Archivio mensile:aprile 2013

La notte che ho liberato Auschwitz

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Il 27 gennaio del 1945 il soldato dell’Armata Rossa

Yakov Vincenko spalanca il portone con la scritta

“Arbeit macht frei” e scopre l’orrore. Ecco il suo

racconto

Nell’ombra, avvertii una presenza. Strisciava nel fango, davanti a me. Si voltò e apparve il bianco di occhi enormi, dilatati.

Tacemmo: da lontano ci investiva l’eco smorzata degli scoppi. Tra i due, solo io sapevo che erano i

colpi dell’artiglieria tedesca in fuga. Pensai ad uno spettro, mi assalì il dubbio di essere stato colpito, magari ucciso. Non sognavo, ero di fronte ad un morto vivente. Dietro a lui, oltre la nebbia scura, intuii decine di altri fantasmi. Ossa mobili, tenute assieme da pelle secca ed invecchiata. L’aria era irrespirabile, un misto di carne bruciata ed escrementi. Ci sorprese la paura di un contagio, la tentazione di scappare. Non sapevo dove fossi sbucato. Un commilitone mi disse che eravamo ad Auschwitz. Abbiamo proseguito, senza una parola».

Yakov Vincenko ha 79 anni ed è uno degli ultimi liberatori sopravvissuti dell’Armata Rossa sovietica. Raggiunse il campo di sterminio con la divisione di fanteria numero 322, Fronte ucraino.

Aveva 19 anni. Venti mesi prima era stato ferito nella battaglia di Kursk, quasi due milioni di soldati russi uccisi dai nazisti.

«Ho passato il primo filo spinato alle 5 di mattina — racconta — : era buio, sabato 27 gennaio 1945. Non era gelido, solo tracce di neve marcia. La sera prima, nella notte, il combattimento aveva preteso molte vite. Temevo i cecchini lasciati di guardia. Al riparo di un bidone ho visto il maggiore Shapiro, un ebreo russo del gruppo d’assalto della centesima divisione, spalancare un grande cancello. Dall’altra parte un gruppo di vecchi minuti, ma erano bambini, ci ha sorriso ». Solo dopo anni ha appreso di aver assistito allo schiudersi dell’ingresso dell’inferno, sotto la scritta “Arbeit macht frei”. «Mi sono alzato per avanzare. Ho guardato nel bidone: era colmo di cenere, emergevano frammenti di ossa. Non ho capito che erano resti di chi era stato là dentro».

Ho aperto la porta delle baracche, all’interno uomini moribondi pregavano, temevano li ammazzassi.

Quando ho detto loro che erano liberi, non percepivo felicità. Li vedevo sollevati ma non avevano la forza per reggere la gioia

Gli spettri del soldato Yakov

Yakov Vincenko, sessant’anni dopo, è seduto ad un tavolo nella sede del comitato dei veterani

di guerra, nel centro di Mosca. Sopra di lui i ritratti di Marx, Lenin, Stalin e del generale Zhukov. «Un tipo con cui era meglio non discutere — dice — . Stalin gli aveva ordinato di non risparmiare

soldati. Lui ha onorato l’impegno». È ancora un uomo asciutto, rigido ed eretto sopra stivaletti con un certo tacco: quando cammina è costretto a procedere spedito. Veste come un povero, gli abiti lisi sembrano non appartenergli.

Tra pochi giorni sarà a Cracovia e tornerà alla polacca Oswiecim. Alla commemorazione della liberazione del campo di sterminio, assieme a 48 capi di Stato e ad una folla di anonimi, andrà con gli ultimi due compagni d’armi: uno vive a San Pietroburgo, l’altro a Minsk, in Bielorussia.

Non è la storia dalla parte dei liberatori: l’orrore piuttosto, osservato con gli occhi stanchi e spaventati di soldati che non poterono riconoscere la sua dimensione. «Mi hanno chiesto di ricordare ancora — dice — ma invecchio e il mio passato si confonde.

Scopro sui libri attimi che ho vissuto e mi sorprendo. L’emozione però non accetta di liberarmi. È la seconda volta che riesco a tornare nel campo, non è un viaggio che si esaurisce in una visita.

Un’ex internata ebrea mi ha scritto di lasciare un sasso per lei: non ha mai trovato la forza di rivedere la baracca e il forno crematorio che hanno inghiottito la sua famiglia».

Il vecchio soldato, una pensione di guerra da 60 euro al mese, sul fronte occidentale russo ci finì per caso e quasi bambino. Sorte e adolescenza rubata, incoscienza, hanno condotto i suoi passi nel labirinto dell’Olocausto, ancora ignorato. «Era l’estate del 1941 — racconta — e vivevo a Mosca.

Finita la scuola, fui mandato dai genitori a Vinnitza, in Ucraina, il nostro villaggio natale. Avrei dovuto aiutare il nonno in campagna. Due settimane dopo, per non lasciare ai tedeschi nemmeno i ragazzi, mi precettò l’Armata Rossa. Giochi, sogni, progetti, sono crollati in un giorno: a 15 anni mi sono ritrovato soldato, una baionetta del 1891 in spalla e le granate che ci stavano nelle tasche. Ero fortunato: l’esercito sovietico era così sguarnito che solo uno su quindici aveva il fucile.

Per questo, mi sono salvato».

Quattro anni tragici, tra disperazione, fame e attesa della fine. L’armata nazista avanzava verso il cuore dell’Urss. L’assedio a Leningrado, il massacro alle porte di Mosca: e Hitler che, fino alla disfatta di Stalingrado, sembrava inarrestabile. Yakov Vincenko sparò il suo primo colpo a Voronezh

nel 1942, agli ordini del generale Vatutin. «Nessuno mi aveva spiegato come comportarmi. Il Fronte ucraino era un’armata di bambini, spinta avanti per localizzare i nemici e consumare le munizioni dei tedeschi. Dopo otto mesi di resistenza nel sud della Russia, siamo avanzati verso l’Ucraina.

Dai tre ai venti chilometri al giorno: a Kursk, a Kiev nel 1943, in Galizia e infine a Sandomir in Polonia. Nell’autunno del 1944 ormai il morale era cambiato, i nazisti erano in rotta.

Quando abbiamo conquistato Cracovia, ai primi di gennaio del 1945, i generali ci dissero che se riuscivamo a sopravvivere ancora pochi mesi, saremmo tornati a casa».

Il ritorno a casa

Non finì così. L’Unione Sovietica aveva perduto tra i 25 e i 30 milioni di persone, l’esercito era decimato. Vincenko, ormai un uomo ferito quattro volte, il 9 maggio apprese di essere un vincitore a Praga: ma a casa è tornato sette anni dopo, non trovando più qualcuno ad aspettarlo.

«Quel giorno ad Auschwitz — dice — è diventato centrale nella mia vita solo quando anche il mondo ha elaborato una coscienza della verità e della vergogna. Nemmeno noi, che abbiamo visto, ci volevamo credere.

Ho sperato per anni di riuscire a dimenticare: poi ho capito che sarebbe stato comportarsi da colpevole, diventare complice. Così, ricordo. Non sono riuscito a comprendere come sia potuto succedere, ma a chi nega l’Olocausto dico: credete a me, che quando ero lì ho cercato di convincermi che non fosse vero».

Le truppe di Stalin non sapevano cosa fosse un campo di sterminio. Solo gli alti comandi, a Cracovia, erano stati informati di trovarsi sulla strada del Lager di Auschwitz-Birkenau. Il 18 gennaio, alla vigilia dell’offensiva, gli ufficiali sovietici appresero che dal campo era stata fatta partire una colonna

di 80mila prigionieri, scortata dai nazisti verso la Germania. Da dicembre, Himmler aveva ordinato di

cessare le esecuzioni e di demolire le camere a gas. «Tra noi e le baracche — racconta Yakov Vincenko — si frapponeva una tripla linea di difesa tedesca.

Dovevamo superare la Vistola e il fiume Sola, i ponti e i campi erano minati. Il 25 gennaio il generale Fiodor Kravasin fece avanzare fucilieri e carristi, rinforzati da un gruppo d’artiglieria.

Sono morti a centinaia, costruendo ponti di legno nella corrente. Una resistenza tanto accanita, da parte dei nazisti in ritirata, ci sembrava insensata ». I vertici delle “SS” avevano dato ordine di distruggere le prove del genocidio, di sterminare gli ultimi testimoni della “Soluzione Finale”.

«Sapemmo poi — prosegue Vincenko — che la notte prima dell’assalto un ufficiale tedesco, dopo la cattura, aveva confessato ai nostri che il forno crematorio di Birkenau era pronto per saltare in aria. Il maggiore Malenko, con due artificieri, due elettricisti e una pattuglia di esploratori, evitò che esplosioni e fiamme cancellassero forni, camere a gas, baracche e fosse comuni». Non è stata invece eroica la liberazione di Auschwitz del soldato semplice Yakov Vincenko.

«Dopo la mezzanotte del 27 gennaio fui svegliato e buttato avanti. Camminavo alla cieca, spinto da sonno e paura: non mi sono nemmeno accorto di essere entrato nei 40 chilometri quadrati occupati dai 39 campi di lavoro, detenzione e sterminio del complesso di Auschwitz, Birkenau e Monowitz».

L’ordine ufficiale era di non fermarsi, si inseguire i tedeschi per farli arretrare.

«Il comandante della prima compagnia, Maksim Ciaikin — ricorda il vecchio reduce — fu centrato da

una raffica esplosa da una torre di avvistamento.

Seguì un sanguinoso fuoco a corta distanza. Poi il silenzio, quasi fossimo penetrati nel vuoto. Per

mezz’ora, passati i reticolati e fino al cancello, ho camminato da solo e nel fango. Non era giorno quando ho incontrato il primo morto vivente ed è stato meglio così».

Ora cita a memoria i numeri dell’Olocausto di Auschwitz, avvertendo della sua incertezza:

1 milione e 300 mila morti, o

3 milioni, o

6 milioni, ancora non sa.

Nove su dieci erano ebrei: gli altri zingari, omosessuali, prostitute.

Fino a 5 mila vittime al giorno, con i forni a pieno regime.

I 600 evasi in quattro anni,

400 dei quali ripresi, impiccati davanti ai compagni

dopo essere stati costretti a marciare

a ritmo di musica sotto il cancello

principale.

Al collo un cartello: «Evviva, sono tornato».

«Ma io — dice Vincenko — ho incontrato solo spettri. Quando siamo entrati, nel campo restavano 17 mila prigionieri». I bambini nelle baracche «Donne, bambini, malati: erano incapaci di muoversi, per questo erano stati abbandonati nelle baracche. I tedeschi non avevano avuto il tempo di ammazzarli tutti. C’era una puzza asfissiante, l’odore dolciastro e acre della morte che ancora mi pare di sentire.

Sono passato davanti a scheletri accovacciati nella melma gelata. Non parlavano, mi seguivano con sguardi di terrore. Gli ultimi giorni, per fare in fretta, i nazisti li fucilavano a migliaia sul bordo delle fosse comuni. Poi bruciavano tutto. Così sono stati inceneriti anche 29 su 34 depositi di beni sequestrati

ai deportati. Ho aperto le porte di quattro baracche: in ognuna 24 persone, polacchi, russi, francesi,

tutti ebrei. Erano stesi, moribondi: qualcuno pregava, credevano li ammazzassi.

Sulla tuta a righe, esibivano la scritta “Ost”, o la stella di Davide.

Uno mi mostrò un numero tatuato sull’osso di un braccio. Le assi erano coperte di stracci ed escrementi, si soffocava. Non posso dire di aver percepito felicità, mentre dicevo loro che erano liberi. Li vedevo sollevati, gli occhi si riaccendevano: ma non avevano la forza di reggere una gioia».

Fu uno dei mattini più disperati del mondo. Solo la vaghezza contingente della realtà salvò i liberatori dall’abisso della Shoah. «Non avevamo tempo per sostare, i sopravvissuti erano allo stremo, la maggioranza non parlava russo. Alcuni francesi mi hanno seguito per scappare, un gruppo di

ebrei polacchi si è dileguato tra gli alberi, accennando una corsa. Una bambina mi si attaccò ai pantaloni, credo per cercare cibo. Il tenente maggiore Subotin mi avvertì che potevo contrarre qualche virus, ero spaventato.

Sapevo che stavano arrivando gli ufficiali medici e le cucine da campo: la lasciai lì, mi vergogno. Ancora

la penso, mi chiedo se sia stata salvata, come altri 2.819 detenuti, se sia vissuta e come, se l’esistenza le abbia riservato un risarcimento: e se ricorda il soldato sovietico, poco più grande di lei, che non ha avuto il coraggio di prenderla in braccio».

Yakov Vincenko si ferma e tace, restando a guardare con un sorriso ambiguo. Dopo una pausa, simile alla ricerca abituale di un’espiazione, aggiunge che però non esistono parole per descrivere,

che non l’aveva mai fatto prima. E che l’esultanza, la sicurezza degli eroici liberatori sovietici, la riconoscenza dei sopravvissuti liberati, l’ha scoperta soltanto nei film. «La verità è che quel 27 gennaio nessuno di noi soldati si rese conto di aver varcato un confine da cui non si rientra, e che i prigionieri non seppero raccontare.

Era chiaro che su Auschwitz incombeva qualcosa di terribile: ci chiedevamo a cosa fossero servite

centinaia di baracche, quelle ciminiere, certe stanze con le docce che emanavano un aroma strano. Pensai a qualche migliaio di morti, non allo Zylkon B e alla fine dell’umanità».

Era mezzogiorno quando il comandante Lebedev alzò la bandiera rossa sopra il cancello di Birkenau. Yakov Vincenko era già lontano, sette chilometri più avanti, alle porte della cittadina di Oswiecim per braccare i tedeschi e strappare loro i prigionieri. «Solo allora — dice — un gruppo di bambini

sciamò da una baracca che sembrava vuota e osò gridare “libertà, libertà” nel campo semideserto. La sera me lo raccontò un compagno, ucciso poi sull’Oder, al mio fianco. Ma io quelle grida non le ho sentite, ad Auschwitz non ho incontrato vita, o la speranza. E nella notte mi sono lavato la divisa. L’unica volta, da quando mi sono svegliato in guerra

Domenica di Repubblica

18 /1/ 2006

25 Aprile 1945 – Anonimo

25 Aprile 1945 – 25 Aprile 2013

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Anonimo

Il lamento del Partigiano

I tedeschi erano a casa mia

Dice rassegnati

Ma non ce l’ho fatta

E ho preso il fucile

Un vecchio in un solaio

Ci ha nascosto per una notte.

I tedeschi l’hanno preso

È morto senza sofferenze

Nessuno mi ha chiesto

Da dove vengo e dove vado.

E voi che lo sapete

Cancellate il mio passaggio

Ancora ieri eravamo in tre

Resto solo io

E giro in tende

Nella prigione delle frontiere.

Il vento passa sulle tombe,

la libertà ritornerà

Ci si dimenticherà di noi

E rientreremo nell’ombra

Eccidio di San Leonino

Eccidio di San Leonino
di David Irdani, 24-4-2010, Creative Commons – Attribuzione 3.0.
Questa storia si svolge nel comune di Bucine (AR).

In data 7 Luglio 1944 rimangono vittime di un agguato di matrice partigiana due soldati tedeschi. La notizia dell’uccisione arriva ben presto al Comando Tedesco situato in località Casa Rigoni che decide dopo poche ore di eseguire una rappresaglia esemplare sui civili a monito di quanto successo. Nelle campagne, i tedeschi arrestano e fucilano gli uomini incontrati lasciando molti morti dopo il loro passaggio. Tra gli arrestati figura Ernesto Poggi che sarà utilizzato per condurre sotto la minaccia di morte il Comando nel paese di San Leonino. Gli uomini e le donne del paese vengono fatti uscire dalle loro case e radunati nella piccola piazzetta antistante la chiesa. Ernesto Poggi viene accusato pubblicamente di aver fornito false testimonianze a riguardo dei tedeschi uccisi e viene fucilato davanti agli occhi dei civili presenti.
L’11 Luglio la scena si ripresenta in maniera simile. Il tenente Hartens della Divisione Hermann Goring raduna ancora una volta i civili di San Leonino, e uccide, dopo sommaria identificazione, un uomo ritenuto responsabile di stringere amicizie con i Partigiani locali.
Da ricordare che questo fatto si inserisce in una più ampia azione repressiva che vide coinvolti i paesi di Poggiano, Capannone, Poggio del fattore, Mulinaccio, Ristolli e Bucine e vide un numero di vittime pari a 21 uomini ( Fonte: Università di Pisa, Dipartimento di storia Contemporanea, Gruppo di ricerca sulle stragi naziste)

MARINO MARI NELLA RESISTENZA FIORENTINA

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MARINO MARI NELLA RESISTENZA FIORENTINA

« Marino Mari nacque a Firenze il 14 maggio 1890 da Fernando e da Carmela Ott; morì in Germania nel dicembre 1944, dove era stato deportato nel giugno dello stesso anno. La data ufficiale della sua fine risulta il 31 dicembre nella camera a gas del campo di sterminio di Mauthausen, data questa che con pochi altri particolari, fu comunicata ai familiari dalla Croce Rossa Internazionale e quindi registrata al comune di Firenze. Ma secondo alcuni compagni di prigionia, che furono con lui fino agli ultimi del ’44, Marino non sarebbe morto a Mauthausen, bensì durante il tragitto da Mauthausen a un altro vicino campo di concentramento in tragiche circostanze che i parenti non hanno potuto o meglio « voluto » approfondire… Altri ancora, invece, sostengono che Marino Mari già da molto tempo sofferente, fu un giorno tradotto dalle SS in Mauthausen dai campi di lavoro al « Bunker della morte » da dove non fu visto tornare, né si ebbero tracce di sepoltura. Taluno ricorda persino, nonostante l’abbrutimento generale, che la sua personalità era così viva e speciale da impressionare i suoi stessi aguzzini,’ che avrebbero avuto per lui un certo più blando riguardo rispetto a gli altri prigionieri… »

La vicenda politica di Marino Mari, discendente da una famiglia di antiche tradizioni patriottiche e proprietario di una tenuta modello nei dintorni di Firenze, è quella di tanti altri « liberali » della sua condizione sociale e delle sue convinzioni politiche.
Allievo del collegio Cicognini di Prato, negli anni giovanili si entusiasmò per Gabriele D’Annunzio. Nel 1913 fu eletto consigliere comunale di Fiesole, entro il cui ambito si trovava la sua tenuta di Terenzano, nella lista monarchico-liberale. L’anno prima, sotto la guida del suocero, lo storico Agostino Gori, scrisse una breve opera su « L’arresto. di Garibaldi e il Ministero Menabrea ». Fu interventista e partecipò come volontario alla prima guerra mondiale.
Nel 1920 s’iscrisse al Partito Democratico Liberale e come tale fu di nuovo eletto nel consiglio comunale di Fiesole, ricoprendo la carica di Vice-Sindaco. Disgustato dalle violenze di piazza, aderì al partito fascista, da cui si distaccò dopo il delitto Matteotti e dopo avere partecipato al convegno dei combattenti ad Assisi.
Da quel momento si ritirò dalla vita pubblica, dedicandosi unicamente all’amministrazione della sua tenuta, conseguendo nel campo delle sperimentazioni agricole risultati veramente notevoli.

Da tale ritiro lo strapparono gli eventi successivi al 25 luglio, per avviarlo verso il suo tragico destino, qui sopra descritto, con le parole del figlio Adriano il quale ha tracciato con pietà filiale ma senza retorica un documentato profilo biografico del padre. Da questo profilo stralciamo la parte che riguarda il periodo della Resistenza, non solo per rendere omaggio alla memoria di un Caduto, ma anche perché reca una testimonianza precisa e nuova su uomini e fatti di quel periodo. La veridicità della narrazione sulla dolorosa vicenda del Mari, che pubblichiamo così come c’è stata consegnata, in nulla è scalfita da alcune inesattezze nei dettagli di contorno, inesattezze che, dato il loro scarso rilievo, abbiamo preferito di non rettificare, onde non interrompere la vivacità dello scritto. (c. fr.).

All’alba del 1° settembre 1939 Hitler invade la Polonia. In pochi mesi le formidabili divisioni corazzate germaniche devastano tutta l’Europa. Il 10 giugno 1940, Mussolini — non richiesto, anzi, indesiderato — entra affannosamente in guerra per non lasciare Hitler solo, al tavolo della Pace…
Dopo tre anni d’impari lotta, il nostro esercito è a pezzi, le nostre colonie perdute, le nostre città indifese, la Sicilia abbandonata. Questo —il 25 luglio 1943 — il volto nuovo dell’Italia fascista! Se, nonostante i lutti e le miserie, il popolo esultò per l’arresto di Mussolini e l’avvento del Governo Badoglio, per uomini come Marino Mari sarà stato ben diverso salutare con pari entusiasmo l’aurora di una libertà troppo vaga al prezzo troppo alto di una guerra così tragicamente perduta!
Per le strade, nelle case, ai fronti di guerra gli interrogativi erano dovunque gli stessi: Il Fascismo è finito, e non è già abbastanza? Ora siamo liberi! Liberi. Che cosa significa essere « Liberi »? E la guerra? Ma « la guerra continua… », « L’Italia mantiene fede alla parola data… »: l’ha detto Badoglio. E allora? Allora nulla è cambiato…
A queste angosce, a questa ignoranza, bisognava rispondere. E a Firenze, Marino Mari, immediatamente ricercato da Vittorio Fossombroni e da vecchi amici di sentimenti liberali, riprese, con giovanile fermezza, il suo posto di responsabilità politica. Nacque così, diretto da Mari, il primo nucleo liberale fiorentino: Fossombroni, Aldobrando Medici Tornaquinci, Danilo De Micheli, Eugenio Artom, Francesco Vannucci ed altri ardimentosi. Più tardi, dopo 1’8 settembre, Fossombroni, minacciato di mandato di cattura, dovette ritirarsi dall’organizzazione e subentrarono Guglielmo di San Giorgio e Renato Fantoni.
Analogamente gli antifascisti socialisti fecero capo a Gaetano Pieraccini, i democristiani a Mario Augusto Martini, un nuovo partito: il Partito d’Azione a Carlo Furno, e i comunisti a Giulio Montelatici.
A Roma, dove la lotta antifascista era già in atto da parecchi mesi sia per quanto riguarda la ripresa dei partiti, che lo sviluppo della stampa clandestina, Mari dovette andare per incontrarsi con gli uomini più rappresentativi. Riabbracciò i vecchi compagni del Cicognini, gli Scialoia e gli Scarfoglio, e, attraverso Marcello Soleri, conobbe e parlò a lungo con l’ex Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi, del cui giornale «La Ricostruzione » avrebbe dovuto — ma poi non fu possibile — assumerne la direzione proprio Marino Mari. Da costoro Mari apprese i primi metodi e gli indirizzi prossimi della lotta intrapresa, che, con l’attuale Governo Badoglio e per la situazione generale di emergenza, doveva considerarsi ancora clandestina.
Ritornato a Firenze, fu costituito, sotto la presidenza di Gaetano Píeracciní, il Comitato Interpartitico, nel quale, ogni rappresentante delle varie correnti, doveva portare aiuto e consiglio alla lotta comune. La funzione dell’Interpartitico era soprattutto intesa alla liberazione dei prigionieri politici, alla vigilanza dei fascisti rimasti in libertà, e ai contatti con la Prefettura, sia pure ufficiosi, per controllarne l’attività. Proprio a facilitare questi propositi, giunse oltre modo gradita la nomina di Marino Mari a Commissario per la Federazione Provinciale Combattenti di Firenze. Un rappresentante dell’Interpartitico aveva così qualifica anche ufficiale di trattare direttamente con le altre Autorità cittadine riconosciute.
Il ritorno alla Presidenza della Combattenti, coronava finalmente i suoi ideali, rappresentò il massimo delle sue aspirazioni. Rileggiamo la motivazione della sua nomina giunta da Roma, dall’Associazione Nazionale:
« La scelta del Capitano Marino Mari trova fondamento nei suoi precedenti combattentistici, essendo egli stato uno dei fondatori dell’Associazione fin dal 1919, avendo poi tenuto fede all’Ordine del giorno di Assisi, e, soprattutto, per aver accettato, nell’ora in cui l’arbitrio del cessato regime si esercitò direttamente contro gli esponenti della libera volontà dei soci, di rappresentare nel Comitato Centrale dell’Associazione Nazionale Combattenti Indipendenti, la dignità e la volontà inflessibile dei compagni d’armi della Provincia di Firenze ».

Il 25 agosto, inviava a tutti i Presidenti delle Sezioni dipendenti il suo commosso saluto, che è tutto un programma e che per questo vale la pena di riportare integralmente:

« Nominato Commissario della nostra Federazione, mando il mio cordiale saluto a tutti i combattenti della Provincia di Firenze, dagli anziani affezionati, ai nostri cari giovani che — oggi assenti — anch’essi verranno, al loro ritorno — presto — a far parte dell’Associazione Nazionale, fraternamente accolti.
« Dopo il 25 luglio, la missione dei Combattenti d’Italia dovrà finalmente essere quella sognata un giorno dai grandi caduti delle " Dieci Battaglie ": giustizia e pace fra i popoli, mentre all’interno della Nazione dovremo contribuire a riconquistare la libertà più vera ed, a consolidarla tenacemente, perché nessuno osi tentare di ristrapparcela.
« Nell’ora presente, l’Associazione Combattenti, già diminuita nella sua autorità dal passato regime, potrà e dovrà avere, tanto nel campo politico, che in quello assistenziale, una portata decisiva per le sorti del Paese.
« Nella nostra Associazione sono rappresentate tutte le attività pratiche, spirituali e intellettuali d’Italia, in modo che, nello svolgersi della sua vita associativa, essa può e deve essere veramente l’espressione massima delle energie migliori.
« Considerata tale forza della nostra Associazione che — essenzialmente costituita di popolo, al popolo dev’essere bene accetta — i combattenti potranno, nella nuova luce della libertà, esercitare un influsso equilibratore e moderatore di grande utilità e importanza.
« Il maggiore impulso e perfezionamento sarà poi dato a tutte le iniziative di avviamento al lavoro e di premurosa assistenza in favore degli ex combattenti, dei reduci, dei familiari e soprattutto dei loro figli ».
Questo proclama fu riportato e favorevolmente commentato da La Nazione di Firenze e da Il Telegrafo di Livorno.
Il primo atto del suo insediamento fu un atto di onestà e di coraggio: Riconferma ai loro posti di ufficio di tutti gli impiegati della Federazione., tra i quali molti squadristi oltre che necessariamente iscritti al P.N.F. Stessa riconferma, dopo non facili incagli, ottenne per tutti gli agronomi della Cattedra ambulante. A chi gli chiese il perché di tanta magnanimità, Mari rispose semplicemente: « Si tratta di ritornare Italiani senza alcun aggettivo; di rieducarci ad esserlo nella concordia e nell’ordine. Chi serve l’Italia, serve la nostra causa, la causa della Libertà ».
Sebbene sempre vigile e meditativo sulle fragili sorti di questa nuova Italia, mai, Marino Mari, si sentì più felice come in quei « quarantacinque giorni badogliani ». Tanto alla Combattenti che all’Interpartitico diede tutto se stesso con giovanile entusiasmo: Ritornato alla sua vera, grande passione, la politica, questa ora lo assorbiva e lo impegnava così intensamente, che quasi aveva persino dimenticato il suo bel Terenzano!
Ma la lotta di liberazione non era neppure agli inizi… Giungemmo al fatidico 8 settembre, all’armistizio, alla così detta fine della guerra… Poche grida, poi il silenzio e il terrore.
Le strabilianti notizie da Roma dicevano, in sostanza, che il governo era. scomparso, ma anche lo stato era scomparso. Per ingenuità o per disperazione, credemmo tutti allo sbarco degli alleati, da un momento all’altro, in qualunque punto della penisola: forse a Genova,
forse a Livorno… per tagliare fuori le armate tedesche del sud… Furono invece i carri armati di Kesserling che ebbero ben presto ragione di eroiche sporadiche resistenze. Ci voleva subito un qualche cosa che frenasse questo sfacelo, una autorità, una direttiva che facesse testa a una rivoluzione, che non si poteva improvvisare. Ecco perché, dopo
Roma, anche a Firenze, il Comitato, Interpartitico si trasformò appunto in quella unica possibile autorità, certamente clandestina, ma che tutti, soprattutto gli Alleati dovevano conoscere: il Comitato di Liberazione.
Si è detto e scritto molto sui Comitati di Liberazione. Qui non vogliamo ripeterci e riaccendere un’ennesima dolorosissima polemica. A noi interessa ricordare semplicemente la figura morale e politica di uno dei responsabili, di Marino Mari, che fu tra i primi a volere che il C.L.N. acquistasse questa funzione di stato, fosse il fulcro della Resistenza, ma anche fra i primi a capire, a prevedere i « limiti » di questa missione.
Egli sostenne sempre che i Comitati tutti, sarebbero necessariamente decaduti il giorno in cui l’Italia, una volta completamente libera, fosse stata in grado con l’autodecisione di ricostituirsi in vero Stato con veri Governi. Tenere in vita organi rivoluzionari oltre certi limiti, non solo sarebbe stato inutile, ma anzi pernicioso alla stessa Libertà.
Questa lungimiranza diede ai suoi collaboratori liberali e alla maggioranza del Comitato fiorentino quel senso di sicurezza e di chiarezza, che sembrava mancare proprio in quei giorni… Cominciavano gli arresti e le deportazioni. Le camicie nere erano ritornate, affamate di odio e di vendetta.
Durante « i quarantacinque giorni », i partiti si radunavano in casa Pieraccini, ma ora il Comitato di Liberazione doveva cambiare sede continuamente, per evitare le insidie naziste e repubblichine. Casa Mari in Via dei Benci restò il covo dei liberali, rifugio e conforto per tutti coloro, anche ignoti, potessero in qualche modo collaborare alla causa della libertà. E Marino Mari era lì, sereno e signore, come sempre, ad esortare alla calma e all’azione per stringerci più che mai in una sola forza, per un’unica guerra, contro il tedesco e il fascista.
La riconsegna ufficiale della Federazione ‘Combattenti a Gino Meschíarí, che l’aveva preceduto, non avvenne subito; ma solo il 25 settembre, quando già repubblichini e tedeschi, sia pure più lenti che a Roma, avevano ripreso le redini della città. Per niente preoccupato della recente notorietà, e insistentemente esortato dagli stessi compagni di lotta ad allontanarsi, almeno dalla Toscana, volle rimanere al suo posto finché era umanamente possibile. Non solo, ma anche a Terenzano ricevette politici e partigiani, e ognuno seppe aiutare. Proprio a Terenzano — tanto per citare tre nomi — il critico teatrale Umberto Benedetto, il figlio maggiore di Ettore Allodoli, Enzo, il partigiano Bruno Baroni, detto « Il piccolino », ebbero l’onore di conoscerlo e di apprezzarne l’immediata simpatia. Così altri giovani come Guglielmo di San Giorgio: il nostro eroico Bobolo, Francesco d’Afflitto, Gianni Trezzi, furono vicini a Marino come a un coetaneo, all’amico più vero.
Fra i dirigenti, Eugenio Artom, godeva il massimo della sua stima. Dopo l’arresto di Francesco Vannucci e quello, dolorosissimo, di San Giorgio, Marino, spesso, soleva, impressionato, ripetere: « È il più preparato fra noi politicamente e moralmente. Se noi, a Firenze, perdessimo anche Artom, perderemmo tutto ». L’altro intimo, il compagno delle fughe e dei ritorni, il « discepolo » preferito, fu Aldobrando Medici Tornaquinci. Ecco che cosa scriveva nel ’46 su « L’Idea liberale » l’intrepido Aldobrando, sottosegretario di Stato per l’Italia occupata nel secondo Gabinetto Bonomi e famoso per un’ardita azione nel nord, dove fu paracadutato nel gennaio ’45:

« … Lo ricordo nella sua villa di Terenzano, nella bella biblioteca da gli alti scaffali ripieni di libri di storia. Dalla conoscenza profonda degli avvenimenti e degli uomini, egli traeva la sua sicurezza, il suo sereno e limpido giudizio. I suoi libri guardava e carezzava come le cose che più parlavano al suo spirito; erano il suo alimento quotidiano… Rigidamente conseguente a se stesso, mai egli ebbe un attimo di debolezza o un’incertezza. Spirito libero, egli combatteva la dittatura, tutte le dittature. Nella volontà, nella limpidezza del fine che perseguiva, nella chiarezza dei metodi, egli, in ogni occasione, nel Comitato di Liberazione o nelle ristrette riunioni di partito, o ne’ privati colloqui, fu a tutti di esempio, fu a tutti di incitamento. Caro Marino; tu fosti il nostro maestro, tale tu fosti per me… ».
« … Nessuno — scriveva Artom, sempre nel ’46, a sua volta su La Patria — fra quanti hanno irf quei mesi partecipato al Comitato di Liberazione ne può dimenticare la figura, il coraggio, l’equilibrio, la silenziosa autorità che interveniva a superare i dissenti, a risolvere contrasti, a unificare l’azione: più che Capo era il fr~tello maggiore con indefinibile autorità propria di chi alla più matura esperienza della età unisce una indiscussa altezza morale… ».
Infatti, se noi riportassimo le parole e gli scritti di questi diversissimi membri del C.T.L.N., il ritratto morale di Marino Mari risulterebbe sempre lo stesso:
« … La figura di Marino Mari, rappresentante insieme a Medici del P.L.I., assumeva un bonario e affettuoso atteggiamento paterno. Era il più anziano di noi… l’unico che avesse ricordi preziosi ed espe- rienze nobili di vent’anni prima… Nelle riunioni del C.T.L.N. portava la sua parola e la sua decisione pacata, ma sicura e intransigente; alla lotta partigiana contribuiva direttamente aiutando il costituirsi di bande… mentre la sua casa era sempre aperta a quanti avessero bisogno di rifugio, di un aiuto, di denaro, o di roba… ». Questo scrisse uno dei più autorevoli rappresentanti della Democrazia Cristiana: Vittore Branca, lo amico « Fernet », come scherzosamente lo chiamava Marino.
Infine un comunista: il rappresentante comunista Giulio Montelatici del C.T.L.N.: « Mi chiedete di Marino Mari? E chi può mai dimenticarlo? Egli, per tutti noi, fu come un padre di famiglia ».

Evidentemente, se dobbiamo accettare la sincerità e quindi la verità di questi apprezzamenti, espressi, ripetiamo, da uomini a tutti noti nella storia della Resistenza, deduciamo logicamente che il contributo più grande che il Mari dette alla lotta clandestina, fu quello d’imporre fraternamente la sua personalità e le sue esperienze al di sopra delle parti come conciliatore e risolutore di ogni contrasto. E questo, perché? Perché politica per lui era morale, ricerca del meglio nella giustizia, anteporre il dovere al diritto, essere fermamente persuaso prima di persuadere. Il rimpianto quindi di averlo perduto tanto presto, dovette essere stato tanto più grave quanto più forti e profondi divennero poi i contrasti con la nascente Democrazia.

Dell’accantonamento o meno della questione istituzionale, della legittimità o illegittimità del Governo di Bari, dei rapporti col C.L.N. di Roma, alle relazioni col Comitato Militare, ai collegamenti con le bande partigiane, fino ai problemi più intimi del singolo perseguitato, Mari disse la sua parola, e tenne per sette mesi le file di questa complessa, frammentaria organizzazione.
La sua prima « fuga » fra il Mugello e il Casentino: a Fornace, nella villa di una sua cognata Antonietta Gori, avvenne gli ultimi di gennaio ’44 quando un’incursione in casa Medici Tornaquinci, consigliò Aldobrando e il padre di lui ad allontanarsi per qualche tempo. Mari li accompagnò, e vi ritornò più tardi, alla fine di febbraio, quando anche la presenza di lui a Firenze era diventata impossibile.
Tuttavia rimase in contatto con Artom e Fantoní, che, non ancora sospetti dalle SS, potevano reggere l’Esecutivo del Partito e partecipare regolarmente alle adunanze del Comitato. Proprio in quei giorni, il Maresciallo dei Carabinieri Bellocci, per ordine di Carità, accompagnato da alcuni loschi individui di Compiobbi, e, precisamente, certi Renato Barsi, Mario Mannucci, Alfredo Turrini, Carlo Raimondi, organizzò una spedizione a Terenzano per la cattura del Mari. Dopo un inutile saccheggio e poiché l’ambita preda non si trovava, fu arrestata la moglie Maria Anna, le due domestiche e un salariato; e condotti rispettivamente alle carceri di S. Verdiana e alle Murate.
Quando Mari apprese la notizia, era con il figlio Adriano, ambedue rifugiati in una casa di contadini di Fornace. Sapeva chi era la sua Mariannina ed aveva piena fiducia nei suoi dipendenti. Scrisse al suo successore alla Combattenti, questa nobile lettera:

• All’Avv. Gino Meschiari — Federazione Combattenti.
• Il 24 settembre, il giorno della mia riconsegna a Voi della Federazione, dichiaraste nel modo più formale, il completo riconoscimento di quanto leale, serena, conciliante era stata l’opera mia verso di Voi, verso gli impiegati e verso i soci della Combattenti. Chiaramente io Vi ringraziai del vostro eloquente rilievo, semplice e sincero.
« Oggi, imputato di non so davvero quale colpa, in casa mia — dove non mi trovavo — sono stati tratti in arresto e trasportati al carcere comune (senza essere incolpati d’altro che di abitare presso di me) un mio operaio agricolo fisso, due donne mie dipendenti e mia moglie, la madre di mio figlio, la mia compagna da trenta anni.
« Su quanto ho scritto, che vi sarà agevole controllare, vi prego di trarne il vostro giudizio ».

Meschiari, da buon gerarca, non rispose mai a questa lettera, né s’interessò mai dell’accaduto. Anche quando più tardi, Mari stesso fu arrestato, non ci risulta un suo personale intervento per impedirne almeno la deportazione.
I quattro « fermati » si comportarono come Marino aveva previsto. Nessuno parlò, nessuno tradì. La degna compagna, rigida e imperturbabile, a tutti gli interrogatori, rispose allo stesso modo: « Ora che mi ficcate in carcere, mi nobilitate. Fino ad oggi, secondo voi, sarei la moglie di un Capo; domani — e sarà presto — il Capo sarò io…! ». E lo divenne davvero, quando, nel ’45, all’unanimità, fu eletta, a Firenze, Presidente del Gruppo femminile liberale. Quando le fu chiusa la cella, con in mano il cucchiaio di legno, crollò in un pianto dirotto…
Una diecina di giorni dopo, tramite il Podestà di Firenze, l’accademico d’Italia, lo scienziato Giotto Dainelli — oltre che cugino del nostro martire — pervenne l’ordine di scarcerazione, tanto per la Signora Mari che per i suoi dipendenti. Un particolare che si commenta da sé, fu il colloquio che, subito dopo, ebbe luogo fra il Podestà e la scarcerata: Dainelli disse che aveva fatto quel che aveva fatto contro la sua propria volontà… perché Marino era un cretino e meritava ben altro. Alle fiere e documentate risposte della donna, l’illustre geologo s’infuriò, e gridò che le sevizie, le deportazioni, i campi di concentramento, erano tutte fandonie di una propaganda a delinquere… e che, in via Bolognese, Carità esercitava un servizio di polizia straordinario sì; ma perfettamente legittimo e legalitario… Era semplicemente ridicolo quel che diceva la cugina, che cioè, anche lui: Giotto Dainelli e i fascisti tutti, un giorno o l’altro, avrebbero « scontato », centuplicate, le loro scelleratezze…
Poi, una mattina, o un pomeriggio, non sappiamo, Dainelli salì su una macchina diretto al nord, puntualmente, insieme al resto dei suoi Camerati. Oggi, costui è salvo, è libero, liberissimo, come noi tutti… anche grazie alla morte di un povero cretino…
Fino a tutto marzo 1944, Mari poté ancora dal suo rifugio rimanere al corrente della situazione fiorentina. Medici aveva ripreso in pieno la sua attività e crescevano al Partito le adesioni e i consensi. Ma c’era nell’aria pericolo anche a Fornace. Si spostò a Rincine, in un villaggio vicino; poi ritornò alla villa stessa della cognata. Le notizie erano sempre più vaghe e contradittorie. Si parlava di rastrellamenti, di stragi, di arresti in massa tanto a Firenze che in Provincia. Non potendo stare inoperoso, Mari si mise in contatto con una organizzazione comunista che operava in Mugello, e, considerando che era giunto il momento di allontanarsi definitivamente da quella zona, quei partigiani gli offrirono una perfetta Carta d’identità col nome di Livio Lasi, nativo di Siena, abitante a Bosa in Via Vittorio Emanuele II. Maturava il progetto — mesi prima tante volte respinto — di attraversare il fronte e raggiungere Roma.
Alla fine di aprile, le cose sembravano di nuovo calmarsi. Ne approfittò il figlio Adriano per ritornare in città dove lo attendevano obblighi di studio. Proprio in via dei Benci, a seguito di diserzione di un soldato tedesco, che pare si aggirasse da quelle parti, tre uomini in borghese delle SS entrarono la notte fra il 30 aprile e il 1° maggio in casa di Marino Mari. Questo nome non nuovo svegliò la curiosità degli sgherri, ed essendoci il figlio di lui, lo condussero immediatamente in via Bolognese. La mattina dopo, Carità lo volle vedere e inutilmente interrogare. Fu tradotto alle Murate in una cella in comune a due condannati a morte.

La nostra breve storia sta per concludersi. La mattina circa le otto del 5 maggio 1944, due macchine guidate da una spia di Carità, Signor Del Sole, altrimenti detto « Il Professore » e da un certo Ulrico Bonucci, si fermarono davanti alla villa di Fornace. Ne uscirono vari individui in uniforme di guardie nere armate di mitra e di bombe a mano. Questa volta ce l’avevano fatta. Questo Capo di « criminali » era lì, era proprio lì, e non chiedeva di meglio che di essere preso… Eppure poteva ancora fuggire. In quegli attimi terribili, la coraggiosa cognata, con morbosa insistenza, gli offrì la possibilità di un’uscita secondaria; la villa, non era circondata. La salvezza era certa. Ma Marino rifiutò serenamente, l’avrebbe compromessa senza speranza, e, così, in pigiama, come si trovava, porse i suoi polsi alle pesanti manette.
« Accolto da schiaffi », come riuscì a scrivere nel pomeriggio in un pezzetto di carta, dopo il tradizionale incontro con Carità, fu condotto alle Murate, isolato e sorvegliato a vista. Ora la sua forza d’animo era venuta meno; non sopportava l’isolamento, i giorni e le notti erano interminabili, cominciava a soffrire di cuore. Gli arrivavano i pacchi, ma neppure una delle lettere, che quotidianamente moglie e figlio gli scrivevano.
I colloqui a grata — quando erano permessi — avvenivano in uno spazio angusto e opprimente. Fra detenuti e relativi congiunti, a coppia, sorgeva una gara grottesca a chi gridava più forte per superarsi l’un l’altro nell’ascoltare e nel dire. Viceversa le lettere che scrisse Marino, giunsero ai familiari. Sono tutte preziosamente conservate. Rileggiamo l’ultima, è del 13 giugno, ed è indirizzata alla moglie:
« Cara Mariannina,
aspetto con ansia tue notizie; non vorrei che tu non stessi bene. Saperti ammalata sarebbe il mio più grande dolore. E Adriano, il figlio nostro come sta? Ti è sempre vicino? Hai almeno questo conforto? Penso che ormai la segatura del grano sarà, a Terenzano, finita. Ora lo abbicheranno. Mi raccomando che i covoni rimangano a fare la loro classica bollita nelle biche, prima di far la barca e battere.
« Non so sperare di rivederci e quando. Marino ».

C’è in queste poche righe l’addio ai suoi pensieri terreni: l’adorata Mariannina, il suo Adriano, Terenzano. Dettato dal Destino sembra quel « Non so sperare di rivederci e quando ».
Il resto è noto. A metà giugno, insieme ad altri politici, fu deportato al campo di concentramento di Fossoli. Non sappiamo quanto vi rimase. Forse un solo giorno. Poi un altro treno lo condusse Mauthausen, da dove non ha fatto più ritorno.

Settembre 1963
ADRIANO MARI
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