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Giulio Stocchi, In tempo di guerra

Giulio Stocchi,
In tempo di guerra

Sentinella, a che punto è la notte?
L’alba sta per venire
ma la notte non è ancora terminata.
Non stancatevi. Tornate. Domandate
Isaia

Se questo resta com’è
siete perduti.
Il vostro amico è il cambiamento,
Il vostro compagno di lotta
il dissidio
B. Brecht

E vedendo il fumo del suo incendio,
guarderanno da lontano per paura del suo tormento, e diranno:
-Ahi, ahi Babilonia, città eccelsa, città
forte! in un attimo, ecco, è caduta su te la tua
condanna
Apocalisse, 18, 9, 10

Beppe Clerici e Daysi Lumini – Torna da una guerra un soldato

Beppe Clerici e Daysi Lumini

Torna da una guerra un soldato

Torna da in guerra un soldato oggidì
Torna da in guerra un soldato oggidì
È senza scarpe e malvestì
Dove vieni soldato oggidì

Signora torno dalla guerra oggidì
Signora torno dalla guerra oggidì
Portate un po’ di quel buon vi
Per il soldato che ritorna oggidì

E quel soldà si mette a bere oggidì
E quel soldà si mette a bere oggidì
Si mette a bere e a cantar
E la ostessa sospirar oggidì

Ditemi un po’ o bella ostessa oggidì
Ditemi un po’ o bella ostessa oggidì
A farvi sospira cos’è?
È forse il vino dato a me oggidì

Non è quel vino a darmi pena oggidì
Non è quel vino a darmi pena oggidì
Ma il mio marito che è partì
E voi gli somigliare tanto oggidì

Ditemi un po’ o bella ostessa oggidì
Ditemi un po’ o bella ostessa oggidì
Da lui aveste tre figliol
E son ben quattro a dirvi mamma oggidì

False notizie ho avuto fino a oggidì
False notizie ho avuto fino a oggidì
Che era morto il mio marì
E in moglie a un altro mi ritrovo oggidì

Il vino in lacrime si cambia oggidì
Il vino in lacrime si cambia oggidì
Vuota il bicchiere bel solda
Non dice grazie e se ne va

http://www.antiwarsongs.org/categoria.php?id=117&lang=it

Massimo Coltrinari – Prigionieri di guerra italiani

Massimo Coltrinari

Prigionieri di guerra italiani

700.000 militari italiani prigionieri in Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Unione Sovietica, 650.000 internati in Germania. Le condizioni di detenzione. Il ritorno nel nostro Paese

La guerra, voluta da Mussolini, doveva finire nell’estate del 1940 con la resa dell’Inghilterra. In breve ci si sarebbe messi al tavolo della pace e l’uomo di Predappio avrebbe svolto il ruolo di mediatore tra le sconfitte democrazie occidentali e il leone tedesco. Secondo certe leggende, stando dalla parte del vincitore, Mussolini avrebbe dovuto svolgere un ruolo di contenimento alle pretese quasi illimitate della Germania.

Ma, contro ogni aspettativa, la Gran Bretagna resistette e tutto ciò non avvenne; il nostro Paese dovette così affrontare una guerra a cui non era assolutamente preparato.

Le inevitabili sconfitte cui andò incontro portarono, tra lutti e rovine, anche a lasciare nelle mani del nemico oltre 700.000 militari prigionieri che furono dispersi in tutte le regioni del mondo. Prigionieri italiani furono detenuti per la maggior parte dalla Gran Bretagna (circa 400.000), dagli Stati Uniti (circa 125.000), dalla Francia (circa 50.000) e dall’Unione Sovietica il cui numero, al termine del conflitto, risultò essere di circa 12.000 prigionieri anziché i previsti 60-80.000. A questa massa di uomini – il fior fiore delle classi di leva – si andarono ad aggiungere altri circa 650.000 militari italiani, catturati dai tedeschi dopo l’armistizio ed internati in Germania.

La gestione dell’uscita dalla guerra fu così disastrosa che dovemmo pagare anche questo enorme prezzo in termini di sofferenze e privazioni. In più i militari catturati dai tedeschi non ebbero nemmeno lo status di prigionieri secondo la convenzione di Ginevra del 1929, ma lo status di «internati», essendo considerati «non belligeranti» non essendoci nel settembre 1943 tra Italia e Germania uno stato di guerra dichiarato.

Questa enorme massa di prigionieri, che coinvolgeva tantissime famiglie in Italia, non poteva non avere, al momento del rimpatrio, un suo peso ed una sua valenza sulle scelte che il nostro popolo andò ad affrontare per darsi una vita istituzionale rispondente alle proprie necessità. In altri termini i prigionieri di guerra e gli internati, che nel loro totale, secondo la relazione Facchinetti del 1947, ammontarono a 1.350.000 considerando tutti gli aspetti in cui la prigionia italiana si articolò nella seconda guerra mondiale, al momento del loro ritorno in Patria portarono un loro contributo diretto o indiretto alla rinascita della vita politica del nostro Paese. Dal maggio 1945 al febbraio 1947 quasi tutti i prigionieri italiani furono restituiti all’Italia e ognuno ebbe la possibilità di partecipare alle decisioni di quegli anni difficili e determinanti. Così, a seconda dell’esperienza vissuta, i prigionieri di guerra poterono dare un loro contributo.

Il documento di un militare italiano prigioniero degli inglesi (da http://m.coratolive.it/rubriche/334/ seconda-guerra-mondiale-lettere- dalla-prigionia-di-soldati-coratini)

Iniziamo da quelli più numerosi, quelli in mano alla Gran Bretagna. La prigionia inglese fu severa, non certamente piacevole, ma corretta. Gli italiani ebbero modo di vedere da vicino il modo di essere degli inglesi nel mondo e come stavano gestendo il loro Impero. Una esperienza sicuramente positiva fu quella dei prigionieri in Kenya, in Sud Africa, a Ceylon, in Australia e, in parte, in India; un po’ meno per quelli che inizialmente furono tenuti nel Nord Africa ed in Palestina o inviati in Inghilterra dove anche questi ultimi ebbero modo di vedere lo stile di vita anglosassone. In linea generale ne trassero insegnamenti favorevoli ed un senso di ammirazione – non certo elevato ma sostanzialmente reale – del modo di vivere inglese. Saranno costoro che in Italia – in linea di massima – aderiranno con sincerità ai principi democratici di stampo occidentale.

Lo stesso discorso vale per i soldati italiani prigionieri degli Stati Uniti. Gli statunitensi al momento della cattura avevano assunto – e questo non solo nei confronti degli italiani ma anche dei giapponesi e dei tedeschi – un atteggiamento pedagogico. Erano convinti che questi soldati, educati nel clima della dittatura, potessero essere orientati su principi democratici; sicuramente se messi in contatto con il sistema di vita americano, i prigionieri, una volta rientrati nel loro Paese, sarebbero stati ottimi veicoli di propaganda per gli Stati Uniti.

Con questo atteggiamento la prigionia negli Stati Uniti fu umana, accettabile e, se paragonata a tutte le altre, la migliore.

Sbarco di prigionieri italiani provenienti dai Paesi anglo-americani

II segno cambia completamente con le altre due prigionie, quella sovietica e quella francese. Quella sovietica diede vita nel 1945-’47 a roventi polemiche che incisero molto nella vita politica di quegli anni. Da una parte si sosteneva che le tesi espresse dall’URSS erano accettabili, dall’altra si era convinti, davanti alla mancanza di informazioni, che grandi masse di italiani erano ancora tenute prigioniere nell’Unione Sovietica, senza nessuna possibilità di restituzione.

Nella realtà – ormai è acclarato – oltre il 90% dei prigionieri caduti, dopo la ritirata del gennaio 1943, in mano sovietica, morì nei mesi di febbraio, marzo, aprile e maggio 1943.

Le cause di ciò sono ben descritte da chi subì la prigionia russa fin dagli anni 50: condizioni ambientali orrende, tifo, mancanza di alimentazione, malattie, interminabili marce nella neve, campi di concentramento in condizioni igieniche pessime; tutto contribuì ad elevare il tasso di morte dei nostri prigionieri. E ciò senza colpe specifiche da attribuire ai sovietici impegnati in una guerra per la sopravvivenza; non c’era spazio per attenzioni o risorse da dedicare ai prigionieri nemici. In Italia rientrarono circa 12.000 soldati dalla Russia dei previsti 60-80.000.

Le polemiche che, come detto, accompagnarono questi rientri, misero un po’ in ombra l’altra grande tragedia: quella dei prigionieri italiani in mano francese.

Giuridicamente i francesi di De Gaulle non avrebbero dovuto tenere prigionieri soldati italiani in quanto l’Italia con la Francia aveva concluso un armistizio. Ma De Gaulle dettò le sue regole e non solo trattenne come prigionieri quei soldati italiani che le sue truppe avevano catturato in Nord Africa, ma pretese – per l’economia dell’Algeria e della Tunisia, disse – altri 15.000 soldati italiani catturati da americani ed inglesi. Questa prigionia francese fu veramente crudele. Rifacendosi alla cosiddetta «pugnalata alla schiena» del 1940 i francesi commisero sui nostri connazionali ogni sorta di sopruso, non accettando nemmeno in linea teorica di avere gli italiani come loro collaboratori, come invece fecero americani ed inglesi, e usando nei campi un trattamento che non è secondo a quello dei campi tedeschi. Sia per i reduci dalla prigionia russa che da quella francese, si manifestò, una volta arrivati in Italia, un’avversione così radicata verso i loro detentori. Saranno questi reduci che – imputando le loro sofferenze a chi nel 1940 dichiarò la guerra – negli anni del dopoguerra, opteranno per una scelta rinnovatrice e democratica.

Si può anche dire che se l’Italia non è scivolata nella guerra civile, nello scontro armato – come era facile accadesse soprattutto nel momento di massima crisi con l’attentato a Togliatti – in parte lo si deve anche al senso di misura e di equilibrio di questa massa di giovani e meno giovani ex combattenti, che attraverso le sofferenze della guerra e della prigionia non era più disposta a risolvere i contrasti interni con l’uso delle armi.

L’epoca delle avventure, che loro avevano pagato duramente, era per fortuna terminata.

Da “Patria indipendente” n. 10/11 del giugno 1996

Gino Ricceri – Carissima madre

"Carissima madre, ancora mi trovo vivo"

Cesare, detto Gino, Ricceri racconta paura, morti, combattimenti, mamma, famiglia a Porte del Pasubio il 4 luglio 1916

Li 4-7-1916
Carissima Madre
Con molta impressione ti scrivo queste due righe per farti sapere che ancora mi trovo vivo per buona fortuna ed in ottimo stato di salute. Cara Madre vengo ad annunziarti che ieri giorno 3 dopo un gran bombardamento alle ore 11 precise abbiamo iniziato l’avanzata che dopo un breve scambio di fucilate ci anno fatti andare all’assalto non puoi credere in quel momento il mio cuore cosa mi faceva. Dunque andati all’assalto abbiamo fatto diversi prigionieri quattro mitragliatrici ed altro materiale da guerra. Cara Madre non ò potuto fare a meno di non piangere quando ò veduto quei bei giovani che come me si trovano in queste brutte condizioni più inpressione e stata quella nel vedere gran numero di feriti e anche diversi morti dove senza avvedersene a qualcuno passavamo di sopra più lamenti che facevano straziare il cuore nel vedere tante giovani vite così massacrate. Cara Madre mi sono di già visto perso perché ancora non si parla di cambio e nel medesimo tempo sono spesse volte che me la sono cavata a pulito. Come ti annunziavo in una mia antecedente che avevo avuto notizie da Riccardo e che tutto ti dicevo quanto esso mi mandava a dire ed io subito gli risposi ed attendo nuovamente da lui risposta per sapere come si trova più quando tu mi rispondi anche tu fammi sapere notizie in proposito di lui. Cara Madre credi che qua su questi altissimi monti ancora perdura la sete e la fame e per buona fortuna il giorno tre abbiamo potuto mangiare qualche scatoletta dei viveri dagli Austriaci lasciati.
Altro non mi prolungo con la speranza di tornare tra voi salvo o prima o dopo. Cesso di scrivere perché ancora non sono tornato nel mio primiero stato con queste impressioni.
Saluta tutti chi ti domanda di me saluta tanto le sorelle più ricevi i più cari ed affettuosi saluti tuo figlio Gino

Gino Frontali–Una bomba fra due uomini

Una bomba tra due uomini

Gino Frontali racconta bombardamenti, feriti, morti, orrori a Ponte del Pissandolo (BL) il luglio 1915

Il sottotenente medico Gino Frontali descrive un bombardamento e gli effetti che provoca.

Lo scoppio era lacerante come un grido di ferocia sovrumana e dava una certa emozione a carattere viscerale. La ventata di uno di questi scoppi fu sufficiente a gettare a terra Frattari, il mio caporale di sanità mentre discorreva in piedi con me seduto.
Le prime vittime furono due portatori di filo spinato, che trasportavano a spalla il rotolo infilato sopra un paletto. Il proiettile doveva essere scoppiato fra l’uno e l’altro perché aveva asportato la parte posteriore del cranio scucchiaiandone buona parte del cervello a quello che stava davanti e la faccia, un braccio e una gamba a quello che stava  di dietro. Ambidue erano anneriti come da fuligine e agitavano i loro corpi moribondi in un viscidume vermiglio. D’allora in poi il mio lavoro subì delle recrudescenze ad ogni colpo che cadeva in pieno sulla nostra truppa naturalmente priva di ricoveri blindati. Consumavo in poche ore le mie riserve di medicatura e rimanevo un po’ stordito dalle grida dei feriti che s’affollavano impazienti davanti al posto di medicazione. Medicai anche qualche artigliere ferito leggermente da schegge di rimbalzo. Perché il medico degli artiglieri se ne stava a S. Stefano ed arrivava in automobile, chiamato per telefono, invariabilmente quando i suoi feriti erano già medicati.

Jaroslav Seifert – Canzone sulla guerra

Jaroslav Seifert
Canzone sulla guerra

Strozzate la guerra,
che le donne possano sorridere
e non invecchiare così rapidamente
come invecchiano le armi.
*
La guerra però dice: Io sono!
Sono dal principio,
non v’è mai stato momento
in cui non fossi
*
Sono vecchia come la fame
e come l’amore.
Io non mi sono creata,
ma il mondo è mio!
*
E lo distruggerò.
Sarò presente
quando il brandello insanguinato a fuoco
cadrà nel buio
*
come la saliva dei bambini
sul fondo di un pozzo
quando vogliono misurarne
la buia profondità
*
Ma noi – e questa speranza
Possiamo ancora un attimo
Ancora un breve attimo
Possiamo riflettere

Anny Mayrhofer – La rivoluzione d’ottobre

Anny Mayrhofer
La rivoluzione d’ottobre
Anny Mayrhofer racconta ospedali, malattie, feriti a Hubyn, Volyns’ka oblast, Ucraina il 1917
Dall’ospedale militare in Galizia, ai confini con la Russia zarista, Anny Mayrhofer subisce le conseguenze di uno dei più rilevanti eventi del ‘900.
Passarono ancora mesi, la guerra infuriava ancora, stanchezza in ogni ambiente, senza viveri nella città, senza carbone, la Germania e l’Austria erano circondate da nazioni nemiche. Verso i primi dell’ottobre 1918 (1917, n.d.r.) circolavano voci che l’esercito russo era contro lo Zar e si stava preparando la rivoluzione. Una mattina di questo triste autunno, l’ospedale era pieno di feriti e malati: l’epidemia spagnuola mieteva molte vittime ed oltre ai feriti ed ai prigionieri, anche molti del personale infermieristico marcavano visita. Anch’io fui colpita dalla febbre spagnuola. Per tre giorni ebbi temperatura altissima; fra noi sorelle ci aiutavamo a vicenda; il terzo giorno della mia malattia mancavano i medicinali e presi ciò che avevamo: un bicchiere di cognac! Fu la combinazione o fu proprio il cognac la forza che mi permise di superare l’infezione?  I nostri feriti avevano bisogno di cure, io debole e stanca, tornai in corsia, chiamiamola corsia! Fra il contadini russi ce ne era uno che mi portava sempre la legna per le stufe. Un giorno a mezzogiorno tutte pranzavamo, come al solito detti anche a lui il pranzo e lui me ne fu grato per tanti tanti mesi, ma un giorno si fermò sulla sogna della baracca e mi fece capire che dovevamo andare via tutti, mi disse, ripetendo la parola rivoluzione, rivoluzione; dopo due ore vennero cinque contadine russe, entrarono nell’ufficio del capitano medico, tagliarono i fili telefonici, capimmo che il momento era tragico. Dopo poco arrivarono i mezzi mandati a Wladimir Valinsky dal nostro comando. Il lavoro per sistemare tutti i feriti era caotico, i feriti che non potevano essere mossi li legammo su assi di legno, quelli che potevano stare seduti li legammo sulle sedie, i meno gravi avvolti in coperte e giornali; qualsiasi indumento era usato (era fine ottobre ed il freddo era intenso) poi tutti vennero sistemati sui carri tirati da cavalli e buoi.

In tutta questa tragedia sentimmo urla e grida dalle baracche dei prigionieri italiani, questi avevano paura di rimanere abbandonati, ma non fu così; per chilometri camminarono insieme a noi dietro la colonna della Croce Rossa.
Il lavoro di noi sorelle e dei medici fu molto faticoso. Il freddo e la neve furono i nostri peggiori nemici. Strada facendo pregavamo i contadini russi di darci coperte vecchie e stracci per legare le ferite e salvare dal congelamento. Dopo dodici ore di marcia arrivammo a Wladimir Valinsky , dove trovammo il treno per noi: già era stato occupato da molti militari tedeschi, così sapemmo della rivoluzione bolscevica in atto e capimmo che dovevamo fare al più presto per lasciare il territorio russo! Dopo ore, ore di attesa e nuova sistemazione dei feriti, distribuzione del rancio per tutti, alcune migliaia di uomini, Croce Rossa compresa, il convoglio si mise in moto. Traversammo così il resto del Paese, terra non nostra, con gran paura di essere fermati dalla rivoluzione bolscevica. Neve, neve dappertutto, nelle nostre anime vi era un’infinita tristezza, in questo stato dovemmo trovare la forza di incoraggiare i nostri feriti, che temevano di non tornare in patria, né avevano la possibilità in qualsiasi modo di difendersi. L’Austria è una nazione cattolica ed il culto della religione ci fu molto curato anche nelle scuole! Nel mio vagone furono sistemati i giovani più bisognosi di assistenza. Tante volte in seguito mi domandai ma perché furono affidati a me diciottenne infermiera? Forse avevo più costanza, pazienza e forza degli altri? No! Avevo capito la gravità del momento!!!
Il treno passava per steppe interminabili così piano, piano verso l’Ucraina verso la terra dove Francesco Giuseppe imperava. Nel 1916 morì l’imperatore egli succedettero Carlo e Zita di Borbone. Il nostro ospedale in Russia portava il nome di Zita di Borbone! Strada facendo vedemmo incendi dappertutto, dove erano le truppe tedesco-austriache, finalmente la terra nostra! Non potrò mai descrivere, dovrei creare parole nuove per questo arrivo! Chi dei militari poteva, scendeva a terra per baciare la terra loro, piangevano senza vergogna e senza fine! C’erano due Cappellani che si prodigavano per calmare tutte queste anime in pena.

Questo viaggio durava da quindici giorni e dopo tante sofferenze morali e fisiche arrivammo a Vienna il 2 novembre 1918 (1917, n.d.r.). Che delusione, credevamo di essere ricevuti con ammirazione, nulla di tutto questo, trovammo alla stazione migliaia di gente del popolo che volevano del pane da noi, credevano chissà che provviste noi avessimo portato dalla Russia nazione famosa e conosciuta per i suoi granai, la ressa della gente ci assalì nei treni nessuna forza pubblica aveva il potere di calmarla e in questo dramma, l’essere umano diventa una belva. Stavo facendomi un varco per scendere e dall’ultimo predellino del treno fui gettata a terra ed ebbi una frattura all’avambraccio, mi fecero una fasciatura sommaria, per potere avere ancora la forza di portare a termine la mia missione accompagnavo i miei feriti in ospedale detti le consegne di ognuno e dopo pensai alla mia frattura, che nel frattempo si era gonfiata enormemente; otto giorni di ricovero all’ospedale dove c’era un reparto adibito solo per le crocerossine malate o deperite e bisognose di riposo.

O. Grossi – La guerra è finita –

O. Grossi
La guerra è finita –

lo ti rispetto, amico,
anche se ti ho combattuto;
e ti rispetto anche se tu,
allora.. hai combattuto me.
Non c’è odio nell’animo mio
e forse non c’era neppure
allora: in me e in te.
La guerra è finita, lontana:
la combattemmo avversi
senza saperne i perché,
senza volerci male, io credo.
lo e tu, allora, di fronte
ostili, con le armi in pugno,
pensavamo, insieme,
alle nostre case distrutte,
alle nostre mamme lontane,
ai nostri figli in fiore.
Forse -adesso lo sappiamo
ci rispettavamo già allora
pur sparandoci contro;
ora sappiamo di più:
vorremmo vederci, parlarci,
e stringerci la mano: forte.

Bertold Brecht – Chi sta in alto dice: pace e guerra

Bertold Brecht

Chi sta in alto dice: pace e guerra
sono di essenza diversa.
La loro pace e la loro guerra
son come vento e tempesta.

La guerra cresce dalla loro pace come
il figlio dalla madre.
Ha in faccia
i suoi lineamenti orridi.

La loro guerra uccide
quel che alla loro pace
è sopravvissuto.

Giovan Battista Garattini – Compagnie di morte

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Giovan Battista Garattini

Compagnie di morte

Giovan Battista Garattini racconta prigionia, nemici, morti, fame, cibo, odio, torture a Marchtrenk, Austria il dicembre 1917

Giovan Battista Garattini è prigioniero nel campo di concentramento austriaco di Marchtrenk da più di un mese, le torture e i decessi sono all’ordine del giorno.

Terminato così il lavoro di registrazione e d’immatricolazione dei prigionieri, incominciò la preparazione dei “Transport” e delle “Arbeiter Kompany” (Compagnie di lavoratori). Si procedeva a questo lavoro, preparando in primo luogo, gli elenchi dei partenti, in base ai ruolini delle Baracche (della forza organica, queste, di 250 uomini ciascuna, su quattro plotoni comandata da un sott’ufficiale). Poi bisognava adunare i prigionieri della baracca o delle baracche, destinate a partire, per fare loro l’appello col nuovo ruolino così compilato.  Il servente austriaco, per tale operazione, adunava gli uomini di scorta, che armati come lui dell’indivisibile nervo, si precipitavano nella baracca, ed urlando come pazzi, costringevano quei disgraziati, sempre in preda alla paura, ad uscire nel modo più celere a loro consentito dalle condizioni fisiche in cui si trovavano. E finché non erano adunati, fioccavano certe nervate da abbattere delle bestie! Poi , incominciava l’appello , e guai a quei disgraziati che non si trovavano presenti. Il giorno poi della partenza, dopo l’adunata, eseguita nel modo suddetto, dovevano subire una visita ovvero una rivista, per cura sempre del sergente Wille. Questa consisteva nel togliere, a quegli infelici, quel poco servibile che fosse loro rimasto; per esempio: a chi aveva due camicie e due paia di mutande, o, caso raro, due paia di scarpe, anche in condizioni cattive, veniva ritirato un capo, che poi doveva servire, specialmente se di qualche valore, alle speculazioni infami di quel soggetto da forca. A coloro pio, che avevano un capo solo (di indumenti, s’intende), ma di qualità discreta, come farsetti, o mutande, o camicie di lana, ecc. venivano loro ritirati tali oggetti e ricevevano in cambio indumenti spesse volte di carta, o comunque di nessun valore, come ad esempio: scarpe colle suole di legno. Venivano così sfruttati sino all’ultimo, senza che quelle vittime dell’egoismo e della malvagità tentassero di reagire o pronunziassero una parole di protesta, d’altronde era prudenza, perché evitavano, almeno, le percosse! A rivista ultimata, si incamminavano verso lo scalo ferroviario, esistente nel concentramento; venivano caricati sui vagoni bestiame …e partivano…lasciando in noi una profonda tristezza ed impressione, come se si fosse assistito ad una partenza di forzati, ingiustamente condannati, per bagno penale! Qualche giorno dopo giungeva l’elenco di quelli, per i quali i disagi di simile odissea erano stai superiori alla loro resistenza fisica, ed erano morti pel viaggio od appena giunti; seguito poi, ad intervalli, da altri elenchi…., e non erano pochi…!
Ed ogni volta, bisognava inviare altri disgraziati, a riempire i vuoti, in tal modo prodotti, nelle compagnie di lavoro. Qualcuno, fortunato, veniva concesso pei lavori dei campi, presso qualche colono, ed aveva così la possibilità di avere vitto a sufficienza, e di passarsela, anche per rimanente, alla meno peggio. Allettati da tale prospettiva, anche fra noi scritturali vi fu qualcuno che volle tentare la fortuna, come si diceva noi, e che consisteva sempre, nel cercare un’occupazione fuori del concentramento, ove si potesse avere un vitto migliore. Era la fame, sempre, il problema più difficile a risolvere, e che naturalmente occupava costantemente le nostre menti. E qualcuno, con nostro piacere, vi riuscì. Ma ben diversa era la fortuna che volevo tentare io, che ormai non potevo più resistere al campo, dove ero costretto ad assistere a tutte le crudeltà, che venivano commesse, nell’Ufficio stesso, dal Wille.
Quel tristo soggetto, unitamente a qualche suo degno amico, quale il sergente addetto al bagno, si permetteva ogni sorta di vigliaccheria, ed ogni qualvolta un sorvegliante accompagnava in Ufficio un prigioniero, che si pretendeva avesse commesso una mancanza, (spesse volte consisteva nell’aver scavato delle radici d’erbe, per ingannare la fame; ma tanto, tutti i pretesti erano buoni), il Wille dava di piglio al nervo e con gioia selvaggia, in atteggiamento che faceva prevedere una bufera, si precipitava sul malcapitato, che, o non aveva neppure il coraggio di pronunciare una parola a sua difesa e fingeva di rassegnarsi alla punizione, docilmente, colla speranza di ridurre alla mitezza l’aguzzino, oppure si metteva a supplicare perché gli venisse perdonato. Ma era perfettamente inutile; era come chiedere pietà alla tigre! Dopo poche domande pronunciate dal Wille in tedesco, appositamente per non farsi comprendere ed evitare la possibilità di una risposta giustificativa (mentre quando gli faceva comodo, sapeva farsi intendere in italiano), il malcapitato doveva subire la tortura di un certo numero di nervate, date con una violenza tale dallo stesso Wille, da far trasalire dallo sdegno Ed a me, in particolare, che divenivo pallido per la bile, quell’infame, compiuta la sua bell’opera, rivolgeva lo sguardo sorridente, pieno di sarcasmo.
E tralascio di narrare altre sevizie commesse da quell’uomo, che, infine, a danno dei prigionieri italiani, si appropriò in pochi mesi di una somma che secondo i nostri calcoli, s’aggirava intorno alle diecimila corone!
Tutto denaro tenuto indebitamente sulla cinquina degli italiani, ovvero ricavato dalla vendita degli oggetti tolti ai prigionieri. A che si meravigliasse o giudicasse esagerata tale somma, faccio osservare che dalla vendita di un solo pezzetto di sapone italiano, si potevano ricavare anche più di trenta corone. Qualcuno dirà: E perché non reclamare?- Valga, quale risposta esauriente a questi tali, la narrazione del seguente episodio:-un giorno, mentre si stava preparando una compagnia di partenti e si stavano cambiando loro gli zoccoli, intervenne il Colonnello austriaco, Comandante del Concentramento, urlando come un indemoniato. Noi, naturalmente, non comprendemmo nulla di quanto disse, ma ci venne dato l’ordine di portare in magazzino gli zoccoli. Poi si seppe dal caporale trentino Guarnieri, che le parole pronunciate dal Colonnello e dirette ai soldati austriaci, erano di questo genere:- Che cosa fate, bestie: perché cambiate le scarpe a questi cani? Mandateli via come sono e bastonateli!….Tali erano i superiori ai quali avremmo dovuto rivolgere i nostri  reclami