il Partito d’azione e il Partito Democristiano. Non mi consta che quest’ultimo in quel tempo avesse nei territori circostanti Firenze unità combattenti; esso però esercitava un’ampia azione di protezione verso molti perseguitati politici, che si trovavano in difficoltà economiche, a cui offriva assistenza attraverso le associazioni e le comunità religiose. Al Partito Comunista toccarono 333.000 lire, che io consegnai immediatamente a Rossi, al nostro primo incontro. In questa fase una delle iniziative assunte dal CTLN fu quella di ricostituire il Comitato Militare a cui affidare la preparazione dell’insurrezione cittadina, nel momento decisivo dell’azione militare e di esercitare nello stesso tempo un’azione di coordinamento fra le varie formazioni armate promosse in città e fuori dai partiti. La proposta sotto ogni aspetto era valida, ma si presentava ardua da realizzare perché la lotta non doveva e non poteva uscire allo scoperto se non al momento decisivo, e nessuno dei partiti operanti in Toscana era disposto a rendere nota la dislocazioneavr delle proprie unità. Ad ogni modo si convenne di nominare il Comitato Militare del CTLN, in cui ogni partito avrebbe designato un suo rappresentante. Il Partito Comunista su questa iniziativa si dimostrò scettico, e lasciò a me il compito di designare un compagno con cui avessi facilità di contatti, vista anche la molteplicità dei miei impegni. Io scelsi un ingegnere della Galileo, rientrato a Firenze dallo stabilimento di Taranto durante i 45 giorni: si trattava dell’Ing. Rosada, che da diversi mesi era in contatto politico con me, e nelle Officine collaborava col PCI. dopo alcuni incontri lo misi in contatto con gli altri membri dell’istituendo Comitato Militare, il quale questa volta era composto solo da rappresentanti di partito. Rosada era veneto e pertanto era completamente sconosciuto a Firenze; come pure era completamente insospettato da parte della direzione della Galileo. Con lui mi potevo vedere in fabbrica durante le ore di lavoro, senza alcuna difficoltà o particolare precauzione. Più tardi, quando le Officine portarono avanti il loro graduale trasferimento nell’Italia del Nord, egli, che era veneto, per esigenze familiari dovette seguirle; ma continuò la sua azione antitedesca nella nuova sede di Battaglia Terme, in provincia di Padova. Al suo posto nel Comitato Militare subentrò Luigi Gaiani, che già faceva parte del Comitato Militare del PCI.

Con l’approssimarsi del mese di marzo, il CLNAI programmò uno sciopero generale nell’Italia occupata, e il CTLN si interessò alla sua riuscita, ma l’organizzazione venne lasciata all’iniziativa e alla capacità organizzativa dei singoli partiti Nella riuscita di questa azione il PCI ebbe un peso determinante per il grande seguito che raccoglieva nelle fabbriche della città e della provincia, dove lo sciopero avrebbe dovuto effettuarsi nelle forme più clamorose. Sulla riuscita di questo sciopero ritornerò parlando della mia partecipazione alla lotta nelle Officine Galileo; ma non è dubbio che il successo di questa azione di protesta e imperniata essenzialmente sulle due maggiori fabbriche cittadine: la Galileo e la Pignone. Il Partito Comunista affidò l’organizzazione dello sciopero al Comitato del Settore Industriale (CSI) che era diretto da Fabiani. Il CSI era come posto da elementi provenienti dalle maggiori fabbriche cittadine e dei comuni vicini: per la Galileo vi partecipavano Nello Bernini, Alfredo Mazzoní e Leo Negro, per la Pignone Otello Bandini, Tiberio Ciampi, Nello Secci e Paolo Tincolini; per l’Azíenda del Gas Sergio Bastianini, per la De Michelí Vasco degli Innocenti, per gli artigiani Bruno Bertini e Fosco Ricci. Mazzoní aveva il compito, di coordinatore dell’attività. Sotto la direzione di Mario Fabiani vennero effettuate riunioni con i responsabili di Partito delle varie fabbriche: Galileo, Pignone, Manifattura Tabacchi, De Michelí, Officine Ferroviarie di Porta al Prato e del Romito, Cipriani e Baccani, Superpila, Manetti e Roberts, SAIVO, Mazzi, Selt-Valdarno, Istituto Farmaceutico Militare, CGE ‘Stige, Siette e altre. Le maestranze che lavoravano in queste fabbriche dimostrarono di comprendere l’importanza della iniziativa e la stampa clandestina diffuse le parole d’ordine del CTLN, che indicavano: « Niente collaborazione con i delegati fascisti di fabbrica », « sabotaggio delle produzioni di carattere militare », « pressione per la fine della guerra », « richiesta di generi alimentari ». Contemporaneamente fu programmata la fermata del servizio tranviario con l’intensificazione delle azioni dei GAP presso i depositi, per impedire l’uscita delle vetture. Furono previste pure azioni di guerriglia per tenere impegnata la polizia repubblichina e le SS tedesche.

Il CSI si riunì per le decisioni definitive nel retrobottega del negozio di strumenti musicali posto nel piccolo largo della Croce al Trebbio. Questo locale era stato messo a disposizione da Galileo Altiero Scaglia. In questa riunione il CSI decise di effettuare lo sciopero a partire dalle ore 13 del 5 marzo. Lo sciopero ebbe un’ottima riuscita e lasciò sbalordite le autorità naziste e repubblichine, che non si aspettavano un’organizzazione così capillare e tempestiva.

Nel periodo immediatamente successivo agli scioperi, una segnalazione pervenuta al Partito a mezzo di alcuni informatori che erano stati inseriti nelle file della polizia, indusse Rossi ad allontanarsi da Firenze per qualche tempo, e di raggiungere una formazione partigiana. Più tardi anche Fabiani sarà costretto a lasciare la città e a trovare rifugio per qualche tempo presso una formazione partigiana. Alla guida del Partito, Rossi venne sostituito da Piero Montagnani, un compagno emiliano che era stato designato dal Partito a far parte di un Triumvirato insurrezionale della Toscana. Io venni messo subito in contatto con Montagnani, il quale venendo da Milano aveva portato con sé una serie di documenti sugli scioperi di marzo, e voleva che io ne facessi oggetto di una riflessione da parte del CTLN. Al lino di illustrarmi questo suo proposito, egli mi diede appiintamento in Piazza della Libertà, che allora portava il nome di Piazza Costanzo Ciano. Quando ci incontrammo in una tarda sera della fine di marzo, egli non aveva ancora cenato; e insieme scendemmo nella sala al sottosuolo del ristorante Alfredo, posto all’inizio del Viale Don Minzoni, che allora portava il nome di viale Principessa Clotilde. La sala era vuota e noi andammo a sederci nell’angolo di fondo, nello stesso lato della scala, in modo da restare un poco defilati rispetto a chi scendeva la scala. Terminata la cena, Montagnani si attardò a illustrare i documenti che teneva nascosti nel cappotto, e che mi avrebbe consegnato all’uscita, prima di separarci. Dopo il nostro ingresso nella sala, giunse solo un altro avventore, che andò a sedersi in faccia alla scala, nella posizione diametralmente opposta alla no- stra. Io mi accorsi che nel corso della nostra convenzione quell’individuo dall’aspetto sospetto ci osservava in continuazione: forse aveva notato il nostro atteggiamento circospetto. Terminata la conversazione, decidemmo di uscire uno alla volta e di ritrovarci fuori sotto i portici del lato Nord di Piazza Ciano. Per primo uscì Montagnani; io lo seguii dopo qualche minuto, ma nel salire le scale ritrovai quell’individuo, che nel frattempo aveva lasciato la sala,

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venne lasciata all’iniziativa e alla capacità organizzativa singoli partiti. Nella riuscita di questa azione il PCI ebbe un peso determinante per il grande seguito che raccoglieva nelle fabbriche della città e della provincia, dove lo sciopero avrebbe dovuto effettuarsi nelle forme più clamorose. Sulla riuscita di questo sciopero ritornerò parlando della mia partecipazione alla lotta nelle Officine Galileo; ma non è dubbio che il successo di questa azione di protesta e imperniata essenzialmente sulle due maggiori fabbriche cittadine: la Galileo e la Pignone. Il Partito Comunista affidò l’organizzazione dello sciopero al Comitato del Settore Industriale (CSI) che era diretto da Fabiani. Il CSI era come posto da elementi provenienti dalle maggiori fabbriche cittadine e dei comuni vicini: per la Galileo vi partecipavano Nello Bernini, Alfredo Mazzoní e Leo Negro, per la Pignone Otello Bandini, Tiberio Ciampi, Nello Secci e Paolo Tincolini; per l’Azíenda del Gas Sergio Bastianini, per la De Michelí Vasco degli Innocenti, per gli artigiani Bruno Bertini e Fosco Ricci. Mazzoní aveva il compito, di coordinatore dell’attività. Sotto la direzione di Mario Fabiani vennero effettuate riunioni con i responsabili di Partito delle varie fabbriche: Galileo, Pignone, Manifattura Tabacchi, De Michelí, Officine Ferroviarie di Porta al Prato e del Romito, Cipriani e Baccani, Superpila, Manetti e Roberts, SAIVO, Mazzi, Selt-Valdarno, Istituto Farmaceutico Militare, CGE ‘Stige, Siette e altre. Le maestranze che lavoravano in queste fabbriche dimostrarono di comprendere l’importanza della iniziativa e la stampa clandestina diffuse le parole d’ordine del CTLN, che indicavano: « Niente collaborazione con i delegati fascisti di fabbrica », « sabotaggio delle produzioni di carattere militare », « pressione per la fine della guerra », « richiesta di generi alimentari ». Contemporaneamente fu programmata la fermata del servizio tranviario con l’intensificazione delle azioni dei GAP presso i depositi, per impedire l’uscita delle vetture. Furono previste pure azioni di guerriglia per tenere impegnata la polizia repubblichina e le SS tedesche.

Il CSI si riunì per le decisioni definitive nel retrobottega del negozio di strumenti musicali posto nel piccolo largo della Croce al Trebbio. Questo locale era stato messo a disposizione da Galileo Altiero Scaglia. In questa riunione il CSI decise di effettuare lo sciopero a partire dalle ore 13 del 5 marzo. Lo sciopero ebbe un’ottima riuscita e lasciò sbalordite le autorità naziste e repubblichine, che non si aspettavano un’organizzazione così capillare e tempestiva.

Nel periodo immediatamente successivo agli scioperi, una segnalazione pervenuta al Partito a mezzo di alcuni informatori che erano stati inseriti nelle file della polizia, indusse Rossi ad allontanarsi da Firenze per qualche tempo, e di raggiungere una formazione partigiana. Più tardi anche Fabiani sarà costretto a lasciare la città e a trovare rifugio per qualche tempo presso una formazione partigiana. Alla guida del Partito, Rossi venne sostituito da Piero Montagnani, un compagno emiliano che era stato designato dal Partito a far parte di un Triumvirato insurrezionale della Toscana. Io venni messo subito in contatto con Montagnani, il quale venendo da Milano aveva portato con sé una serie di documenti sugli scioperi di marzo, e voleva che io ne facessi oggetto di una riflessione da parte del CTLN. Al lino di illustrarmi questo suo proposito, egli mi diede appiintamento in Piazza della Libertà, che allora portava il nome di Piazza Costanzo Ciano. Quando ci incontrammo in una tarda sera della fine di marzo, egli non aveva ancora cenato; e insieme scendemmo nella sala al sottosuolo del ristorante Alfredo, posto all’inizio del Viale Don Minzoni, che allora portava il nome di viale Principessa Clotilde. La sala era vuota e noi andammo a sederci nell’angolo di fondo, nello stesso lato della scala, in modo da restare un poco defilati rispetto a chi scendeva la scala. Terminata la cena, Montagnani si attardò a illustrare i documenti che teneva nascosti nel cappotto, e che mi avrebbe consegnato all’uscita, prima di separarci. Dopo il nostro ingresso nella sala, giunse solo un altro avventore, che andò a sedersi in faccia alla scala, nella posizione diametralmente opposta alla no- stra. Io mi accorsi che nel corso della nostra convenzione quell’individuo dall’aspetto sospetto ci osservava in continuazione: forse aveva notato il nostro atteggiamento circospetto. Terminata la conversazione, decidemmo di uscire uno alla volta e di ritrovarci fuori sotto i portici del lato Nord di Piazza Ciano. Per primo uscì Montagnani; io lo seguii dopo qualche minuto, ma nel salire le scale ritrovai quell’individuo, che nel frattempo aveva lasciato la sala, sul pianerottolo posto a metà della scala: egli stava telefonando, e nel passargli accanto mi resi conto dalle sue parole che stava telefonando alla polizia. Uscito fuori, come intravidi Montagnani sotto il porticato semibuío per l’oscuramento, gli riferii che avevo colto quell’uomo al telefono mentre stava parlando con la polizia, e che forse stava segnalando la nostra presenza sospetta. Come terminai di parlare, Montagnani con uno scatto improvviso balzò verso il centro della piazza, avvolta nell’oscurità. Io rimasi un attimo perplesso da quello scatto subitaneo, perché quel comportamento istintivo di Montagnani avrebbe potuto dare nell’occhio a chi si fosse appostato fuori dal ristorante per sorvegliare i frequentatori. Ma non avevo ancora finito di riflettere sul come comportarmi, che Montagnani ritornò indietro correndo e mi pose in mano i documenti relativi agli scioperi; quindi rapidamente scomparve verso il centro della piazza.

Per non mettermi in evidenza, presi a percorrere con passo lesto i portici nella direzione del Parterre, ma come voltai per Via Madonna della Tosse mi misi a correre a più non posso, tenendo sempre stretti in mano i documenti sugli scioperi, pronto a disfarmene se ce ne fosse stata la necessità. Quindi girai alla prima traversa, che mi portò nel Viale Principessa Clotilde, ma più a Nord, verso le Cure, e percorrendo le strade intorno a Piazza Savonarola, raggiunsi Piazza Isidoro del Lungo e di lì il centro. Non andai a casa mia, ma mi rifugiai in Via Pandolfini, dove da alcuni mesi avevo preso in affitto una stanza per potermi nascondere qualora se ne fosse presen- tata la necessità. Chiuso nella mia stanza, mi lessi i documenti che mi erano stati consegnati da Montagnani, e feci una selezione di quelli che mi sembrarono più significativi; i rimanenti li bruciai in una stufa a legna che fortunatamente si trovava nella stessa stanza. Il giorno seguente mi recai da Lombardi, presso Le Monnier, gli raccontai l’accaduto e gli lasciai i documenti. Inoltre gli dissi che per qualche giorno mi sarei astenuto dal prendere contatto con il CTLN. Non cessai però di frequentare le Officine.

Il 15 aprile i GAP abbatterono Giovanni Gentile, per rappresaglia all’eccidio di Campo di Marte, dove era-no stati fucilati dai repubblichini 5 giovani arrestati nel Mugello perché renitenti alla leva indetta dal Governo di Salò. Giovanni Gentile, dopo l’8 settembre, aveva assunto per incarico del Governo repubblichino la Presidenza dell’Accademia d’Italia, dando col suo prestigio un forte sostegno a quel Governo. Qualche giorno dopo l’attentato incontrai per strada Enriques Agnolettí, che mi manifestò il suo disaccordo per questa azione dei GAP contro un uomo di indubbio valore intellettuale, Se non che Gentile non solo aveva sostenuto il fascismo fin dai primi anni della dittatura, ma ora col suo prestigio si era posto di fatto a sostegno degli invasori tedeschi e della Repubblica di Salò. Radio Londra aveva commentato favorevolmente l’attentato per il suo intrinseco valore politico. Alla riunione del CTLN il fatto diede luogo a una animata discussione, nella quale si verificò uno scontro fra le vedute del Partito d’Azione e quelle del Partito Comunista. La posizione del Partito d’Azione su questo episodio della Resistenza fu per me inspiegabile, per le responsabilità che il filosofo si era assunte: era evidente che i partigiani con il loro gesto avevano voluto colpire in lui uno dei simboli del tradimento della cultura italiana durante tutto il ventennio della dittatura. Per l’esattezza il Partito d’Azione riconosceva le responsabilità assunte dal filosofo trapanese col suo atteggiamento di adesione alla Repubblica di Salò, ma nel caso particolare esso avrebbe preferito che Giovanni Gentile fosse stato sottoposto a guerra finita al giudizio di un regolare processo. Purtroppo, con il senno di poi, oggi noi sap- piamo quale sorte hanno avuto propositi di questo tipo, perché le poche condanne comminate dalla magistratura a guerra finita sono apparse a molti italiani più una vendetta a freddo che un atto di vera e propria giustizia. Nelle giornate calde della Resistenza quell’atto, sia pur doloroso, assunse un grande valore politico, che nessuna valutazione di meriti intellettuali avrebbe potuto indurre a farlo soprassedere. Io non disponevo di informazioni dirette su quella decisione, perché esigenze precauzionali della lotta clandestina avevano consigliato alle forze guidate dal PCI una organizzazione a compartimenti stagni. In effetti, a differenza di quanto era avvenuto per molte vittime della repressione nazifascista, i numerosi caduti o arresti del nostro Partito non si erano verificati a seguito di imboscate o di retate della polizia, ma in azioni di guerra: si trattò cioè quasi sempre di perdite in conseguenza di operazioni militari. Lo stesso Rossi quando mi chiamò all’incarico di rappresentare il Partito al CTLN mi ingiunse di abbandonare ogni altro impegno nella lotta politica; il che però si ridusse a un alleggerimento dei miei rapporti solo con il Comitato degli intellettuali comunisti, perché non mi fu assolutamente possibile di rallentare la mia azione presso le Officine Galileo, che costituivano per me un punto cardine della lotta clandestina,

Una sera di aprile, nel ritornare a casa, come imboccai da Via Paoletti la Via Lambruschini, scorsi davanti al portone una macchina militare tedesca con a bordo dei militi della guardia nazionale repubblichina. Prudentemente non rincasai e mi rifugiai nella vicina Via Gaspero Barbera in casa dell’Ing. Boscono, un dirigente della Galileo, con cui dopo il 25 luglio avevo più volte scambiato dei commenti sulla situazione politica, anche se non gli avevo fatto mai trapelare quale fosse il mio colore politico. Gli dissi della macchina tedesca sotto casa mia, ed egli mi offrì di passare la notte in casa sua. L’indomani avvertii Rosada e Foscolo Lombardi dei miei sospetti, ed essi mi consigliarono di allontanarmi per prudenza da Firenze per qualche tempo. Allora pregai Aliani di andare con precauzione a casa mia, dove non abitava nessuno, e di ritirarmi alcune cose che mi necessitavano. Aliani compì la missione con estrema sollecitudine e notò che la casa non era sorvegliata. Io pensai di raggiungere la mia famiglia nel Casentino; ma i treni non viaggiavano verso Arezzo a causa delle gravi interruzioni alla linea ferroviaria, provocate dai bombardamenti. Allora mi avviai a piedi verso la Via Aretina e, fermato un camioncino che risaliva il Valdarno, chiesi di essere preso a bordo. L’autista mi disse che era diretto a San Giovanni, ma a me importava allontanarmi da Firenze e salii lo stesso. Giunto a San Giovanni, mi posi all’imbocco di un ponte sull’Arno in attesa di un altro passaggio alla volta di Arezzo, e non trovai di meglio che d’essere accolto su un camion militare tedesco, carico di cassette di munizioni.

Il conducente, un soldato tedesco, mi disse di salire sul pianale e sistemarmi alla meglio sul carico. Con questo mezzo ripresi il viaggio, percorrendo le strade poste sullo destra dell’Arno. Lungo il percorso imperversavano i bombardamenti e i mitragliamenti a bassa quota degli aerei alleati. Il conducente tedesco però proseguì il viaggio incurante. Io pensai che la presenza di un borghese sul carico potesse forse essere stata valutata dal conducente come un mezzo per ingannare il nemico sul carattere militare di quel trasporto; ma poi mi accorsi che gli aerei mitragliavano anche i passanti. Nel primo pomeriggio giungemmo indenni ad Arezzo e venni sbarcato sulla Piazza della Stazione, che mi si presentò deserta e tutta sconvolta dai bombardamenti. Inoltre la città era ancora sotto l’allarme perché l’incursione alleata non si era ancora esaurita. L’autista tedesco mi disse che il viaggio era terminato, e io mi avviai con passo deciso, ma senza correre, per la strada che dalla Stazione porta verso l’Arno. Lungo il percorso in discesa incontrai un soldato italiano che mi chiese dove poteva rifugiarsi. Più oltre giunsi a una porta antica, sotto la quale si era riparata una giovane donna per nulla spaventata della situazione. Mi fermai sotto quella porta per qualche minuto e poi ripresi a camminare. Raggiunta la statale per il Casentino, che procede parallelamente alla ferrovia per Stia, scorsi un treno che sostava sui binari, non potendo proseguire per la stazione a causa dei bombardamenti e dei danni alla strada ferrata. Ma non potei subito raggiungerlo per la presenza di un aereo alleato che si abbassava in continuazione per mitragliare la strada; pertanto fui costretto a buttarmi in un campo di grano per nascondermi. Verso le 15 l’aereo si allontanò e io riuscii a salire sul treno, che di lì a poco partì per il Casentino. Giunsi a Rassina verso l’imbrunire, e poi con una corriera proseguii per Talla, dove mi ricongiunsi con la famiglia. Nei giorni successivi presi contatto con una formazione partigiana che operava a Fallona. Questa formazione era comandata da un giovane livornese, Mario, che dopo 1’8 settembre aveva raggiunto la sua famiglia sfollata a Talla. Una ragazza che faceva la staffetta ai partigiani mi condusse a Fallona. Colà mi trattenni col Comandante per una intera giornata, e insieme concordammo una collaborazione con il CTLN. Pur troppo gli accordi non ebbero seguito perché Mario dopo poco tempo cadde in una imboscata tesagli dai fascisti nel Casentino imperversavano con azioni feroci contro le popolazioni ostili. Fra gli stessi partigiani di Fallona io avevo trovato dei feriti. Rientrato dopo una settimana a Firenze, appresi da Rosada che Montelatici, sentendosi ormai sicuro di non essere ricercato dalla polizia repubblichina, aveva ripreso a frequentare il CTLN (fine aprile). Da quel momento, pur rimanendo in contatto con il CTLN, potei dedicarmi completamente alla lotta politica all’interno delle officine Galileo.

Non meno impegnativa fu la lotta alle Officine Galileo. Ho già accennato che nell’ambito della mia Sezione, prima del 25 luglio 1943 io ero, riuscito ad avvicinare un gruppo di elementi di sicura fede antifascista. -Con Aliani riuscii a entrare in confidenza politica nel corso di una lunga permanenza in Istria, a Pola, dove la Marina Militare Italiana disponeva di un’importante base navale per sommergibili. Verso la fine di maggio del 1943 ci eravamo recati insieme in quella base per procedere alla messa a punto e alla consegna da parte della Galileo di un primo esemplare di « allenatore per sommergibile ». Questa grossa a complessa apparecchiatura aveva destato un vivo interesse fra gli ufficiali della base poiana, perché consentiva a quegli ufficiali di potersi esercitare nell’attacco con siluri senza essere costretti a doversi portare in mare aperto con un sommergibile per eseguire tiri su sagome ancorate al largo. L’allenatore per sommergibili consentiva di addestrarsi al tiro su una serie di modelli di navi in miniatura, i quali venivano inseriti nel campo visivo di un periscopio operante su uno scenario marino, artificiale: su questo scenario venivano simulati a mezzo particolari congegni ottici ed elettromeccanici l’avvistamento della nave nemica, la sua velocità, l’avvicinamento al bersaglio, il rilevamento dei dati di rotta e il conseguente lancio del siluro, con verifica della giustezza del tiro. Nell’allestimento di questo strumento, Aliani era stato uno dei miei migliori collaboratori. Il 12 giugno, mentre come di consueto eravamo ospiti della mensa degli allievi ufficiali della base, il bollettino militare delle ore 13 trasmesso dalla radio comunicò la caduta dell’Isola di Pantelleria in mano agli alleati anglo-americani. Questa comunicazione suscitò un grande scoramento fra i giovani allievi ufficiali: era infatti il primo lembo di terra italiana che passava in mani nemiche. Le inevitabili nostre riflessioni su quell’avvenimento e sullo stato d’animo dei militari della base ci condussero a parlare con franchezza delle sorti della guerra, e così discorrendo ci rendemmo conto che avevamo lo messo orientamento politico. Rientrati a Firenze i nostri rapporti non furono più soltanto tecnici, come nel passalo, ma anche politici. In breve quella missione ci permise di rompere il clima di diffidenza a cui il regime fascista aveva abituato tutti gli italiani, specialmente in luoghi, come un’azienda produttrice di armamenti per le forze arenate, dove non mancavano delatori e spie. Aliani apparteneva a una famiglia di vecchi socialisti e, resosi conto dei miei sentimenti politici, favorì i mie contatti con altri elementi antifascisti delle Officine.

Il 25 luglio venne a infrangere lo stato d’animo di diffidenza che aveva sempre dominato la vita dentro la Galileo; e da quel momento la mia azione di lavoro divenne (in punto di riferimento di quanti si interessavano a quel momento politico, che faceva sperare in una rapida uscita dell’Italia dal conflitto. Così nel gran fervore di rinnovamento che aleggiava nello stabilimento di Rifredi, nell’agosto 1943 una delle prime iniziative fu l’elezione di una Commissione Interna di Fabbrica (CIF): un istituto che durante il ventennio fascista era stato cancellato e sostituito con i fiduciari sindacali di fabbrica, nominati d’ufflcio dalle organizzazioni corporative fasciste. Questi fiduciari non erano altro che strumenti attraverso i quali il regime esercitava il suo dominio nel mondo del lavoro. Secondo un piano realizzato d’accordo con la Direzione dello stabilimento, i membri della CIF vennero eletti sezione per sezione, in rapporto al numero dei dipendenti operanti in ciascuna sezione, con rappresentanti distinti fra operai e impiegati. La Commissione interna risultò composta da 16 elementi, dei quali 10 erano rappresentanti degli operai (Corrado Conti, Edoardo Fallaci, Fiorenzo Francalanci, Umberto Gheri, Fosco Giannini, Luigi Grazzini, Renzo Piccini, Luigi Quarantelli, Raffaello, Romei, Ugolino Ugolini) e 6 degli impiegati (Gino Cruicchi, Raffaello Fontani, Rodol Minucci, Gianfranco Musco, Recchioni, Giulio Ristori). elezione avvenuta, Fallaci fu nominato segretario del gruppo operaio e Musco del gruppo impiegati. Io dovetti la nomina soprattutto ai tecnici della mia sezione, che con accanimento avevano voluto che entrassi a far parte della CIF in rappresentanza degli impiegati, e successivamente che vi assumessi il ruolo di segretario. Questa Commissione Interna non fece però a tempo a svolgere alcuna effettiva attività, perché con l’8 settembre il sopraggiungere dell’armistizio venne a sconvolgere tutte le prospettive di lotta sindacale e politica che nel nuovo clima di libertà stavano maturando.

Appena il re e il suo Governo si trasferirono furtivamente nel Sud Italia, in territorio già controllato dagli alleati, il Centro e il Nord furono occupati con una operazione fulminea dalle forze naziste. Liberato Mussolini, queste forze condussero in breve alla costituzione della Repubblica di Salò. Di conseguenza, in Officina la neo nominata Commissione Interna cessò automaticamente di funzionare e in suo luogo venne a costituirsi un ristretto Comitato clandestino di comunisti, del quale facevano parte: Martino Aliani, Remigio Arzilli, Nello Bernini, Bruno Bistoni, Alfredo Mazzoni, Gianfranco Musco e Bruno Tresanini. Favorito dalla mia posizione di capo della Sezione montaggi campioni e collaudi, questo Comitato clandestino prese a tenere le sue sedute durante le ore di lavoro nella Sala Fotometrica della Sezione. La Sala Fotometrica si trovava al piano seminterrato del Palazzo dell’Ottica, in una ala poco frequentata; questa Sala oltre a presentare una ubicazione favorevole per delle riunioni appartate, disponeva di due uscite: una all’interno del Palazzo dell’Ottica e l’altra sul retro dello stesso, verso un cortile defilato, che in caso di necessità avrebbe consentito agli esterni alla Sezione di disperdersi senza essere troppo notati. Si aggiunga che la Sala Fotometrica era priva di finestre per essere dotata di strumenti ottici da impiegarsi nell’oscurità; pertanto dall’esterno le riunioni non avrebbero potuto essere rilevate. Inoltre per l’impiego discontinuo delle sue delicate apparecchiature, la Sala Fotometrica rimaneva normalmente chiusa, e le chiavi venivano depositate nel mio ufficio.

A ogni buon conto durante le riunioni del Comitato clandestino Fardi restava per precauzione fuori della Sala a sorvegliarne le uscite, al fine di dare un allarme convenzionale qualora nelle vicinanze si fossero notate delle persone sospette.

Compito di questo Comitato era quello di organizzare una resistenza contro i fascisti repubblichini e gli occupanti tedeschi; infatti pochi giorni dopo l’8 settembre alcuni ufficiali delle SS, con una scorta armata, si presentarono alla Direzione della Galileo per imporre alla stessa di tenersi a disposizione del Comando Militare tedesco. Un altro compito del Comitato clandestino era di favorire la diffusione della stampa clandestina, che veniva introdotta furtivamente nello stabilimento, e particolarmente di quella comunista costituita dall’« Unità » e dall’« Azione Comunista». In seguito il Comitato clandestino si propose di adeguare la lotta alle direttive del CTLN, anche se ignoro fino all’ultimo, per le ragioni che sappiamo, che in quel Comitato CTLN dal mese di novembre 1943 io vi rappresentavo il PCI . Il Comitato curò anche i rapporti col Partito che, come si ricorderà, dopo il ritorno di Giuseppe Rossi e di Mario Fabiani a Firenze era stato ricostituito, anche se, come tutti i partiti democratici, era costretto in quel tempo a operare nella clandestinità. In breve tempo il Comitato clandestino si venne a trovare di fronte a gravi problemi: la Direzione della Galileo, prevedendo l’avanzata degli alleati, programmò su invito dei tedeschi il trasferimento delle Officine nel Veneto, in diverse sedi: Battaglia Terme, Monselice, Pordenone e Mestre. Il Comitato decise di fare opposizione a questo trasferimento, in quanto esso si presentava come un atto di collaborazione con gli occupanti nazisti. Al fine di procedere alla selezione del personale da portare nel Nord, la Direzione promosse un referendum fra i dipendenti per conoscere chi era disposto a seguire le Officine. Per coloro che non avessero aderito al trasferimento era previsto il licenziamento. Nella forma con cui il problema era stato posto dalla Direzione, il referendum acquistava il carattere di un diktat alla maniera fascista; ma nella esasperazione generale del momento esso si presentava pieno di conseguenze gravi, politiche e economiche. Con una propaganda capillare in tutti i reparti, il Comitato clandestino mise ogni impegno perdi il referendum venisse recisamente respinto: così alle or 9 di una mattina di ottobre, gli operai abbandonarono loro posti di lavoro e in massa si portarono sui piazzale dello stabilimento, e qui strapparono i moduli del referendum. Si trattò di una manifestazione compatta a cui parteiparono tutti: essa diede la misura alla Direzione dell’avversione delle maestranze all’iniziativa del referendum e nello stesso tempo al trasferimento della fabbrica nel Nord, Dopo questa vistosa protesta, la Direzione fece capire che era disposta a trattare per ricercare un accordo sulle modalità del trasferimento, e il Comitato clandestino fu indotto a sviluppare una nuova tattica, sostenendo la richiesta di provvidenze straordinarie sia a favore dei dipendenti disposti a seguire le Officine nel Nord, sia a favore di quelli che, non accettando di essere trasferiti, sarebbero stati licenziati. Ma non esistendo più la Commissione Interna eletta in agosto, non potendo il Comitato trattare direttamente con la Direzione, e inoltre per impedire che l’iniziativa potesse passare nelle mani dei fiduciari di fabbrica repubblichini, fu promossa la formazione di una Commissione ad hoc per trattare la questione del trasferimento con la Direzione. Questa Commissione venne formata senza una regolare procedura, in parte con elementi della disciolta CIF e in parte con altri che si erano distinti nella elaborazione delle proposte da presentare alla Direzione. Come si è detto la Commissione rappresentò gli interessi sia di quelli che accettavano di seguire le Officine nel Nord, sia gli altri che non accettavano. Questi ultimi costituivano la stragrande maggioranza dei dipendenti. Come si poté constatare in seguito, gli aderenti al trasferimento furono poco più di 350 unità, su una maestranza complessiva di oltre 5.000. Non è però da credere che gli aderenti al trasferimento fossero tutti simpatizzanti della Repubblica di Salò, perché la maggioranza di essi aderiva per non perdere l’impiego o perché paventava il momento della ritirata tedesca. D’altra parte le richieste dei due gruppi, presentate in una forma unitaria, venivano in qualche modo a mascherare gli aspetti più squisitamente politici della trattativa, perché riunivano gli interessi tanto di quelli che miravano, come il Comitato clandestino, soprattutto al valore politico dell’agitazione (ed erano i più), quanto quelli che più semplicemente miravano a strappare un migliore Trattamento economico.

La Commissione per le trattative sul trasferimento risultò di 22 membri, così ripartiti fra le tre categorie di dipendenti: 9 impiegati (Guido Dani, Vittorio Dei, Giovanni Fontanella, Gianfranco Musco, Luigi Permeai, Giorgio Portolani, Matilde Rossi, Ferruccio Selva, Arrigo Tosi), 3 capi operai (Ernesto Danti, Guido Fontanella, Angelo Nicoletta) e 10 operai (Rodolfo Bellucci, Mario Bonelli, Nello Berníni, Walter Chiavi, Garibaldo Lucia, Torquato Lucii, Torquato Marchiani, Vasco Mariani, Dante Marrucci, Raffaello Romei e Gino Rosi). La Commissione raccolse in particolare una serie di proposte sulle provvidenze a favore di coloro che, non aderendo al trasferimento, sarebbero usati licenziati; le proposte erano state oggetto di lunghe preventive valutazioni del Comitato clandestino, che aveva tenuto le fila di tutta l’agitazione.

Dopo una discussione con la Direzione, il 30 novembre 1943 si giunse a un accordo, sottoscritto per l’Azienda dal Direttore Generale Gianangelo Spersi e dal Direttore dello stabilimento Ettore Gamondi, e per i dipendenti dai 22 membri della Commissione, primo firmatario Musco. Al documento vollero dare il loro assenso, non richiesto, anche due rappresentanti dei sindacati fascisti, Giulio Gandina e Isidoro Isidor. Con questo accordo veniva stabilito che coloro che sarebbero stati licenziati avrebbero ricevuto una liquidazione extra, a integrazione di quella prevista dal contratto di lavoro, di 6 mensilità intere per i dipendenti con una anzianità di servizio superiore a 10 anni, di 5 mensilità per i dipendenti con una anzianità fra i 5 e i 10 anni, e 4 mensilità per quelli con meno di 5 anni. A tutti sarebbero state liquidate inoltre 4 mensilità di assegni familiari. Fu convenuto infine ,che ì licenziamenti non sarebbero stati effettuati tutti insieme, ma gradualmente, in rapporto alla smobilitazione progressiva dei reparti. Presso gli altri stabilimenti di Firenze l’accordo fu giudicato un successo sindacale, e l’esempio della Galileo venne seguito anche da altre fabbriche, dove si stava procedendo a dei licenziamenti. Purtroppo, sottoscritto l’accordo, già il 1° dicembre la Direzione procedette a una prima ondata di licenziamenti, nella quale venne compreso anche Alfredo Mazzoni, uno dei membri più attivi del Comitato clandestino, che da quel momento il Partito trasferì al coordinamento nel Comitato del Set Industriale (CSI). Dopo poco tempo anche Nello Bernini dovette abbandonare repentinamente la Galileo, essendo stato informato di essere ricercato dai repubblichini. Nel comitato queste perdite furono rimpiazzate con l’ingresso di un nuovo gruppo di compagni: Giuseppe Croce, Renato Castaldi, Narciso Niccoli, Renzo Pierini, Luigi Verreschi Bruno Tresanini.

Col passare dei mesi i repubblichini si rafforzarono a Firenze la vita si fece sempre più precaria per l’incrudelirsi della lotta. Furono quelli i mesi più terribili dell’ occupazione. In questa atmosfera di incertezza venne a prodursi per il Comitato clandestino un fatto nuovo di grande importanza: l’avvicinamento politico definitivo fra me e direttore Ettore Gamondi. Già il 26 luglio Gamondi aveva rivolto parole di compiacimento sulla caduta del fascismo agli operai che esultavano sui piazzali delle Officine. Inoltre dopo l’8 settembre, nella imminenza del ritorno in fabbrica dei fascisti, egli avuto l’accortezza di avvertire me e Fallaci dell’arrivo dei repubblichini e, nell’incertezza della situazione, ci aveva consigliato separatamente di assentarci prudentemente per qualche giorno in attesa di vedere come si mettevano le cose. Io seguii il suo consiglio. Fallaci, temendo che prima o dopo ci sarebbero potute essere gravi ritorsioni verso i rappresentanti della CIF, ritenne più prudente abbandonare definitivamente le Officine. Quando, dopo qualche tempo, io lo incontrai casualmente per Firenze, mi disse che s’era licenziato e stava collaborando con il Partito d’Azione. La cosa mi fu confermata più tardi anche da Enriques Agnoletti. L’occasione definitiva per un più consistente contatto politico con Gamondi mi fu offerta quando in un pomeriggio di febbraio il Direttore mi chiamò per chiedermi se ero in grado di fornirgli una carta di identità falsa per una signora in pericolo, che non conoscevo e della quale mi forni una fotografia. Si trattava, come più tardi venni a sapere, della moglie di un ingegnere della Galileo, il quale si era trasferito da tempo a Battaglia Terme. Risposi che avrei fatto del mio meglio per andare incontro alla sua richiesta, e incaricai della faccenda Roberto Martini. Questi dopo qualche giorno mi consegnò una carta di identità con la fotografia della signora, intestata a un Comune dell’Italia del Sud, già in mano degli alleati. La carta di identità, con timbri a secco e marche, era eseguita a regola d’arte e, figurando di un Comune già passato agli alleati, non poteva essere sottoposta alla verifica della sua autenticità da parte della polizia repubblichina. Gamondi ne rimase contentissimo e mi ringraziò moltissimo. Dopo questo fatto le nostre conversazioni politiche divennero più frequenti e più aperte, ed egli arrivò perfino a confessarmi di sentirsi socialista nel suo intimo. Quanto a me, mi disse con discrezione, che non aveva idea a quale corrente politica appartenessi, ma supponeva trattarsi di una corrente cattolica. Io risposi evasivamente, facendogli credere che non era andato molto lontano dalla realtà. Un altro giorno mi confessò che si pentiva a disagio per dover provvedere al trasferimento delle Galileo nel Nord: operazione che a molti appariva come un atto di collaborazionismo con i nazisti, mentre — asseriva — che egli portava avanti quel trasferimento unicamente per salvare le macchine dal pericolo dei danni a cui inevitabilmente sarebbero andate incontro nella fase decisiva della ritirata tedesca. Davanti a questa sua preoccupazione, colsi la palla al balzo per proporgli di chiarire la sua posizione mettendosi a disposizione del CTLN. Gamondi accolse con vivo interesse la mia proposta, e io mi impegnai di consegnargli al più presto, brevi manu, una lettera del Comitato di Liberazione Nazionale con la indicazione precisa delle prescrizioni a cui egli avrebbe dovoto attenersi. Quella stessa sera buttai giù la bozza di una lettera piuttosto ampia, nella quale dopo aver criticato la condotta della Direzione della Galileo, gli prospettavo a nome del CTLN i termini della sua collaborazione, invitandolo a consegnare al Comitato per mio tramite tutto quanto a suo giudizio potesse essere utile per la causa contro gli invasori nazisti. Il giorno appresso mi recai da Lombardi e lo informai della mia iniziativa. Mentre ero nel suo ufficio, presso Le Monnier, arrivò Branca a cui feci leggere la lettera indirizzata a Gamondi; egli si dichiarò d’accordo con quanto avevo scritto. Quella lettera aveva un tono severo, perché il CTLN non poteva accettare minimamente un trasferimento nel Nord, che per se stesso costituiva già un atto palese di collaborazionismo con gli invasori. Di fronte a questa affermazione Gamondi si strinse spalle, ma accettò le critiche, come pure accettò le condizioni della collaborazione. Così da quel momento egli tenne al corrente di tutti i fatti relativi al trasferimento e su quanto reputava utile o interessante che venisse conoscenza del CTNL. Per la verità non tutto quello di mi teneva al corrente era veramente di interesse del CT ma io per non deluderlo accettavo ogni sua comunicazione che talvolta veniva accompagnata con copie di documenti. Uno dei grandi vantaggi di questa collaborazione fu possibilità che mi si offrì di fare assumere dalla Galileo dei giovani chiamati alle armi dal Governo di Salò: in modo essi potevano essere sottratti al servizio militare ottenendo l’esonero come dipendenti da un’industria bellica

Un avvenimento in cui la collaborazione con Gamondi ebbe buon gioco, si verificò in occasione dello sciopero 3 marzo 1944, del quale ho già parlato. In quella occasione il Comitato clandestino si impegnò per la massima riuscìta di quella protesta politica promossa dal CLNAI. Al fine però di evitare ritorsioni delle SS sulle maestranze, proposi al Comitato uno stratagemma, che nello stesso tempo ci avrebbe consentito di ottenere una totale fermata di tutto lo stabilimento di Rifredi, con il minimo rischio per le maestranze, esposte alle ritorsioni dei nazisti. Infatti, poiché lo sciopero avrebbe avuto inizio dopo l’intervallo del mezzogiorno, al rientro nei reparti degli operai dalla mensa, io proposi di approfittare dell’assenza, durante quell’intervallo, dei sorveglianti addetti alle cabine elettriche di alimentazione dello stabilimento per bloccare le tre cabine a cui facevano capo le Officine. L’incarico di questa operazione fu affidato a un gruppo di compagni che si offrirono volontari: Alieni e Fardi per l’interruzione della cabina n. 1, posta dietro il Palazzo dell’Ottica; Carlo Barralesi, Lelio Mazzanti e Giuseppe Soriani per la cabina n. 2, situata all’interno del Palazzo della Direzione, al centro dello stabilimento; e Narciso Niccoli e Luigi Quarantelli alla cabina n. 3, posta al di là di Via Taddeo Alderotti, in quella parte dell’Officina chiamata del Poggetto. Sotto l’aspetto tecnico l’operazione risultò perfetta, anche a giudizio degli elettricisti addetti alle tre cabine. E non si trattò, come si potrebbe credere di staccare semplicemente tre interruttori, perché ciascuna squadra degli improvvisati elettricisti con le proprie mani un interruttore a tre coltelli di una linea ad alta intensità di corrente, per cui al momento dell’interruzione la corrente provocò tre grosse impressionanti fiammate. Per valutare a pieno l’azione rischiosa, occorre tener presente che i nostri compagni operarono in condizioni precarie, avendo a tutela della loro incolumità soltanto una pedana isolante e un paio di guanti per evitare le ustioni. Al rientro dalla mensa gli operai si trovano con le macchine bloccate per la mancanza di energia elettrica. Le SS tedesche, subito accorse, rimasero con un palmo di naso quando, nel dare con tono minaccioso ordini perentori agli operai di riprendere immediatamente II lavoro, esse dovettero costatane l’impossibilità di mettere In moto le macchine per mancanza di energia elettrica. In fabbrica nessuno sapeva della interruzione provocata nelle cabine, e ci volle del tempo prima che la direzione se ne rendesse conto, il che avvenne solo dopo numerose telefonate alla Selt-Valdarno, la quale a seguito di verifiche sulla linea di adduzione assicurò che non vi erano guasti. Si noti ancora che all’inizio la ricerca delle cause dell’interruzione fu ritardata perché gli elettricisti addetti alla manutenzione degli impianti interni si erano resi irreperibili, e il Direttore Gamondi cercò di ritardare ogni iniziativa che potesse accelerare la possibilità della ripresa del lavoro. In questo modo lo stabilimento di Rifredi rimase a lungo inoperoso, e nemmeno l’arrivo del prefetto Manganíello poté far niente per ridurre i tempi per la ripresa del lavoro. Il successo fu quindi completo e l’interruzione si prolungò fino alle ore 16. Anche i tentativi di ritorsione delle SS caddero nel vuoto, non andando oltre il fermo di 10 ostaggi, prelevati a caso fra gli operai, che però non furono portati fuori dallo stabilimento, e vennero rilasciati nel corso della stessa serata. In questa circostanza la collaborazione di Gamondi fu preziosa: in effetti la sua condotta favorì in qualche misura la riuscita dello sciopero perché, anche se egli ignorava come e quando lo sciopero sarebbe scattato, mise a tacere nelle giornate che lo precedettero tutte le denunce che gli erano pervenute, e consegnò a me invece che alla polizia, i volantini incitanti allo sciopero, che uno zelante sorvegliante gli aveva portato ufficio.

Purtroppo la collaborazione con Gamondi, che in seguito sarebbe potuta divenire ancora più preziosa, ebbe una breve durata, perché verso la fine dell’inverno egli fu a arrestato per il suo comportamento nella mattina del 26 luglio 1943, quando di fronte alle maestranze esultò alla caduta del fascismo. In carcere fu sottoposto a istruttoria, la quale andò per le lunghe, anche per l’intervento di suoi amici influenti sulle autorità fasciste. Comunque è un fatto poco più di un mese avanti la Liberazione di Firenze, l’istruttoria fu sospesa e Gamondi, rilasciato a piede libero, poté nascondersi. La sua assenza dalla Galileo fu risentita Comitato clandestino, particolarmente nel momento della ritirata tedesca per l’impossibilità di giungere, a una intesa con i dirigenti rimasti a Firenze a tutela dello stabilimento possibile trasferire nel Nord. Questi dirigenti si mostrarono e di quanto in macchine e apparecchiature non era stato incapaci di prendere una decisione unitaria con le maestranze residue, rimaste in fabbrica, e con le forze antifasciste e partigiane dello stabilimento per tentare in extremis di difendere quello che era rimasto in macchine e in impianti, o quanto meno disturbare l’opera dei devastatori tedeschi che nella fase finale della ritirata provocarono gravi danni alle officine di Via Carlo Bini. L’ultima volta che vidi Gamondi, prima dell’arresto, mi disse che stava studiando un piano di difesa dello stabilimento, da realizzare al momento del trapasso dei poteri alle autorità alleate. In quella occasione nel salutarmi aggiunse: « Ho buone speranze di condurre le cose in modo che quando i tedeschi se ne saranno andati tutto rimarrà nelle vostre mani ». Ovviamente con le parole « nelle vostre mani » intendeva alludere al CTLN.

Nel mese di giugno si concluse la fase di smobilitazione della Galileo e io fui licenziato.

Mi dedicai allora alla fase finale della lotta per la cacciata dei nazisti da Firenze. Al mio rientro trovai che Montelatici mi aveva inserito in una Commissione del CTLN, la quale aveva il compito di segnalare al Comitato di Liberazione i nomi di persone idonee a essere nominate commissari di vari enti e istituti culturali, in attesa che venisse studiato il loro assetto secondo le vedute dei tempi nuovi. Il Partito Comunista inoltre mi chiamò a far parte di una commissione militare ristretta, la quale aveva il compito di proporre un piano di difesa di Firenze al momento della ritirata tedesca. Questa Commissione era presieduta da Francesco Leone, un vecchio compagno, reduce della guerra di Spagna e già ispettore delle Brigate d’assalto Garibaldi nel Nord Italia. La Commissione oltre ú Leone comprendeva: Nello Bernini, Cesare Dami e Gianfranco Musco. Nel luglio del 1944 essa tenne le sue sedute in Via Sant’Antonino, in casa di Dami. Qui furono gettate le linee di un piano di difesa di Firenze: questo piano si proponeva di disturbare i tedeschi nella ritirata, e ostacolare le loro azioni di razzia e di rappresaglia. Il piano fu oggetto di una relazione che Leone si incaricò di consegnare al Comando Militare del Partito. Terminato questo lavoro verso la metà di luglio, i membri della Commissione andarono ad assumere compiti diversi nelle formazioni partigiane impegnate nelle operazioni in città. Io venni assegnato al Comando dei SAP (Squadre di Azione Partigiana) della III Zona, dove già operavano Alfredo Mazzoni, Fosco Ricci e Renzo Tanfi. La III copriva tutta l’area della città entro i Viali e l’Arno.

La sede del Comando era in Via dei Fossi: una ubicazione assai poco favorevole, perché troppo marginale rispetto ai viali, al torrente Mugnone e alla ferrovia di Campo di Marte, prevedibili punti strategici della ritirata nemica. Quella sede inoltre era scomoda da raggiungere, perché le strade di Firenze in quei giorni erano percorse frequentemente da pattuglie tedesche, le quali catturavano tutti gli nomini validi che incontravano, i quali venivano dapprima concentrati alla Fortezza da Basso e in un secondo tempo trasportati con camion militari sull’Appennino, per essere impiegati in lavori di fortificazioni. Il pericolo per il nostro Comando era quindi di poter rimanere isolato, perché si temeva, come poi avvenne, che a un certo momento non avremmo avuto più la possibilità di raggiungere la sede del Comando dalle nostre case, nelle quali ogni sera ancora rientravamo. Urgeva pertanto trovare per il Comando una ubicazione più strategica. Da tempo Roberto Martini era riuscito a mettersi in contatto con il Capitano di polizia Arista. Questi si era dichiarato disposto a far entrare dei partigiani nel corpo provvisorio di Polizia della città di Firenze; corpo che egli stava costituendo presso la Questura, ai sensi delle norme internazionali per il tempo di guerra, al fine di tutelare la sicurezza in città al momento del trapasso da un esercito all’altro. Venne così ad aprirsi la prospettiva di trasferire clandestinamente il comando della III Zona proprio nella Questura. Il 29 luglio, il Comando tedesco ordinò, in preavviso della ritirata lo sgombero a mezzo di manifesti di tutte le case prospicienti l’Arno. Da questa ordinanza apparve con chiarezza l’intenzione del Comando germanico di far saltare i ponti sull’Arno. Ciò veniva a rendere ancora più precaria l’ubica zinne del nostro Comando partigiano di Via dei Fossi; tanto il suo trasferimento nei locali della Questura vene affrettato: il Questore Manna, per iniziativa dei partigiani già entrati a far parte del corpo provvisorio di polizia comando di Arista, fu improvvisamente bloccato nel suo ufficio; nella confusione generale che dominava in città, egli non sapeva più a che santo votarsi e s’impegnò con i partigiani a non far rilevare la loro presenza in Questura qualora, come poi avvenne, i tedeschi si fossero presentati per impartire degli ordini.

Il 3 agosto una nuova ordinanza del Comando germanico proclamò lo stato d’emergenza; il che venne a bloccare i nostri movimenti: infatti alcuni di noi vennero a, trovarsi nell’impossibilità di attraversare la città per raggiungere la nuova sede del Comando. In particolare io, che’ abitavo al di là della ferrovia del Romito, nella zona di Piazza Vieusseux, mi venni a trovare nell’impossibilità di attraversare i ponti sul Mugnone, sorvegliati da pattuglie militari tedesche. In effetti l’ordinanza tedesca avvertiva che le pattuglie avevano l’ordine « di sparare contro le persone » che venissero trovate per strada, oppure che si mostrassero alle finestre. Di conseguenza io rimasi bloccato in casa per qualche giorno, fino a quando una mattina non venne a rilevarmi la compagna della Galileo Maria, la quale in quei giorni stava svolgendo un lavoro prezioso di staffetta per conto del Comando della III Zona. Essa mi portò un bracciale della Questura, con la scritta « Città di Firenze – Polizia », e una tessera della polizia, dalla quale risultava che io ero un chimico-farmacista, autorizzato a circolare in città per esigenze sanitarie. Indossai il bracciale e immediatamente usciti di casa accompagnato da Maria: insieme ci dirigemmo verso la Questura; ma giunti al ponte sul Mugnone in corrispondenza di Via Agnolo Poliziano, scorgemmo una pattuglia di soldati tedeschi armati di mitra, che sorvegliava il ponte: decidemmo di fingere di non dar peso alla sua presenza. D’altra parte non avevamo altra scelta, perché tutti i ponti erano sorvegliati e quello di Via Poliziano era il meno importante. Arrivati vicino alla pattuglia, notammo una grossa macchia di polvere gialla per terra, e ci rendemmo conto che il ponte era stato minato. Maria era convinta che i soldati mi avrebbero ,arrestato, invece essi non fecero caso alla nostra presenza e noi potemmo passare indisturbati. Il bracciale aveva funzionato a meraviglia. In Questura potei unirmi agli altri membri del Comando; inoltre vi trovai Martini che si dava da fare per ospitare appena fosse stato possibile una Commissione politica del CTLN. Mentre ferveva il lavoro per l’evento decisivo, ci ponemmo il problema di dove passare la notte, dato che la Questura era colma di partigiani-poliziotti. Fosco Ricci aveva con sé la moglie, e del Comando faceva parte una seconda donna, arrivata con Tani, che fungeva da segretaria del Comando. Maria invece, potendo le donne circolare in città, alla sera rientrava a casa sua.. Con l’aiuto della Questura fu trovato un appartamento disabitato in Via Santa Reparata. I suoi inquilini erano sfollati da tempo e, con l’aiuto della polizia, l’appartamento fu requisito e consegnato al Comando, costituito da 5 uomini e due donne, i quali trovarono il modo di sistemarsi alla meglio per la notte. Da quel rifugio ogni mattina ci trasferivamo in Questura, che si trovava a due passi, e lì trascorrevamo la giornata in attesa degli eventi; per il vitto provvedeva la stessa Questura coni viveri di scorta che essa possedeva nelle cantine. Il problema più grave era costituito dalla mancanza d’acqua, provocata dalla interruzione dell’energia elettrica, avendo i tedeschi fatto saltare una centrale.

Intanto una parte della città era sotto il tiro delle bombarde degli alleati, i quali avevano occupato l’Oltrarno; le bombe cadevano soprattutto oltre i viali. La mattina giorno 11 fummo svegliati di buon’ora da una grande esplosione: era saltato il ponte sul Mugnone di Via Poliziano Una seconda esplosione più lontana riguardava il ponte Via dello Statuto. Invece il Ponte Rosso, sebbene minato non saltò. Alle 6 e 45 la campana di Palazzo Vecchio e quella del Bargello diedero il segnale dell’insurrezione. Noi avevamo già raggiunto la Questura, mentre in molte strade era cominciato un fuoco di fila. Come primo obiettivo occorreva determinare la nuova linea assunta dallo schieramento tedesco: gruppi di partigiani percorsero le strade che conducevano al Mugnone e alla ferrovia di Campo di Marte. Vi furono parecchi caduti nelle operazioni di avvicinamento alla linea nemica, particolarmente al Ponte del Pino; vi furono anche dei caduti per l’azione di franchi tiratori fascisti, che dalle finestre e dai tetti sparavano sui partigiani. Fra i caduti di quel primo giorno va ricordato Ettore Gamondi: il direttore della Galileo, uscito dal carcere, s’era nascosto nelle vicinanze di Via San Gallo, in prossimità del Comando della III zona. Scoppiata l’insurrezione era sceso in strada armato di una pistola, e spontaneamente si era unito ai nostri partigiani; con essi aveva raggiunto l’attuale piazza della Libertà, dove erano convenuti anche uomini di altre formazioni; in Via Madonna della Tosse i partigiani furono fatti segno ad alcune fucilate. Vi fu anche qualche ferito. Lo stesso Gamondi avverti che la situazione era pericolosa, ma egli, dominato da uno spirito di rivolta per le violenze subite, si pose alla testa di un gruppo di partigiani e, imboccata Via Berchet, la percorse strisciando lungo le case. Qui gli abitanti segnalarono la vicinanza dei tedeschi; ma Gamondi incurante del pericolo arrivò fino all’estremità della via: come girò l’angolo verso la ferrovia, una raffica di mitragliatrice lo abbatté, fulminandolo. I pochi uomini che erano con lui furono costretti ad arretrare. Circa una settimana dopo, quando i tedeschi si erano ulteriormente arretrati, il cadavere di Gamondi fu identificato e recuperato dal tecnico Felli, un ex dipendente della Galileo, che aveva preso parte a quella operazione la mattina dell’11 agosto, ed era stato ferito proprio all’altezza della chiesa della Madonna della Tosse. Questa ricostruzione della morte di Gamondi la devo proprio al Felli, che dopo il ritrovamento del cadavere venne al Comando della III Zona e mi riferì in merito.

In quei giorni il Comando della III Zona emise un bollettino quotidiano a stampa sullo sviluppo della situazione militare nel territorio di sua competenza. Il bollettino veniva distribuito alla popolazione del centro, ch’era rimasta priva di notizie, perché a Firenze non giungevano ancora i giornali, e la mancanza di energia elettrica non dava la possibilità di ascoltare la radio. Intanto in questura si era insediata la Commissione politica di Controllo del CTLN, presieduta dal giudice Emilio Gabrielli del PSI, e dai membri Corrado Ciruzzi (PLI), Roberto Martini (PCI), Arrigo Paganelli (DC) e Armando Severi (P. d’A); tutti gli uomini sospetti e i fascisti snidati dai partigiani venivano arrestati e concentrati nel cortile della Questura. Qui, dopo un esame della Commissione di Controllo, tutti coloro che erano ritenuti responsabili di connivenza col nemico venivano rinviati a giudizio. Il giorno 15 giunsero le prime truppe alleate, e nei giorni successivi, per iniziativa del CTLN, furono sciolte tutte le formazioni partigiane cittadine. Coloro che vi facevano parte passarono nelle file della divisione Potente, il cui Comandante Aligi Barducci era caduto, in Piazza Santo Spirito l’8 agosto, nella battaglia per la Liberazione di Firenze. A questo punto il nostro Comando si sciolse, lasciando in funzione solo un ufficio stralcio.

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