Archivio mensile:Maggio 2013

Aligi Barducci – Potente

Un poco di storia

potente

Aligi Barducci

“Potente”

Fin da giovanissimo Aligi Barducci, figlio del popolo (padre operaio, madre sigaraia) dimostrò una particolare predilezione, insieme con alcuni amici, per gli aspetti culturali (musica, letteratura, filosofia) che non lo faceva partecipe di un antifascismo militante, come sarebbe stato possibile nel particolare contesto rionale in cui viveva, ma manifestava solamente una certa insofferenza verso il regime, alimentata anche dall’amicizia con alcuni personaggi più maturi di lui, conosciuti in quegli anni, come lo scultore Varlecchi, che frequentava il Conventino.

Durante il servizio militare di leva a Messina, mantenendo un’intensa corrispondenza con la famiglia e con gli amici di sempre, manifestò una notevole insofferenza per la rigidità di quella vita.

Mentre, approssimandosi il momento del congedo, si preoccupava solamente del suo futuro lavorativo, la guerra di Etiopia lo vide invece inquadrato in una divisione di fanteria dislocata in Somalia, per una permanenza in A.O. che durò oltre due anni. Un periodo che però, senza partecipare a combattimenti, lo vide superare difficoltà e disagi che gli permisero di acquisire un notevole bagaglio di esperienze, le quali sarebbero emerse in tutta evidenza nelle sue successive attività di partigiano.

La prolungata vita militare, in un contesto di esaltazione imperialistica del regime, dovuta alla conquista dell’Impero, sembrò condizionare anche gli orientamenti intellettuali di Aligi Barducci che, in una inusuale polemica epistolare con l’amico Frullini, sembra privilegiare l’interpretazione che gli intellettuali di destra davano al pensiero di Nietzsche a vantaggio di politiche di aggressione e di potenza, fino a ritenere vive e vitali le teorie imperiali conquistatrici del lontanissimo Impero romano. L’avventura coloniale terminò nel 1936 e nell’intervallo, prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, Barducci conseguì il diploma di ragioniere e si impegnò in alcuni impieghi pubblici.

Nel 1940 partecipò al corso per allievi ufficiali e , nel 1942, viene assegnato al X Reggimento Arditi a Santa Severa nel Lazio e da qui, successivamente, trasferito a Pola.

Furono queste le occasioni che permisero a Barducci di perfezionare il suo addestramento militare e di esaltare le sue doti di comandante in un rapporto di sintonia e confidenza con i propri dipendenti che ne avrebbero fatto un superiore assai amato e che tale si dimostrerà successivamente anche come capo nelle formazioni partigiane.

La sua pattuglia, chiamata la Potente, fu trasferita nel 1943 ad Acireale in Sicilia e da qui sotto l’incalzare delle truppe alleate fu, costretta a ritirarsi fino alla base di Santa Severa fino al verificarsi dell’8 settembre. Barducci tentò di  reagire allo sbandamento del suo reparto e, con la speranza che il governo organizzasse la resistenza ai tedeschi, raggiunse Roma, dove si unì ad alcuni reparti della Divisione Ariete, partecipando ad alcuni scontri contro i tedeschi sopraggiunti per occupare la Capitale.

Tuttavia, essendo arrivato l’ordine del comando supremo di ripiegare su Tivoli, per proteggere la fuga del re e di Badoglio, ad Aligi non rimase che rimettersi in marcia per tornare a Firenze, entrando anche lui a far parte di quel popolo di sbandati che tentava di tornare a casa, braccato dai tedeschi. Al fine di comprendere le scelte che portarono diversi di quei militari, come il nostro Aligi, ad entrare nelle file della resistenza, è fondamentale cogliere quale fu il dramma che essi vissero nei giorni della dissoluzione dell’esercito e delle istituzioni.

Molti di loro, dopo lo sbandamento dell’8 settembre , si sentirono vittime di un doppio tradimento: quello fascista perché, dopo anni e anni di propaganda, di indottrinamento, di raduni e di esercitazioni, di una militarizzazione del vivere quotidiano e sociale, prometteva un futuro di gloria ed ecco invece il disastro. Mussolini era riuscito a far credere a molti italiani che l’Italia era forte, potente e meritevole di ben altro di quello che aveva, evocando la potenza dell’antico Impero romano.

La guerra fu invece un esame impietoso, che mostrò una realtà ben diversa, quella di un’Italia debole e vulnerabile, buttata in un’avventura troppo superiore alle proprie possibilità.Non eravamo un popolo di conquistatori, come il fascismo voleva credere e far credere e man mano che le vicende belliche rivelavano la verità, la sicurezza e le convinzioni di tanti giovani si incrinavano e si sgretolavano.

Quando il fascismo crollò e Mussolini fu arrestato, ormai gran parte del popolo italiano stanco di lutti, distruzioni e privazioni non desiderava altro che uscire dalla catastrofe e da un momento all’altro si aspettava la notizia della resa. E arrivò l’8 settembre e fu consumata una nuova illusione.

La guerra, sia pure su binari completamente diversi , continuava. Ma vi era almeno la possibilità di difendere l’Italia dall’invasione tedesca, in quanto le truppe italiane in quei giorni, erano ancora numericamente forti rispetto a quelle tedesche, sul territorio nazionale: bastava per questo un piano di difesa e ordini chiari e precisi. Invece il re e Badoglio, oltre a fuggire, lasciavano l’intero esercito senza direttive e gran parte del paese alla mercé della Germania.

Secondo la testimonianza di Orazio Barbieri, profonda sorpresa e sincero dolore furono i sentimenti di Barducci alla notizia della fuga del re e di Badoglio perché un re inetto e imbelle, in cui tuttavia aveva riposto fiducia, perché era riuscito ad arrestare Mussolini, anziché fare appello al popolo per una guerra nazionale, si mette in salvo con la fuga.

Ritornato a casa, poté riabbracciare i suoi genitori ma trovò la sua Firenze in mano ai tedeschi, assistette ai tentativi di restaurazione fascista e in lui la voglia di fare qualcosa, di combattere contro gli invasori accrebbe di giorno in giorno. Superando le inevitabili diffidenze e difficoltà di collegamento, Aligi finalmente poté realizzare il suo desiderio di raggiungere le formazioni partigiane di montagna il che avvenne in una formazione di Monte Morello.

L’accoglienza non fu all’inizio delle migliori, perché fra i partigiani c’era molta diffidenza verso gli ex ufficiali dell’esercito. Ma Barducci aveva una semplicità di rapporti con i compagni, senza iattanza, senza mostrare nessun motivo di superiorità il che gli procurò rapidamente la simpatia dei compagni e che ebbe la sua definitiva accettazione dopo lo scontro con una pattuglia tedesca a Fonte dei Seppi, che mise in evidenza le sue qualità militari.

Per sottrarsi ai pericoli di grossi rastrellamenti che erano iniziati da parte di imponenti forze nazifasciste, il gruppo di Monte Morello si spostò successivamente a Monte Giovi, dove ebbe il compito di accogliere e riorganizzare quanti era no sfuggiti al grande rastrellamento del Falterona, che gravi perdite aveva inflitto alle formazioni partigiane.

Successivamente il movimento partigiano conobbe una forte crescita e Potente si impose sempre di più per le sue doti ai responsabili delle forze partigiane. Maturò allora nella direzione di queste la decisione di formare una struttura militare più organizzata e più forte, da fare agire in una zona ampia e difendibile che venne individuata nel Pratomagno.

A capo di questa unità fu posto Potente e nacque così la Brigata Lanciotto, ben organizzata e compatta, costituita da forti contingenti trasferiti da Monte Giovi.

Permettetemi di ricordare qui un’esperienza personale. Giunti in Pratomagno con un secondo scaglione, eravamo in attesa, appena arrivati, di conoscere il nostro nuovo capo, Potente appunto e, per l’alone di leggenda che ormai lo circondava immaginavamo un personaggio con aspetto di guerriero. Invece, su di un balzo apparve la figura di un uomo snello, esile, che con voce pacata ci diceva che c’era molto da sacrificarsi, che il mangiare c’era quando c’era, che quando andava bene si dormiva nelle capanne e quando non c’erano si dormiva nel bosco sotto un albero, che c’era molto da camminare, che i tedeschi e i fascisti ci attaccavano e che noi bisognava attaccare loro. Se qualcuno non se la sentiva di affrontare tutto questo, lo doveva dire subito e sarebbe stato rimandato indietro. Pochi accettarono questa ipotesi. Solo un uomo forte come lui, al di là del suo aspetto, consapevole del suo ascendente di capo, avrebbe potuto parlare con tanta naturalezza e tanta sincerità e questo conquistò subito la fiducia di quasi tutti, che rimasero.

E di lì a qualche giorno, il 29 giugno, la Lanciotto fu impegnata in uno scontro frontale con forze nazifasciste nella battaglia di Cetica che, oltre a consistenti perdite inflitte al nemico, vide purtroppo anche la distruzione di buona parte del paese e perdite sia civili che nostre.

Potente, da comandante consapevole e accorto, riunì nei giorni seguenti tutti i comandanti e tutti i commissari politici delle formazioni per un’analisi minuziosa ed esperta della battaglia, illustrando meriti e manchevolezze dei vari reparti nell’impegno del combattimento, che comunque per la tenuta complessiva dei reparti, per la loro capacità di manovra e per le perdite inflitte al nemico fu considerato positivamente.

Modificandosi la situazione in considerazione di due fatti: la ripresa dell’avanzata verso Firenze delle truppe alleate e l’afflusso di nuovi arrivi nelle file partigiane, si procedette ad una importante ristrutturazione delle forze che portarono alla costituzione di una Divisione, nata dall’unione della Brigata Lanciotto e della Brigata Sinigaglia che prese il nome di Divisione Arno al cui comando fu posto Potente e alla costituzione di una nuova Brigata, la X Caiani, al cui comando fu posto Bruno Bernini (Brunetto).

Per le formazioni dislocate in Pratomagno si pose a questo momento l’esigenza di portarsi a Firenze per prendere parte, insieme a tutte le altre forze, all’insurrezione per la liberazione della città. Movimentatissimo, pieno di pericoli, ma anche di grande determinazione e coraggio fu l’avvicinamento alla città fino a che, la mattina del 4 agosto, Potente poté incontrare un maggiore della V Divisione canadese nella zona di Poggio all’Incontro, in collaborazione con il quale e con i suoi soldati poté effettuare subito un attacco a nidi di mitragliatrici tedesche.

Successivamente la Lanciotto e la Sinigaglia raggiunsero rispettivamente Villa Cora e la casa del fascio delle Due Strade e da qui si diressero infine verso Porta Romana, accolti trionfalmente dalla popolazione ormai liberata dall’occupazione tedesca. Si presentò presto un problema che creò inizialmente grande agitazione e risentimento nelle formazioni partigiane e cioè la pretesa espressa da ufficiali inglesi di procedere all’immediato disarmo delle brigate.

Prevalse la fermezza di comportamento di Potente e la sua proposta di procedere insieme a reparti alleati alla bonifica dei franchi tiratori che imperversavano sulla riva sinistra dell’Arno e che fino a quel momento erano stati contrastati con scarsa efficacia. Si verificò con l’accordo raggiunto un fatto di grande rilevanza anche politica, dato che per la prima volta si realizzava una manovra congiunta fra reparti partigiani e truppe alleate, addirittura sotto la direzione di un comandante partigiano, in considerazione della migliore conoscenza dei luoghi e delle situazioni. Questo compito fu affidato alla Sinigaglia comandata da Gracco e ad un reparto canadese che, alla vigilia dell’operazione si acquartierarono in Piazza Santo Spirito.

La sera dell’8 agosto, verso le nove, Potente si recò in questa Piazza per verificare come stesse procedendo l’operazione e per prendere gli ultimi accordi con Gracco e gli ufficiali alleati all’improvviso ci fu un’esplosione di un colpo di mortaio che colpì in pieno un gruppo che comprendeva anche Potente che, rimasto seriamente ferito, si manteneva calmo, sorridente e non mancava di incitare i partigiani presenti a farsi onore nei compiti dell’indomani.

Giunta un’autoambulanza: “Addio Gracco, disse, sforzandosi ancora di sorridere, addio ricordati di fare onore alla divisione

”. Sull’autoambulanza che lo trasportava all’ospedale di Greve al compagno Meoni che era con lui, disse di prendere con sé la sua camicia rossa per farla sventolare su Firenze quando  fosse stata liberata.

E queste sono le ultime parole che consegnano alla Storia Aligi Barducci, Comandante Potente, Medaglia d’oro al valor militare alla memoria, come grande e luminoso eroe della Resistenza.

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La lapide ricordo

RELAZIONE DI RENATO POZZI “RENA” della Brigata Caiani –

Celebrazione dell’8 Agosto 2009 in piazza Santo Spirito

Simone Veil – Noi scampati uccisi due volte

27 GENNAIO
Simone Veil:
noi scampati uccisi due volte

Nell’aprile del 1945, Simone Veil e la sorella vengono liberate a Bergen-Belsen. Ritrovano la libertà, la Francia… E anche l’incomprensione di un paese indifferente al dramma degli ebrei.

Per lungo tempo, la voce degli ebrei tornati dai campi di sterminio non è stata ascoltata. Perché?
«Questa indifferenza, per lo meno apparente, è cominciata ancora prima del nostro ritorno. Nell’aprile del 1945, gli inglesi hanno liberato il campo di Bergen-Belsen dove eravamo arrivate al termine delle “marce
della morte”, da Auschwitz, ma siamo rimaste sul posto diverse settimane.
Il campo è stato bruciato coi lanciafiamme dagli inglesi, per ragioni sanitarie, e noi siamo state trasferite in una ex caserma delle Ss.
Molte di noi sono morte dopo la liberazione del campo, per il tifo, per un’alimentazione inadeguata o per mancanza di cure. Penso che molte di queste donne avrebbero potuto essere salvate, ma non era una priorità.
Fortunatamente, dei prigionieri di guerra francesi provenienti da uno stalag lì vicino, tra i quali c’era un medico, venuti a sapere che tra i deportati c’erano delle donne francesi, sono venuti a soccorrerci. Le autorità
francesi, dal canto loro, hanno deciso di rimpatriarci solo un mese dopo. Forse perché si voleva dare la priorità al rimpatrio dei prigionieri di guerra, che erano internati da cinque anni? O forse si trattava di una forma di quarantena, per via del tifo? Non ne ho idea. Quello che so, è che mia sorella non è morta laggiù solo perché io ero là per occuparmi di lei. I prigionieri di guerra sono rientrati direttamente: noi ci abbiamo messo cinque giorni per tornare in Francia, ammassati dentro a dei camion.
L’indifferenza delle autorità francesi era già allora assolutamente straordinaria. E poi siamo arrivati in Francia. Quello che avevano subito gli ebrei, lo sterminio della maggior parte di loro, non suscitava nessun interesse. L’altra mia sorella, invece, deportata a Ravensbrück in quanto membro della Resistenza, è stata festeggiata. Era un’eroina — cosa incontestabile — tutti si interessavano a lei, le facevano domande sulla Resistenza, su quello che era successo nel campo di concentramento. Forse era un modo, da parte della gente, di appropriarsi
della Resistenza? Noi? Non valeva neanche la pena di provare a parlare: ci interrompevano subito! Cambiavano argomento.
Certi, quando vedevano il tatuaggio che ho ancora sul braccio, dicevano:
“Ah, ce ne sono ancora, di ebrei? Credevamo che fossero tutti morti…”. E per i nostri cari era troppo doloroso parlare di quelle cose. Noi raccontavamo delle cose spaventose, loro vedevano in che stato eravamo tornate: per loro, che ci amavano, era insopportabile. E lo è ancora oggi, peraltro, sessant’anni dopo. Una mia cognata è stata deportata anche lei, quando vogliamo parlarne ci vediamo da sole».

Esistevano quindi due tipi di deportazione? Una valorosa, quella dei partigiani, e l’altra quasi disonorevole, quella degli ebrei? «È vero che c’era una grossa differenza. I partigiani si erano battuti contro i nazisti. Si erano assunti grossi rischi. Spesso erano stati torturati. Gli ebrei erano stati deportati per la sola ragione di essere nati ebrei.
Questo atteggiamento nei loro confronti è durato a lungo. Negli anni Settanta, ho partecipato a un dibattito alla Sorbona sull’esistenza delle camere a gas, in risposta ai negazionisti. Mi avevano chiesto di fare un intervento.
Lo storico che doveva dirigere il dibattito era reticente, ma la signora Ahrweiler, che aveva organizzato la manifestazione, insistette perché partecipassi. Al momento della redazione degli atti del dibattito, lo storico di cui sopra mi informò che il mio discorso non sarebbe figurato fra i contributi degli storici, ma solamente fra gli allegati. Stupefatta di un simile disprezzo, rifiutai. Nello stesso periodo, ci si interessava alle testimonianze e agli archivi dei carnefici, le Ss. Ma si rifiutava di interessarsi a quelli delle vittime, che non erano giudicate credibili».
I tempi sono cambiati…
«Sì, ma la memoria a volte arriva molto in ritardo… La Romania e l’Albania hanno riconosciuto il genocidio solo poco tempo fa. Gli sloveni hanno chiesto al Museo di Auschwitz di poter apporre una targa commemorativa nella loro lingua. Dal momento della caduta del Muro di Berlino e dell’implosione dell’Unione Sovietica, in tutti quei paesi dell’Est, da cui provenivano la maggior parte delle vittime della Shoah, gli ebrei ritrovano un’identità che era stata soffocata. E la memoria della Shoah fa ormai parte di questa identità».
A che serve questa memoria? E che cosa significa «dovere di memoria»?
«Non mi piace molto questa espressione. In questo campo, il concetto di obbligo non ha cittadinanza. Ciascuno reagisce secondo i propri sentimenti o le proprie emozioni. La memoria è lì, si impone da sola, oppure no. Esiste — se non viene occultata — una memoria spontanea: è quella delle famiglie. Qualche anno fa, quando ero al Ministero della sanità, sono venuta a conoscenza di ricerche sul bassissimo tasso di natalità di alcuni paesi dell’Africa. La sola spiegazione che quelle ricerche offrivano, soltanto come ipotesi, era che le donne,
possedendo la memoria della schiavitù, limitavano spontaneamente il numero delle nascite. La memoria è anche questo: qualcosa che torna non si sa come, perché è lì, nel profondo di sé. Altra cosa è il dovere di insegnare, di trasmettere. In questo caso sì, c’è un dovere».
Che significato ha per lei la frase «Mai più questo»?
«“Mai più questo” è quello che dicevano i deportati. Avevamo molta paura di scomparire tutti e che non rimanesse nessun sopravvissuto per raccontare quella tragedia. Era necessario che qualcuno sopravvivesse
per poter dire che cosa era successo e perché non avvenisse più una catastrofe simile. Oggi, a ogni incidente, o anche per semplici fatti di cronaca, si proclama “mai più questo”, a ogni pié sospinto e senza alcuni
discernimento. Il pericolo, più che il negazionismo, è comparare cose che non c’entrano niente fra loro. La banalizzazione, in altre parole».
La memoria può impedire la riproduzione del crimine?
«In realtà no. L’esperienza lo ha dimostrato: in Cambogia come in Ruanda. Ciononostante, è necessario continuare a parlare, non tanto del lager, di quello che abbiamo vissuto, ma di quello che costituisce
la specificità della Shoah: voglio parlare dello sterminio sistematico, scientifico, di tutti coloro che dovevano scomparire fin dal loro arrivo nel lager, perché erano troppo giovani, troppo anziani, perché non c’era più posto per loro, o semplicemente perché l’ideologia nazista aveva deciso che tutti gli ebrei dovevano essere eliminati. Sì, bisogna che questo si sappia. Ci sono ancora tante persone che non sanno. Ed è così difficile concepire che una cosa del genere sia potuta accadere in pieno XX secolo, in un paese tanto fiero della propria cultura».

Simone Veil è stata presidente dell’Europarlamento
ed ora guida la Foundation pour la Mémorie de la Shoah

(Traduzione di Fabio Galimberti)

Da La Domenica di Repubblica
18/1/2006

Il Palazzo Littorio di Camaiore

Il Palazzo Littorio di Camaiore

di Giovanni Baldini, 15-4-2004, Creative Commons – Attribuzione 3.0.

Negli ultimi tempi della guerra la repressione contro gli antifascisti divenne particolarmente feroce.
A Camaiore e dintorni essere portati al "Palazzo" significava andare incontro alle peggiori violenze e spesso anche a scomparire per sempre.

La Casa del Fascio di Camaiore, ribattezzata "Palazzo Littorio", è stata la sede di molti delitti. Gli autori erano un gruppo di fascisti fra cui primeggiavano Franco Casamassima e Ernesto Cirillo.
La conta delle vittime è incerta, soprattutto per la particolare premura con cui i fascisti facevano scomparire i cadaveri, con certezza si conoscono i nomi di Giuseppe Di Baldo e Fabio Bulghereschi (di 16 anni) uccisi il 18 agosto 1944. Il 24 agosto vengono invece uccisi per sospetta collaborazione con i partigiani il medico condotto di Capezzano Pianore Dott. Carlo Romboni (44 anni), Gianni Cincinnato (60 anni) e un non meglio identificato signor Di Stefano. Il giorno dopo altri uomini venivano uccisi: Giuseppe De Martino, Giovanni Zucca (18 anni) e un terzo uomo non identificato.

Il clima di sfrontata prepotenza in cui lavorava la banda che operava nel Palazzo Littorio è testimoniata da diversi fatti, come le violenze inflitte ad un passante che si trovò a incrociare i fascisti di fronte ad un muro dove era stato scritto Fascio sfasciato. Al malcapitato toccò di cancellare la scritta con la lingua fra un colpo di bastone e l’altro. Nonostante i lamenti e le preghiere venne costretto a cancellare anche una seconda scritta lasciando il muro macchiato del proprio sangue, poi fu condotto al Palazzo. Si tratta di uno dei due compagni di sventura del dottor Romboni uccisi il 24 agosto.

Per i delitti del Palazzo Littorio il viareggino Ernesto Cirillo, che a quel tempo era il comandante della Brigata Nera, nell’immediato dopoguerra è stato processato e incarcerato

I patrioti Caraviello

I patrioti Caraviello
di Giovanni Baldini, 29-3-2004, Creative Commons – Attribuzione 3.0.

 

Il 21 giugno 1944 sul greto del torrente Terzollina vengono rinvenuti i cadaveri di due donne: sono i resti delle patriote Mary Cox e Maria Caraviello.
Il parrucchiere Rocco Caraviello, con la collaborazione della moglie Maria, del cugino Bartolomeo e del lavorante Edgardo Sovale, era da tempo un cospiratore antifascista. Per i modi poco accorti con cui lavorava in molti hanno giudicato sorprendente che venisse scoperto solo la sera del 19 giugno all’uscita dell’abitazione dell’insegnante d’inglese Mary Cox.

Lì Rocco e Edgardo avevano appena incontrato i due ufficiali di ispirazione cattolica Franco Martelli e Vincenzo Vannini per progettare la liberazione di alcuni prigionieri tenuti sotto sorveglianza all’ospedale di San Gallo.
Rocco verrà freddato sul posto mentre gli altri, cui si aggiungeranno Bartolomeo e Maria, verranno portati a Villa Triste dalla Banda Carità.

Dopo le torture per cui la Banda Carità è rimasta famosa la vita delle due donne si interromperà nei pressi della Villa Terzollina, mentre Bartolomeo Caraviello, Franco Martelli, Edgardo Sovale e Vincenzo Vannini verranno fucilati nei pressi di Campo di Marte.

Vincenzo Vannini miracolosamente sopravviverà, dopo la prima scarica del plotone che l’aveva preso al ventre riesce a darsi alla fuga e a far perdere le proprie tracce.