Lallo Bruscani (Andrea)

 

bandierarossa 

LALLO BRUSCANI (ANDREA)

Gappista

Chi è Lallo Bruscani? Come inizia la sua attività politica il suo impegno nella Resistenza?

 

Io provengo da una famiglia antifascista. Mio padre era repubblicano, dieci figli, tutti antifascisti; ho vissuto la prima giovinezza in piazza Montanara, davanti l’ufficio dell’anagrafe, poi ci siamo trasferiti in via Giulia 28. Mio padre era un tappezziere, la tappezzeria Bruscani fu una delle prime di Roma, e nel 1924 fece gli addobbi della camera della Regina Margherita, moglie di Umberto guad agnando 24 mila lire, una cifra enorme per quei tempi, che ci consenti di comprare questa casa. Sono cresciuto nell’ ambiente antifascista di via Giulia e di Campo De’ Fiori; ricordo il negozio di Collalti il ciclista di via del Pellegrino; la sua bottega fu un centro del movimento antifascista dell’epoca, e proprio li, in seguito, ho conosciuto una serie di antifascisti: Rivabene, Guido Rattoppatore, Mangiavacchi, Labò, Franco Ferri, che è stato deputato ed è morto recentemente e che fu uno dei Gappisti più famosi di Roma insieme a Bentivegna, Balsamo, Fiorentini e tanti altri. Nel 1941 Gino Mangiavacchi mi presentò ufficialmente al partito. Mi dette mezza lira di carta, che avrei dovuto confrontare con l’altra metà in possesso della persona che dovevo incontrare; era questo uno dei metodi per riconoscersi, allora, militare nel partito comunista era una cosa pericolosa.

Mangiavacchi mi fornì un indirizzo dove avrei incontrato un pittore, un certo Guttuso. Io ero militare, prestavo servizio nella ottava compagia di sussistenza, a piazza Vittorio, presso il panificio militare, e la divisa copriva la mia attività di antifascista. Mi recai a quell’indirizzo, a viale Giulio Cesare e dissi che cercavo Guttuso. Si presentò un giovane alto e biondo e io pensavo che si trattasse di Guttuso, ma seppi poi che si trattava di Mario Alicata, un dirigente del partito comunista. Mi parlò a lungo e ricordo che fu un bel colloquio. Una frase mi colpì molto, una frase che ancora oggi ricordo; Alicata mi disse: «… noi siamo la pattuglia avanzata della classe operaia…». Fu così che iniziò la mia di attività politica di antifascista.

 

Qual era il tuo ruolo nella Resistenza?

 

Io ero dirigente politico del secondo settore della quarta zona; ero dirigente politico ma partecipai anche ad azioni armate. Il partito era allora organizzato per settori e zone della città, io facevo parte della zona che comprendeva Trastevere, Campo Marzio, Piazza del Popolo, Campítelli e strano come fui eletto segretario politico della quarta zona: A piazza Sforza ci sono due trattorie, in una di queste, vicino al bar, ci fu una riunione di una trentina di persone e tutto questo avvenne pubblicamente, nonostante i tedeschi già occupassero la città. Io non ero presente ma Rattoppatore, che era mio amico, prese la parola e parlò dell’antifascismo, dell’organizzazione del partito, della lotta di propaganda, dei manifesti e delle azioni e alla fine mi propose segretario e fui eletto per acclamazione nonostante la mia assenza. Quella sera non uno dei partecipanti a quella riunione si rifiutò di aderire alla lotta clandestina. Rattoppatore era un tipo così, temerario, non si controllava, non era prudente; io invece ho sempre pensato che la mia vita, se potevo, dovevo portarla in salvo. Ricordo l’azione per cui furono arrestati Rattoppatore, Umberto Scattoni e altri antifascisti, l’azione al cinema Adriano; quell’azione che era stata affidata al partito della quarta zona, doveva colpire la polizia fascista. Fu collocata una bomba sotto il palco ma non esplose. Guido fu mandato a Forte Bravetta e fu fucilato nel marzo del ’44.

 

Che faceva un dirigente politico dei Gap?

 

Riunioni innanzitutto, poi tenevo i rapporti tra la zona e il partito, avevo molti contatti con Pietro Amendola, fratello di Giorgio. Era un compagno bravissimo e mi dava incaríchí molto precisi. Io andavo spesso a prendere la stampa al Babuino, con un triciclo, coprivo l’Unità con un panno, attraversavo via Flaminia, il Tevere, insomma giravo per le strade della città. Il centro della raccolta della stampa era a casa di Guido Rattoppatore, a vicolo Morbidelli, e circolava per capigruppo: uno a Campo dei fiori, uno a Via Giulia. Uno dei centri era anche il bar Casini.

 

Ci fu un’azione alla quale partecipasti in prima persona?

 

Si, ricevetti da Guido Rattoppatore l’incarico di partecipare ad un’azione contro una spia fascista e per la quale avrei dovuto prendere contatti con un partigiano cattolico. L’appuntamento era nei pressi di piazza della Rotonda, in via Della Minerva. Lì c’era un piccolo alberghetto, entrai e vidi questa persona che venne verso di me e si presentò, con lui c’era anche una donna, piccola di corporatura, che aveva il compito di indicare la spia. Noi eravamo in borghese ma io ero tenente e

lui capitano della polizia e usavamo nomi falsi. La donna ci accompagnò fino a Campo dei Fiori, davanti al cinema Romano, ora cinema Farnese e cí indicò la spia fascista trattenendosi vicino a lui. Noi intervenimmo dicendo che eravamo della polizia e che doveva seguirci mentre la nostra compagna si dileguò. Lui, non immagiinava che eravamo partigiani ci disse subito che era un

delatore dei fascisti quasi vantandosene. Lo portammo verso vicolo delle piazza della quercia dove c’era unìosteria. C’era gente lì fuori. Io mi avvicinai e dissi con discrezione che avevamo preso una spia fascista e dovevano chiudere e sparire; così fecero, e dopo un minuto non c’era più nessuno. Mentre andavamo verso il Tevere incontrammo Fernando Mella, che aveva saputo e ci veniva incontro con apprensione. Mella era appena uscito da Regina Coeli, dove era stato incarcerato

insieme ad Alicata, Natoli ed altri antifascisti. Quando ci vide capì che avevamo in mano la situazione e proseguì rivolgendoci appena un cenno. Arrivammo sul Lungotevere, traversammo via Giulia fino a ponte Sisto, salimmo sul marciapiede sinistro e lì colpimmo la spia.

 

Parliamo della guerra, considerata dall’ideologia fascista l’igiene del mondo. Come avete vissuto le guerre del fascismo? L’Albania, l’Abissinia, la Spagna…

 

La guerra di Spagna del 1936 fu sentita molto anche a Roma. Settori antifascisti diffondevano le notizie della guerra civile e facevano campagna contro l’adesione all’esercito franchista; ci fu anche risentimento verso le camicie nere che partivano volontarie per la Spagna. Io conobbi diversi compagni che aderirono all’altro fronte, quello delle brigate internazionali che difendevano la democrazia.

Invece, per quanto riguarda la guerra d’Abissinia ci fu maggiore consenso popolare. Molti credevano alla promessa del lavoro nelle terre di conquista, speravano di migliorare le proprie condizioni economiche. Mussolini, d’altronde, infiammava gli animi con la sua retorica. Ricordo che una sera si teneva un comizio a Piazza Venezia. La piazza era colma di gente. Io mi trovavo in Largo Tassoni; vicino l’edicola c’era un gruppetto di operai che parlava con un militare il quale, in modo molto pacato, cercava di convincerli che la guerra d’Abissinia avrebbe migliorato la loro condizione. Gli ricordò che avevano bisogno di un lavoro e citò una frase che aveva pronunciato il Duce, e cioè: se i nostri caduti avessero saputo di un’Italia risorta, che lavorava, che produceva, avrebbero esultato di gioia sotto la terra che li ricopriva.

Capii subito che quella frase aveva prodotto un certo effetto e questo effetto era indicativo del consenso che Mussolini ebbe per la guerra in Abissinia.

 

Voi antifascisti immaginavate che l’entrata in guerra, attraverso un percorso comunque tragico, poteva decretare la fine del fascismo? Oppure pensavate che le prime vittorie naziste avessero fortificato il regime?

 

],o scoppio della guerra non suscitò entusiasmo a Roma. In piazza Cavour, ci fu una manifestazione di reduci della prima guerra mondiale alla quale si era unito un gruppo di fascisti. Ricordo che venivano dal lungotevere con le bandiere inneggiando allo scoppio della guerra e cercando di raccogliere adesioni. Queste adesioni non ci furono. Il popolo romano raccolse la notizia con estremo timore e paura; ricordo di un cantastorie, uno di quelli che vanno in giro per le piazze con la chitarra, che, per lo scoppio della guerra, cantava uno stornello che diceva: «..su, non vi avvilite, ma se potete, continuate a stare allegramente…». Nei giorni che seguirono, a piazza Sforza, si ascoltavano i primi comunicati di guerra del giornale radio. Ricordo il comunicato di richiamo alle armi: tutti i giovani andarono sotto la caserma di piazza Pepe. Ad un tratto suonò l’allarme. Sulla città stavano volando due aerei francesi; scendemmo immediatamenw in cantina, si sentiva distintamente la contraerea. Ai primi colpi vidi i segni della paura sul volto di quei giovani. Un maresciallo che, se non ricordo male, si chiamava Santi, disse: «beh, cosa credevate che i francesi non ce l’avevano gli aerei?». Era già un’ affermazione pericolosa da fare in quel periodo. Gli aerei lanciarono soltanto dei volantini, ma rimasero per un’ora e mezza sul cielo di Roma. Dopo l’allarme andai dal maresciallo e gli dissi: marescià, un’ora e mezza non è poco,. ..con tutto quel fuoco di contraerea…». Lui mi guardò e scosse il capo; ci capimmo subito. Dov’era questa potenza fascista? Se al posto di volantini fossero state bombe?

 

Lallo, Fini ha detto che Mussolini è stato il più grande statista di questo secolo…

 

Guarda Mussolini è stato un uomo che non ha capito niente dei rapporti internazionali, neanche la forza del suo stesso alleato e quando l’ha capito ha fatto il vigliacco con la Francia, ha fatto il vigliacco con la Grecia; si è macchiato dei crimini più efferati. Ricordate i mille morti che gli occorrevano per stare al tavolo delle trattative? Era sciocco e vile. Servile verso Hitler, ma con l’aria del presuntuoso. Mussolini è stato l’uomo più servile che l’Italia abbia mai avuto dall’indipendenza a oggi. Un uomo che ha vissuto di demagogia. Una sua affermazione circolava a Roma come barzelletta; una di quelle frasi a effetto sostanzialmente vuota. Era questa: « Camerati, in questo momento solenne, io vi dichiaro solennemente, la solennità di questo momento». Il nulla… eppure c’era gente che batteva le mani.

 

Cosa ricordi dell’esecuzione di Mussolini?

 

Mussolini fu giustiziato perché noi comunisti convincemmo tutte le altre forze del Cln, compresi i liberali, della necessità di sopprimerlo, non soltanto perché doveva pagare, ma perché la sua morte avrebbe inferto un colpo decisivo ai residui dottrinari del fascismo, e noi sapevamo quanto erano pericolosi; basti pensare a quanti giovani aderirono alla Repubblica di Salò. Questo evento con tutto ciò che seguì, non ultima la ricerca dell’esecutore materiale della sentenza di morte, fu strumentalizzato da settori reazionari, i quali volevano sfruttare la morte del Duce per motivi politici e contro il Pci.

D’altronde, la reazione di Piazzale Loreto non fu condannata da nessuno, perché era stata una giusta reazione, non soltanto a tutti i crimini del fascismo, ma anche perché, qualche giorno prima, i fascisti, in quella stessa piazza, avevano alzato le forche. Lì ci fu solo la rabbia popolare, non ci fu nessun ordine, avvenne spontaneamente per il disprezzo e l’odio contro quei criminali: gli Starace, gli Arpinati… Io non nutro nessun rimorso o ripensamento. So che ultimamente se ne è parlato anche in televisione, ma, per capire, bisogna tenere conto di quella realtà; i partigiani, i combattenti, g1i antifascisti, il rancore, i morti, le stragi delle brigate nere, la guerra; non era facile tenere a freno le masse che avevano subito il Fascismo sia sul piano collettivo che individuale. Anche sul piano familiare, scattavano meccanismi tipo: « quello ha ammazzato mio fratello e io l’ammazzo». Bisogna immedesimarsi in quel clima per capire in quelle circostanze, in quella bolgia di odio che si era scatenata. Io non giustifico sul piano prettamente politico gli eccessi che ci sono stati, ma li comprendo. Il fascismo aveva condotto l’Italia alla rovina, alla guerra, la mancanza di libertà e di democrazia; la lotta è stata giusta. Mussolini è stato giustiziato. Non si può fare un processo alla rivoluzione; quando scoppia, i processi non si possono fare. È la rivoluzione e basta.

 

Dopo il ’45 tu hai pensato che era possibile realizzare il socialismo in Italia?

 

Quando Togliatti coniò il termine «democrazia progressiva» si rendeva conto che la situazione italiana il rapporto con gli alleati era condizionata da Yalta; non si poteva prescindere da quell’accordo. La democrazia progressiva voleva dire procedere nel tempo verso una società socialista.

 

Ma durante la guerra fredda voi comunisti, che avevate dato un contributo determinante alla guerra di liberazione siete stati emarginati dalla politica, considerati addirittura nemici della patria agli ordini di Stalin…

 

Non sono del tutto d’accordo. La Dc ha sempre agito non sottovalutando mai la forza del nostro partito. Agiva in modo da preservare il potere, il consenso, ma per quanto riguarda le questioni più importanti ha agito con prudenza.

Tant’è vero che questa prudenza è stata interpretata come caratteristica del sottogoverno democristíano-comunista. Noi, d’altronde, abbiamo capito la situazione italiana e abbiamo sostenuto la politica della democrazia progressiva. Tant’è vero che, dopo l’attentato a Togliatti, invitammo i compagni alla calma. Quel giorno non avete idea di cosa facemmo per calmare gli animi; c’era gente, anche dirigenti del partito, che volevano spaccare tutto. E infatti dopo ci fu una dura rea- zione poliziesca ordinata dal Governo che ci costrinse a nascondere centinaia di compagni che scappavano per- ché ricercati per i fatti accaduti in quelle ore a Torino, a Milano, in altre città. Ricordo che d’Onofrio mi diceva: «Mandali dove vuoi ma non scrivere mai dove vanno».

 

Con quella lotta avete conquistato la democrazia e l’avete consegnata alle generazioni future. Ma la democrazia si conquista una volta per sempre?

 

La democrazia è una conquista giornaliera. Non si conquista una volta per tutte perché il pericolo di una involuzione antidemocratica è sempre in agguato, insito nella situazione sociale ed economica di un paese; la democrazia, poi, necessita di un alto grado di maturità delle masse popolari.

Io, per esempio, dopo tanti anni di battaglie democratiche, non me l’aspettavo l’abbaglio berlusconiano. Da dove viene? Come mai milioni di italiani, inconsapevolmente, in virtù di false promesse, hanno votato per Berlusconi?

 

Cosa può dire ancora un vecchio partigiano ai giovani senza cadere nella retorica?

 

I giovani devono essere coscienti della loro forza, della loro capacità di lavoro. Devono sapere che non tutto viene dall’alto, che non bisogna farsi comandare né da tiranni, né da padroni; i giovani non debbono farsi manovrare. Li invito a coltivare valori come l’amicizia e la solidarietà.

 

 

 

 

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