Archivio mensile:Maggio 2018

Luigi Palombini–(Luigi Pucci)

È destino dei popoli che il loro cammino
verso la libertà e la giustizia sociale sia
segnato dal sangue dei suoi martiri,
forse perché questo cammino non sia smarrito,
ma chi muore per una causa giusta, vive sempre
nel cuore di chi per questa causa si batte.”

Luigi Palombini (Luigi Pucci)
Di anni 29 – meccanico – nato a Gradoli (Viterbo) il 15 febbraio 1916 -. Rientrato nel febbraio 1944 da un campo di concentramento in Germania, dove un suo fratello lasciava la vita, dopo una breve visita in famiglia si reca in Piemonte e subito si unisce alla V Divisione Alpina G.L. « Sergio Toja » operante nelle valli Germanasca e Chisone -. Catturato il 27 Febbraio 1945 mentre, nel corso di un rastrellamento ope­rato da reparti tedeschi e fascisti, tenta di portare in salvo un compagno ferito – tradotto nella caserma dei Carabinieri di Pinerolo -. Fucilato alle ore 17 del 10 marzo 1945, da plotone tedesco, con i fratelli Genre ed altri cinque partigiani.

Pinerolo, 6.3.1945
Egregi Sig.ri Malan,
non ho nessuno qui a cui scrivere, e perciò m’indirizzo a voi con la speranza che a fine guerra ne diate comunicazione alla mia famiglia della mia sorte.
Ho appreso ieri sera la mia condanna a morte. L’ho appresa sere­namente, conscio del suo significato. Sono tranquillo e calmo e spero di conservarmi tale, fino alla fine.
Vi prego salutare per me tutti i miei amici, a voi ed alla piccola Marcella un saluto particolare. Tanti saluti a Frida.
Come vi ripeto, a fine guerra, fate sapere alla mia famiglia, quella che è stata della mia sorte, ditegli che muoio rassegnato e tranquillo avendo servito con lealtà la nostra martoriata Italia.
Ancora invio i piú affettuosi saluti.
W l’Italia
Luigi Palombini

Cara mamma,
mi hanno preso prigioniero. State tranquilla presto ci rivedremo in cielo. Coraggio. Ho fatto tutto il dovere con coscienza ed abnega­zione. Baci a tutti
Luigi

Cara Anna,
ti ringrazio di tutto quello che hai fatto per me. Di coraggio ne ho molto e spero di averlo sempre. Tanti saluti
Luigi

Il coraggio ce l’ho e spero di averlo fino al momento dell’esecuzione. So come devo morire e Dio mi darà maggiore forza. Non ho da rim­proverarmi nulla, ho fatto il mio dovere per il bene del mio prossimo e dell’Italia
Pucci Luigi

Tratto da
Lettere di condannati a morte
Della
Resistenza Italiana

Einaudi Editore 1952

Luigi Ciol (Resistere)

È destino dei popoli che il loro cammino
verso la libertà e la giustizia sociale sia
segnato dal sangue dei suoi martiri,
forse perché questo cammino non sia smarrito,
ma chi muore per una causa giusta, vive sempre
nel cuore di chi per questa causa si batte.”
Luigi Ciol (Resistere)
Di anni 19 – nato a Cintelli di Teglio Veneto (Venezia) il 4 ottobre 1925 -. Partigiano con il grado di caposquadra nella Brigata « Iberati » operante nella zona di Venezia -. Catturato il 22 gennaio1945 a Fossalta di Portogruaro – tradotto nelle carceri di Udine – torturato -. Processato il 14 marzo 1945 dal Tribunale Militare Territoriale Tedesco di Udine, per appartenenza a bande armate -. Fucilato il 9 aprile 1945 a Udine, con altri ventotto partigiani.
Udine li 14 marzo 1945
Dalle mie prigioni vi scrivo.
Carissimi famigliari, vengo a voi con queste mie ultime parole, fa­cendovi sapere che sono condannato a morte, ma non disperatevi per me. Speriamo che tutto vada bene, se non va bene va male. Cara mamma se anche muoio io ti resta lo stesso altri quattro leoni, niente da fare così è il destino, io. e Gino Nosella, i più disgraziati dei condannati a morte.
Luigi detto Boschin (parte?) per la Germania, Vi faccio sapere che insieme a noi due è anche il cugino Benito di Cordovado; anche lui condannato a morte. Speriamo che tutto vada bene, ma siamo che aspet­tiamo momento per momento e siamo in trentasette condannati a morte.
Un saluto ai parenti e paesani.
Una idea è una idea e nessuno la rompe. A morte il fascismo e viva la libertà dei popoli. Un saluto a Natale Tomba. e a sua moglie Gigia e ai padroni.
. Se il destino e sfortuna mi rapi, vi chiedo perdono a tutti, papà mamma e fratelli. Girare attorno di qua e di là per la prigione e a dirsi che siamo condannati a morte, ma ormai è così e viva la libertà dei popoli.
È così l’ultimo saluto che vi faccio.
Bacioni ai nonni che preghino per me tanto e vi bacio tutti.
Vostro Luigi

Tratto da
Lettere di condannati a morte
Della
Resistenza Italiana

Einaudi Editore 1952

Lorenzo Viale

È destino dei popoli che il loro cammino
verso la libertà e la giustizia sociale sia
segnato dal sangue dei suoi martiri,
forse perché questo cammino non sia smarrito,
ma chi muore per una causa giusta, vive sempre
nel cuore di chi per questa causa si batte.”

Lorenzo Viale

Di anni 27 – ingegnere alla FIAT di Torino – nato a Torino il 25 dicembre 1917 -. Addetto militare della squadra "Diavolo Rosso", poi ufficiale di collegamento dell’organizzazione "Giovane Piemonte" – costretto a lasciare Torino, si unisce alle formazioni operanti nel Canavesano -. Catturato l’8 dicembre 1944 a Torino, nella propria abitazione, in seguito a delazione, per opera di elementi delle Brigate Nere, essendo sceso dalla montagna nel tentativo di salvare alcuni suoi compagni -. Processato l’8 febbraio 1945, dal Tribunale Co:Gu: (Contro Guerriglia) di Torino, perché ritenuto responsabile dell’uccisione del prefetto fascista Manganiello -. Fucilato l’11 febbraio 1945 al Poligono Nazionale del Martinetto in Torino, da plotone di militi della GNR, con Alfonso Gindro ed altri tre partigiani.

Torino, 9 febbraio 1945

Carissimi,

una sorte dura e purtroppo crudele sta per separarmi da voi per sempre. Il mio dolore nel lasciarvi è il pensiero che la vostra vita è spezzata, voi che avete fatti tanti sacrifici per me, li vedete ad un tratto frustrati da un iniquo destino. Coraggio! Non potrò più essere il bastone dei vostri ultimi anni ma dal cielo pregherò perché Iddio vi protegga e vi sorregga nel rimanente cammino terreno. La speranza che ci potremo trovare in una vita migliore mi aiuta a sopportare con calma questi attimi terribili. Bisogna avere pazienza, la giustizia degli uomini, ahimè, troppo severa, ha voluto così. Una cosa sola ci sia di conforto: che ho agito sempre onestamente secondo i santi principi che mi avete inculcato sin da bambino, che ho combattuto lealmente per un ideale che ritengo sarà sempre per voi motivo di orgoglio, la grandezza d’Italia, la mia Patria: che non ho mai ucciso, né fatto uccidere alcuno: che le mie mani sono nette di sangue, di furti e di rapine. Per un ideale ho lottato e per un ideale muoio. Perdonate se ho anteposto la Patria a voi, ma sono certo che saprete sopportare con coraggio e con fierezza questo colpo assai duro.

Dunque, non addio, ma arrivederci in una vita migliore. Ricordatevi sempre di un figlio che vi chiede perdono per tutte le stupidaggini che può aver compiuto, ma che vi ha sempre voluto bene.

Un caro bacio ed abbraccio

Renzo

Tratto da
Lettere di condannati a morte
Della
Resistenza Italiana

Einaudi Editore 1952

È destino dei popoli che il loro cammino
verso la libertà e la giustizia sociale sia
segnato dal sangue dei suoi martiri,
forse perché questo cammino non sia smarrito,
ma chi muore per una causa giusta, vive sempre
nel cuore di chi per questa causa si batte.”

Lorenzo Viale

Di anni 27 – ingegnere alla FIAT di Torino – nato a Torino il 25 dicembre 1917 -. Addetto militare della squadra "Diavolo Rosso", poi ufficiale di collegamento dell’organizzazione "Giovane Piemonte" – costretto a lasciare Torino, si unisce alle formazioni operanti nel Canavesano -. Catturato l’8 dicembre 1944 a Torino, nella propria abitazione, in seguito a delazione, per opera di elementi delle Brigate Nere, essendo sceso dalla montagna nel tentativo di salvare alcuni suoi compagni -. Processato l’8 febbraio 1945, dal Tribunale Co:Gu: (Contro Guerriglia) di Torino, perché ritenuto responsabile dell’uccisione del prefetto fascista Manganiello -. Fucilato l’11 febbraio 1945 al Poligono Nazionale del Martinetto in Torino, da plotone di militi della GNR, con Alfonso Gindro ed altri tre partigiani.

Torino, 9 febbraio 1945

Carissimi,

una sorte dura e purtroppo crudele sta per separarmi da voi per sempre. Il mio dolore nel lasciarvi è il pensiero che la vostra vita è spezzata, voi che avete fatti tanti sacrifici per me, li vedete ad un tratto frustrati da un iniquo destino. Coraggio! Non potrò più essere il bastone dei vostri ultimi anni ma dal cielo pregherò perché Iddio vi protegga e vi sorregga nel rimanente cammino terreno. La speranza che ci potremo trovare in una vita migliore mi aiuta a sopportare con calma questi attimi terribili. Bisogna avere pazienza, la giustizia degli uomini, ahimè, troppo severa, ha voluto così. Una cosa sola ci sia di conforto: che ho agito sempre onestamente secondo i santi principi che mi avete inculcato sin da bambino, che ho combattuto lealmente per un ideale che ritengo sarà sempre per voi motivo di orgoglio, la grandezza d’Italia, la mia Patria: che non ho mai ucciso, né fatto uccidere alcuno: che le mie mani sono nette di sangue, di furti e di rapine. Per un ideale ho lottato e per un ideale muoio. Perdonate se ho anteposto la Patria a voi, ma sono certo che saprete sopportare con coraggio e con fierezza questo colpo assai duro.

Dunque, non addio, ma arrivederci in una vita migliore. Ricordatevi sempre di un figlio che vi chiede perdono per tutte le stupidaggini che può aver compiuto, ma che vi ha sempre voluto bene.

Un caro bacio ed abbraccio

Renzo

Tratto da
Lettere di condannati a morte
Della
Resistenza Italiana

Einaudi Editore 1952

Un mondo di angoscia di Lionella Moda Bordin

Un mondo di angoscia di Lionella Moda Bordin

Durante la sparatoria effettuata dalle SS fasciste, che avevano circondato la casa, mio marito Alfredo riuscì a fuggire per un miracolo di destrezza e di fortuna. Seguirono giorni neri, nel duplice significato della parola, cioè per l’ansietà che essi comportavano e per la frequente presenza delle uniformi fasciste. L’attività di mio marito non s’interruppe mai. Io fungevo da staffetta fra lui e molti altri appartenenti al Comitato di Liberazione, fra i quali Egidio Meneghini, lo scultore Amleto Sartori, il tipografo Giovanni Zanocco (detto «Campanile» per l’alta statura) e tanti altri. Venivano distribuiti volantini, opuscoli, libri di ardente irredentismo, materiale vario, documenti falsi, soldi per i compagni di lotta; venivano trasmessi ordini e ricevuti sempre nuovi piani tattici. Da allora sono trascorsi venticinque anni e Palazzo Giusti torna alla mia memoria come un luogo di tortura. La prima volta che mi arrestarono fu un’esperienza dolorosa: ricordo il grido di mio figlio che non voleva lasciarmi portar via, che voleva venire con me. Interrogatori lunghi, sfibranti. Poi il rilascio temporaneo, insidioso. Un giorno Zanocco venne a prendere dei soldi per il Comitato e mi diede una ricevuta. Circa una settimana dopo venne arrestato quasi l’intero Comitato di Padova. I fascisti comparvero anche da me, fecero una minuziosa perquisizione e purtroppo trovarono la ricevuta e mi portarono ancora una volta a Palazzo Giusti. Durante il tragitto, riuscii a prendere il foglio dall’incartamento della milizia, lo misi in bocca, lo masticai ed ingoiai in un baleno, evitando gravi conseguenze. Una sera, molto tardi, verso la mezzanotte, mi fecero un serrato interrogatorio. E vollero che fosse presente anche l’onorevole Merlin. La scena fu drammatica. Merlin era alquanto sordo e non riusciva a comprendere tutte le parole che gli venivano rivolte. E ad ogni tardiva risposta, i fascisti gli davano dei ceffoni tali da staccargli quasi la testa. Era una cosa pietosa vedere percuotere un uomo anziano e non poter far nulla per lui. Durante un altro interrogatorio, vidi bastonare l’ingegnere Vasilli di Venezia. Però, fra tanti dolori, ricordo anche la gioia che provai quando Zanocco riuscì a scappare dalle mani dei carcerieri di Palazzo Giusti, e riuscì anche a farmi sapere dove era nascosto. Quando venni rilasciata, lo raggiunsi. E fu un incontro commovente e felice, sapendo cosa gli sarebbe capitato se non fosse riuscito a fuggire. I miei due soggiorni a Palazzo Giusti furono brevi, due o tre giorni in entrambe le occasioni: un preludio per la mia lunga detenzione nelle carceri di Santa Maria Maggiore a Venezia, dove venni inviata in seguito, lontana da mio marito e dai miei cari, in un mondo di privazioni e di angoscia.

Condannato all’astuzia di Aronne Molinari

Condannato all’astuzia di Aronne Molinari

Fin da ragazzo, dalla fine della prima guerra mondiale, partecipai attivamente alle lotte sindacali; poi, al sorgere delle squadracce fasciste, presi parte alle lotte politiche. Fui arrestato una prima volta a Parma, mia città natale, nel 1921; una seconda volta nel 1923 per «associazione a delinquere contro i poteri dello Stato »; quindi nel 1925 per aver reagito a un insulto del segretario federale di Parma; nel 1931 per distribuzione di manifestini antifascisti; e infine nel 1934 fui sottoposto a processo in seguito a una denuncia fatta per togliermi dalla circolazione e condannato a sette anni di carcere. Di questi ne scontai quattro, alla casa penale di Padova, dove, godendo di una certa libertà di movimento (all’interno del carcere, s’intende), mi fu possibile conoscere a fondo tutte le strutture della prigione e i punti dov’era possibile la fuga. Nel 1945, nuovamente arrestato e trasferito da Palazzo Giusti alla casa penale, riuscii cosi a fuggire quattro giorni prima della liberazione.

Ho fatto queste premesse autobiografiche non tanto per arrogarmi esaltazioni personali, ma perché sia meglio compresa la causa che mi portò a Palazzo Giusti e come mi servii delle amare esperienze acquistate per sfuggire, senza gravi danni, alle grinfie dei nostri aguzzini. È naturale che non fu solo per questo ch’ebbi la possibilità di uscirne. A ciò contribuì infatti la disorganizzazione delle informazioni dei nostri avversari e l’approssimarsi della fine del conflitto. Ai primi del marzo del 1945, per delazione di un certo Costante Miazzo abitante in via Belzoni a Padova, fui arrestato dalle Brigate Nere di Nello e Alfredo Allegro, Vivarelli, Prisco e Baracco di Camin. Dapprima mi portarono a Ponte di Brenta dove subii un interrogatorio e dove mi vennero contestate le accuse del delatore, ossia che ero commissario della brigata partigiana Garibaldi di Padova. Naturalmente negai. All’alba del giorno seguente fui condotto al Bonservizi (via Giordano Bruno) assieme a un altro arrestato, Sebastiano Marchesana. Qui le contestazioni ed il modo di condurre l’interrogatorio furono abbastanza duri: il Vivarelli mi bastonò. Comunque non parlai. Il giorno seguente fui messo a confronto con altri quattro detenuti e col delatore e potei rendermi conto di quanto delicata fosse la mia posizione, ma ebbi abbastanza tempo per prepararmi una linea di difesa: primo, perché la spia non aveva molti elementi di accusa al di fuori della propaganda sovversiva; secondo, perché gli altri partigiani dissero di non conoscermi con una fermezza tale da dar garanzia sulla loro sincerità (tre erano gappisti di Padova e precisamente Gastone Nalesso, Bruno Lazzareuo, Guido Franco); terzo Marchesana, agente del SIM promosso poi capitano per meriti partigiani. Dopo quattro giorni di confronti e interrogatori, fummo inviali tutti alla casa penale in attesa del processo, che venne celebrato dopo alcuni giorni da un tribunale militare straordinario. Dei componenti di quest’ultimo ricordo solo il nome del pubblico ministero, un certo maggiore Uderzo dell’esercito repubblichino. Fummo tutti condannati: il Marchesana a cinque anni di carcere, io a sette, mentre i tre giovani partigiani vennero condannati alla pena di morte. Dopo il processo fummo ricondotti alla casa pena1e e messi in due celle separate, in una io e Marchesana, i tre condannati a morte nell’altra. Noi due eravamo abbastanza tranquilli, anche se sapevamo che c’era sempre la possibilità di essere uccisi come ostaggi, cosa che in quel momento rappresentava il pericolo maggiore; d’altra parte si capiva che la fine del conflitto era vicina e che potevamo sperare nella nostra salvezza. Il mattino seguente, alle sei circa, quando cominciavamo ad assopirci, ci fecero alzare e fummo accompagnati in matricola. Qui, prelevati dagli sgherri della banda Carità, venimmo condotti a Palazzo Giusti e qui cominciò quel che si può chiamare il nostro Calvario. Fui ammanettato con il Marchesana, gli altri tre tra loro. Così passammo una lunga giornata d’attesa; non potevamo parlare; non ci dettero né da mangiare, né da bere o da fumare. A sera inoltrata cominciarono gli interrogatori. I primi chiamati furono ,i tre. giovani partigiani; dalle urla strazianti provenienti dall’ufficio del Carità potevamo capire com’era condotto. l’interrogatorio e che si volevano da loro altre confessioni oltre a quelle poche rese davanti al tribunale militare. Nonostante le sevizie subite, si mantennero sulle prime di· sornioni senza mai dire di conoscersi o di aver avuto contatti con noi. Furono portati fuori pesti e sanguinanti, tanto da non reggersi più in piedi. Quindi toccò al Marchesana, che subì pressappoco il medesimo trattamento dei primi tre; ma egli se la cavò in circa mezz’ora dalla furia di quei banditi, anche perché era il meno accusato dalla spia. All’una o alle due circa, venne il mio turno. L’accusa sostenuta dal tribunale e da me confermata, in quanto era il meno che potessi fare, era di propaganda politica, dato che mi ero dichiarato comunista. Premetto che se gli arresti subiti prima mi avevano provocato danni materiali, mi erano serviti però ad affilare l’abilità nella schermaglia degli interrogatori ch’ebbi a sostenere nei lunghi anni di lotta. Ma torniamo a Palazzo Giusti. Come dicevo poc’anzi, restai ammanettato tutto il giorno e mezza la notte. Questo tempo mi servi per osservare tutto ciò che accadeva attorno a me anche nei minimi particolari. Per esempio, nella mattinata vidi un andare e venire di gente con valige e bauli ‘ ne dedussi che c’erano preparativi di trasloco. Ravvisai persone che conoscevo, come Antonio Nicolè {Bandiera} Mario Berion (Curzio) e altri. Capii che gli aguzzini volevano prendere due piccioni con una fava, ossia, mentre si facevano servire, stavano attenti se tra noi vi fosse qualche segno di riconoscimento. Fecero anche un’altra prova: portarono Rino Gruppioni (Spartaco) a confronto con Marchesano, mio compagno di manette. lo guardavo da un’altra parte per non tradirmi col minimo segno, dato che io e Spartaco avevamo operato assieme nel comando delle brigate Garibaldi. Tutto questo susseguirsi di espedienti mi confermò che i repubblichini non avevano in mano nessuna prova concreta della mia attività di combattente partigiano. Quando fui fatto entrare nell’ufficio, il Corradeschi e il tenente Trentanove (cosi lo chiamavano) tentarono subito una provocazione perché reagissi; ma io rimasi esternamente calmo e dissi con fermezza: ~ Prima interrogatemi, poi prendete le vostre decisioni ». Questa mia ferma risposta piacque a una donna e ad un altro figuro seduto al suo fianco, che impedirono ai primi due di sfogare il loro bestiale livore. La donna (che poi seppi essere la figlia di Carità) mi chiese perché ero comunista, come risultava dai verbali processuali in loro possesso. Risposi alla buona, dicendo di non saperlo con precisione, ma che ero un operaio meccanico e che, ancora quand’ero giovane, se protestavo perché la paga non era sufficiente per mantenere la mia famiglia, i padroni mi denunciavano ai fascisti, questi ultimi mi mettevano in prigione, cosi come mi era successo a Parma, mia città di provenienza, e poi a Padova. Tant’è vero che quando nel 1939 venne a Padova il signor Mussolini, mi arrestarono per quindici giorni; nel 1940 venne quel b … del re e mi misero dentro per dieci giorni; poi venne quel c … del principe Umberto e mi tennero in carcere per altri quindici giorni. Questi due ultimi epiteti, detti di proposito, sollevarono l’ilarità degli sgherri presenti. In quel preciso momento capii di avere in mano la situazione, per lo meno per quanto riguardava i presenti. A quel rumore di risa s’affacciò alla porta un uomo che avevo visto prima confabulate con un altro, evidentemente un informatore; capii che era il comandante della ciurma. Domandò cosa c’era da ridere a quel modo, e la figlia rispose: « Senti, papà, cosa dice quest’uomo! ,.. e mi fecero ripetere le affermazioni suddette. Il Carità mi ascoltò con viso calmo e compiaciuto, quasi per approvare, e capii che avevo colpito nel segno, sfruttando il contrasto fra monarchia e fascismo. Ma poi repentinamente, e quasi con durezza, il Carità prese a farmi domande inerenti il processo subito al tribunale militare. Sapevo ormai a memoria le deposizioni precedenti, sia degli interrogatori, sia del tribunale. Mi accorsi che era rimasto colpito dalla mia tranquillità (apparente, se vogliamo, ma pur sempre ben simulata). Mi fece riferire qualche discorso tra quelli che avevo confessato fare alla gente, cosa che feci alla buona. A un certo punto mi interruppe e mi chiese bruscamente cosa pensavo della guerra in corso e della sua fine. Risposi: «Comandante, mi perdoni, ma non posso rispondere. Se fossimo al caffè potrei farlo, ma qui, con questi signori alle spalle (vi erano sempre Corradeschi e Trentanove), mi rifiuto di rispondere ». Al che disse: ~ Ti garantisco che nessuno ti toccherà, purchè tu mi dica sinceramente il tuo pensiero; e fa conto di essere al caffè ». Posso dire francamente che non sapevo decidermi. Comunque ormai il dado era tratto. Dopo alcuni attimi di silenzio, preso il coraggio a due mani, mi decisi: La guerra che io considero ingiusta, l’avete persa, ormai ». E spiegai i motivi; bluff dell’arma segreta tedesca, superiorità ormai palese delle forze e degli armamenti anglo-americani e russi. È logico che non mi sentivo tranquillo e sicuro della parola datami da Carità, però compresi che anche questa volta avevo fatto centro e che, vigliacchi com’erano, avevano una paura tremenda della fine. In quel momento avevo l’impressione di essere in una gabbia di iene, dove ciascuno aspetta il momento giusto per aggredire. Cosi si può immaginare con quale sforzo mentale cercavo di controllare la situazione. Si tenga pur conto della mia esperienza acquisita durante i precedenti arresti della famigerata polizia fascista (l’OVRA), che per condannarmi ha dovuto inventare una di quelle infami montature che erano nel suo costume. Ma torniamo ai fatti. Quando ebbi finito di parlare, Carità rimase alcuni minuti (che mi parvero ore) in silenzio, poi si alzò, mi venne vicino e chiese: «Cosa mi faresti, qualora m’incontrassi fuori dopo la sconfitta che tu prevedi? •. Risposi con calma: Nulla, in quanto da parte mia diventerebbe una vendetta quasi personale e quindi più riprovevole dell’azione che lei sta conducendo ora. Caso mai sarà una giustizia legale a procedere, ma non certo io ». Mi mise una mano sulla spalla, dicendo: «Hai ragione. La tua sincerità ti salva~. Mi chiese se avevo sete; risposi di si. Fece portare del vermut e me ne versò un bicchiere. Poi mi diede una sigaretta che accettai anche per calmare la tensione nervosa che stava per raggiungere il limite di rottura.

Ero quasi incredulo d’essere riuscito a calmare quelle belve che poche ore prima avevano infuriato sulle carni dei miei compagni. Invece era proprio così. Diede ordine ai suoi sgherri di condurmi al secondo piano, dicendo: «Guai a voi se lo toccate! •. Capii che anche lui in parte giocava, dato che non era riuscito a scoprire interamente il mio vero pensiero. E cosi rimasi all’erta. Intanto, dopo circa un’ora che m’ero steso su una branda fingendo di dormire, fu condotto nella cella un uomo con catene ai polsi, lo slegarono e lo lasciarono l’ Questi, poco dopo, venne vicino alla mia branda cercando di conversare; io continuai a fingere di dormire, egli mi scosse gli chiesi cosa volesse. Mi domandò perché ero là e i motivi dell’arresto. Non risposi e dissi solo di lasciarmi dormire. Rimase seduto sulla mia branda per qualche tempo e, quando credette che veramente dormissi, piano piano se ne andò. Il mattino seguente fecero un’altra prova. Verso le otto mi accompagnarono al gabinetto per la pulizia, ma a metà scala ebbi la sorpresa di incontrare Attilio Gambia (Ascanio), anche lui comandante veneto delle brigate Garibaldi e mio diretto superiore. Ambedue abbassammo la testa senza il minimo gesto; così anche questa prova, per loro fallita, mi dette una certa tranquillità. Dopo tre giorni di ansiosa attesa, fui svegliato di mattina presto e mi fu annunciato che dovevo tornare alla casa penale per scontare la condanna infittami dal tribunale, pur rimanendo sempre a loro disposizione. Non so dire che sollievo provai apprendendo questa notizia. Ebbi ancora la forza di dire: «Pregate il comandante Carità di lasciarmi li dove ero prima e dove mi ero trovato bene ». Ebbi un rifiuto e, accompagnato in un cortile, rividi i miei compagni sul camion. Fummo stipati assieme in una celletta d’isolamento, dove cominciammo subito a scambiarci le idee e i racconti su come eravamo stati trattati dalla banda Carità, e facemmo i pronostici sul nostro futuro. Il morale dei tre condannati a morte era abbastanza buono. lo e Marchesana facemmo tutto il possibile per incoraggiarli, prospettando loro la prossima fine della guerra ormai a tutti evidente. Così trascorremmo sette o otto giorni e il morale di tutti diventava sempre più allegro. Ma un mattino, alle quattro circa, fummo svegliati dai secondini che invitarono i tre giovani ad uscire e li consegnarono a quattro o cinque della banda Carità. I tre furono fucilati nelle caserme di Chiesanuova. Le preoccupazioni mie e di Marchesana aumentarono sapendo che la belva ferita è più pericolosa. Cominciai a studiare. il modo .di fuggire e riuscii a metterlo in pratica dopo alcuni giorni, il 22 aprile. Approfittando di un momento di disattenzione di un secondino che doveva condurmi agli uffici per conferire con il comandante del carcere salii di corsa sul cammino-ronda e mi gettai dalle mura. Fortuna volle che mi provocassi solo alcune escoriazioni alle ginocchia· attraversai di corsa il cortile della chiesa di S. Tommaso, dalla chiesa stessa e, di buon passo, raggiunsi una casa amica a Porta Venezia. La sera stessa ebbi modo di mettermi a contatto col comandante di brigata e di riprendere la mia attività quale comandante delle brigate garibaldine di Padova e provincia

Leandro Corona

sacrificio - Copia

È destino dei popoli che il loro cammino
verso la libertà e la giustizia sociale sia
segnato dal sangue dei suoi martiri,
forse perché questo cammino non sia smarrito,
ma chi muore per una causa giusta, vive sempre
nel cuore di chi per questa causa si batte.”

Leandro Corona
Di anni 20 – contadino – nato a Maracalagonis (Cagliari) il 5 maggio 1923 -. Arrestato il 12 marzo 1944, in frazione Collina di Vicchio di Mugello (Firenze), durante un’azione di rastrellamento di S.S. italiane – tradotto nelle carceri di Firenze — Processato il 21 marzo 1944, dal Tribunale Militare Straordinario di Guerra di Firenze, perché in ritardo di tre giorni sulla data di presentazione della chiamata alle armi -. Fucilato alle ore 6,30 del 22 marzo 1944 a Campo di Marte in Firenze, da plotone della G.N.R., con Quieto Quitti, Guido Targetti, Antonio Raddi e Adriano Santoni.
Firenze, 22.3.1944
Carissimi genitori,
mentre penso al dolore che proverete alla notizia della mia triste sorte, vi voglio scrivere per confortarvi e assicurarvi che ho accettato ogni cosa dalle mani del Signore.
Spero che come il buon Dio mi ha dato la forza di sopportare tanta pena così darà a tutti voi il coraggio e la rassegnazione. Vi chiedo scusa se non sono sempre stato buono come avrei dovuto e spero mi perdo­nerete. Per me non piangete che sono sicuro che il buon Dio accetterà il mio sacrificio ed ora mi trovo contento di unirmi a Lui.
Tutti vi ricordo in particolare modo la mamma e il babbo i nonni i fratelli e la sorella i parenti tutti, per me non vi angustiate non pian­gete mi fareste dispiacere perché sono rassegnato alla volontà del Si­gnore.
Per questo sacrificio darà a voi ogni benedizione e a me darà il Paradiso dove tutti ci ritroveremo.
Vi bacio e abbraccio tutti. Vostro affezionatissimo
Leandro Corona

Tratto da
Lettere di condannati a morte
Della
Resistenza Italiana

Einaudi Editore 1952

Guido Targetti

sacrificio - Copia

È destino dei popoli che il loro cammino
verso la libertà e la giustizia sociale sia
segnato dal sangue dei suoi martiri,
forse perché questo cammino non sia smarrito,
ma chi muore per una causa giusta, vive sempre
nel cuore di chi per questa causa si batte.”

Guido Targetti

Di anni 21 – contadino – nato a Vicchio di Mugello (Firenze) il 3 settembre 1922 -. Arrestato il 12 marzo 1944, in frazione Collina di Vicchio di Mugello, durante una azione di rastrellamento di S.S. italiane – tradotto nelle carceri di Firenze -. Proces­sato il 21 marzo 1944, dal Tribunale Militare Straordinario di Guerra di Firenze, perché in ritardo di tre giorni sulla data di presentazione alla chiamata alle armi -. Fucilato alle ore 6,30 del 22 marzo 1944 a Campo di Marte in Firenze da plotone di militi della G.N.R., con Leandro Corona e altri quattro.

Carissimi genitori . e tutti di famiglia,
vengo con questa ultima lettera, dove non mi è stato possibile darvi mie notizie, dato che mi trovo entro queste brutte mura, in questo momento sto ricordandovi, ad uno ad uno con tutto il mio cuore.
Credetemi che sempre vi ho voluto bene e che sempre in qualunque momento ho ricordato ciò che voi avete fatto per me.
Se qualche volta vi ho fatto qualche torto vi prego di perdonarmi di tutto cuore.
Vi ho sempre voluto bene e prego anzi è pregato sempre il Padre Eterno con tutti í Suoi Santi di aiutarvi e proteggervi.
Se Iddio volesse chiamarmi a sé, io pregherò sempre d’alto dei cieli per la vostra felicità.
Il vostro figliolo che sempre vi ha voluto tanto bene, vi chiede perdono se qualche volta vi ha recato dolore e vi bacia tutti salutan­dovi e chiedendovi perdono se qualche volta vi ha recato dolore.
Vostro figliolo

Targetti Guido

Saluto a tutti. Qui insieme sta pure Corona Leandro. Vi prego di tenerlo come fratello. Ancora una volta vi bacio e vi saluto tutti. Vostro
Guido Targetti

Tratto da
Lettere di condannati a morte
Della
Resistenza Italiana

Einaudi Editore 1952

Giuseppe Testa

sacrificio - Copia

È destino dei popoli che il loro cammino
verso la libertà e la giustizia sociale sia
segnato dal sangue dei suoi martiri,
forse perché questo cammino non sia smarrito,
ma chi muore per una causa giusta, vive sempre
nel cuore di chi per questa causa si batte.”

Giuseppe Testa
Di anni 19 – impiegato al Genio Militare di Roma e studente in Ragioneria – nato a Si Vincenzo Valle Roveto (L’Aquila) il 25 maggio 1924 -. Nei primi mesi del ’43 inizia attività antifascista ponendosi in contatto con elementi del Partito d’Azione in Roma — Nei mesi dopo 1’8 settembre ’43 aiuta militari alleati ex-prigionieri che a migliaia tentano di attraversare il fronte nella zona fra il Monte Cornacchia e Cassino -è attivissimo nella raccolta di armi e nell’organizzazione della formazione che pren­derà il nome di « Patrioti Marsicani » ~ la casa di famiglia a Morrea (L’Aquila) diventa centro di rifugiati politici -. Catturato a Morrea, nel corso di azione di rastrellamento condotta da militari ed elementi della polizia tedesca, insieme al padre, al fratello, allo zio, al dirigente comunista Nando Amiconi e altri – tradotto nella sede del Co­mando tedesco di Civita d’Antino (L’Aquila), poi nel campo di concentramento di Madonna della Stella (Sera, Frosinone) – più volte torturato — Davanti al Tribunale Militare Tedesco di Madonna della Stella si assume, per scagionare i parenti e com­pagni, tutte le responsabilità -. Fucilato 11 maggio 1944, da plotone tedesco, lungo un canale nei pressi di Alvito (Frosinone) -.
Medaglia d’Oro al V.M.

Cara mamma,
non preoccuparti per me. È il destino crudele che ha voluto col­pirmi in questo modo. Perdonami di tutti i peccati e dei dispiaceri che ho mancato verso di te. lo vado con coraggio alla morte. Baci a Italia, Concettina, Oreste, Gabriella, Carlo. Un forte abbraccio a te
Peppino

Caro papà,
perdonami anche tu di tutto quello che ho mancato verso di te. Fa coraggio a mamma. Non pensare a me. Saluti e bacia tutti aff.
Peppino

Caro Professore,
la mattina del giorno 11 – 5 – 44 il destino ha segnato per me la fine. io, come sai, sono sempre forte come sono state forti le mie idee. Spero che il mio sacrificio valga per coloro i quali hanno lottato per le stesse idee dee e che un giorno possa essere il vanto e la gloria della mia famiglia, del mio Paese e degli amici miei. Voi che mi conoscete potete ripetere che il mio carattere si spezza e non si piega. Abbiatemi sempre presente in tutti i Vostri lavori e specialmente in tutte le opere che compirete per il bene della Patria così martoriata.

Muoia tutto – Viva la nostra Italia.
Tuo aff Peppino Testa
al prof. Marucchi Agostino – Via Gaetano Moroni io – Roma

Tratto da
Lettere di condannati a morte
Della
Resistenza Italiana

Einaudi Editore 1952

Giovanni Pistoi

sacrificio - Copia

È destino dei popoli che il loro cammino
verso la libertà e la giustizia sociale sia
segnato dal sangue dei suoi martiri,
forse perché questo cammino non sia smarrito,
ma chi muore per una causa giusta, vive sempre
nel cuore di chi per questa causa si batte.”

Giovanni Pistoi

Di anni 24 – impiegato – nato a San Quirico d’Orda (Siena) il 10 maggio 1920 -. Dal marzo del ’44 partigiano della 181° Brigata « Morbiducci » operante nella Valle Varaita (Saluzzo) -. Catturato a Saluzzo nel novembre 1944, nel corso di un’azione di sabotaggio, ad opera di militi delle locali Brigate Nere – detenuto per un mese nelle carceri di Cuneo (Ufficio Politico) – orribilmente torturato -. Fucilato senza processo il 22 dicembre 1944, nella Caserma « M. Musso » di Saluzzo – E’ fratello del partigiano Spartaco Pistoi, ucciso in combattimento.

Cara mamma e cari tutti,

Ormai so la fine che debbo fare; perciò queste sono le ultime mie parole. Ho sempre pensato a te, mamma, e a voi tutti, specialmente a mio fratellino Silvio.
Non ho paura di morire.
Salutatemi Caterina e la sua famiglia.
Bacioni a tutti.
Ciao
tuo figlio

Tratto da
Lettere di condannati a morte
Della
Resistenza Italiana

Einaudi Editore 1952

Giordano Cavestro (Mirko)

sacrificio - Copia

È destino dei popoli che il loro cammino
verso la libertà e la giustizia sociale sia
segnato dal sangue dei suoi martiri,
forse perché questo cammino non sia smarrito,
ma chi muore per una causa giusta, vive sempre
nel cuore di chi per questa causa si batte.”
Giordano Cavestro (Mirko)
Di anni 18 – studente di Scuola Media – nato a Parma il 3o novembre 1925 -. Nel 1940 dà vita, di sua iniziativa, ad un bollettino antifascista attorno al quale si mobilitano numerosi militanti – dopo 1’8 settembre 1943 lo stesso nucleo diventa centro organiz­zativo e propulsore delle prime attività partigiane nella zona di Parma -. Catturato il 7 aprile 1944 a Montagnana (Parma), nel corso di un rastrellamento operato da tedeschi e fascisti – tradotto nelle carceri di Parma -. Processato il 14 aprile 1944 dal Tribunale Militare di Parma – condannato a morte, quindi graziato condizionalmente e trattenuto come ostaggio -. Fucilato il 4 maggio 1944 nei pressi di Bardi (Parma), in rappresaglia all’uccisione di quattro militi, con Raimondo Pelinghelli, Vito Salmi, Nello Venturini ed Erasmo Venusti.
Cari compagni, Parma, 4-5.1944
ora tocca a noi.
Andiamo a raggiungere gli altri tre gloriosi compagni caduti per la salvezza e la gloria d’Italia.
Voi sapete il compito che vi tocca. Io muoio, ma l’idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e bella.
Siamo alla fine di tutti i mali. Questi giorni sono come gli ultimi
giorni di vita di un grosso mostro che vuol fare più vittime possibile. Se vivrete, tocca a voi rifare questa povera Italia che à così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care. La mia giovinezza ì spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio. Sui nostri corpi si farà il grande faro della Libertà.
Cara mamma e cari tutti,
purtroppo il Destino ha scelto me ed altri disgraziati per sfogare la rabbia fascista. Non, preoccupatevi tanto e rassegnatevi al più presto della mia perdita.
Io sono calmo.
Vostro Giordano

Tratto da
Lettere di condannati a morte
Della
Resistenza Italiana

Einaudi Editore 1952