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Mariano Rossi – Disposti a dare tutto

Disposti a dare tutto di Mariano Rossi

Eravamo nel lontano ottobre 1944 ed ormai i partigiani avevano perso la speranza che gli alleati riuscissero a sfondare la linea gotica prima dell’inverno. Le nostre previsioni erano state deluse in tutti i sensi, in quanto, se il freddo, i lanci più diradati, l’assottigliarsi di molte formazioni, potevano influire sul movimento della Resistenza, d’altro canto i nazifascisti, ben al corrente di questa situazione, cominciavano ad uscire con una certa baldanza dalle loro munite tane per commettere indiscriminati arresti (oggi si chiamerebbero «sequestri di persone », effettuati da gente che si autonominava «capo» o «capitano» o « maggiore » – tipo Carità – arruolando avanzi di galera o ragazzi di 14-15 anni, cui tutto era lecito), perquisizioni arbitrarie, furti, maltrattamenti e tutte quelle soperchierie che rasentavano la follia. Fu necessario allora nutrire sospetto su tutti, e quindi necessariamente controllare qualsiasi movimento avversario. In quel periodo la fortuna venne un po’ dalla nostra parte, dandoci la possibilità di entrare nella compagnia dei telefoni, la Telve, sotto le spoglie di telefonisti. Con questo mezzo il nostro servizio di informazioni raggiunse l’acme in quanto, se tutte le telefonate dei cittadini erano sotto il controllo della Questura, noi a nostra volta controllavamo tutte quelle della Questura, della Prefettura, delle Brigate nere, delle SS italiane e tedesche, e delle varie bande fasciste. Fu appunto sotto questa assidua sorveglianza che riuscimmo a captare le insistenti telefonate da Bergantino di un certo «maggiore Carità» al comandante delle Brigate nere di Vicenza, perché venisse trovato un alloggio (possibilmente. una villa) alla periferia della città,

Da queste telefonate venimmo a conoscenza di molti particolari. Erano con Carità (ex radiotecnico), il capitano Bacoccoli (ex impiegato di banca), il tenente Usai (ex guardia di finanza), il tenente Squilloni (ex detenuto per reati comuni), il tenente Castaldelli (cappellano spretato) e una banda raccogliticcia con molti ex detenuti e ragazzi giovanissimi. Il maggiore Carità asseriva di essere riuscito a «ritirarsi» da Firenze (non a fuggire, perché in questo caso avrebbero passato per le armi lui e tutta la sua gang). Ascoltammo tanti altri particolari raccapriccianti (forse più. o meno veritieri) da far accapponare la pelle. Il dialogo telefonico si svolgeva in genere tra Carità ed il comandante delle Brigate nere di Vicenza o qualche suo fedelissimo. Quando finalmente si riuscì a sapere che l’alloggio era stato trovato (Villa Piccoli a Bertesina) e che era stato fissato il giorno per lo spostamento della banda, ci si mise subito in contatto con Fraccon e con l’ingegner Prandina affinché con la trasmittente di quest’ultimo gli alleati venissero avvisati di prendere i provvedimenti aerei adeguati. A nulla valsero le nostre preghiere e le nostre insistenze: l’ingegner Prandina sosteneva che la notizia poteva non essere sicura, che potevamo aver capito male, che avvisare del fatto gli alleati voleva dire radere al suolo una villa veneta. Noi cercammo di contrapporre che le vite umane che la banda Carità pretendeva potevano ben valere anche una villa patrizia; ma le nostre argomentazioni non approdarono a nulla. Passarono alcuni giorni, forse qualche settimana, e una mattina, mentre stavamo appostati in un seminterrato, vedemmo passare proprio l’ingegner Prandina e Torquato Fraccon arrestati dai militi della SS e condotti verso il comando di via S. Marcello, ove un tempo aveva lo studio un noto avvocato vicentino. In questa sede i due prigionieri non si fermarono molto, in quanto dopo breve tempo furono condotti in via Fratelli Albanese ove aveva sede il distaccamento della banda Carità (Usai, Squilloni e Bacoccoli), e di qui, dopo una ventina di giorni, furono spediti a Mauthausen ove immolarono la loro vita per un’Italia libera e democratica.

Con questi arresti la filiale di Vicenza della banda Carità aveva inferto un duro colpo al movimento partigiano della zona, in quanto a mezzo di Prandina si poteva essere in continuo contatto con le forze alleate; tuttavia l’organizzazione, i comandi militari e il CLN provinciale potevano continuare egualmente la loro attività, sia pure usando maggiori precauzioni. Gli atti di sabotaggio continuavano, specie sui binari della linea Vicenza-Treviso, unico tronco che poteva in qualche modo arrivare in Austria; il Brennero era inutilizzabile come ferrovia e come strada. L’attività in montagna, seppur diminuita di molto, continuava a dar noie e a tener impegnato un certo numero di nazifascisti. A questo punto i comandanti della succursale di Vicenza della banda Carità, Usai, Bacoccoli e Squilloni, organizzarono un’azione in grande stile non priva di una certa astuzia. Fecero arrestare delle mezze figure o prelevarono dalle carceri di S. Biagio degli pseudo-partigiani finiti nelle mani della polizia per traffici illeciti (mercato nero) o per qualche sporadico contatto con i partigiani; promettendo loro la libertà riuscirono ad ottenere qualche notizia che non avevano ricavato da Prandina e da Fraccon. Se poi alcune notizie ottenute erano inventate, Usai e la sua banda non andavano molto a sottilizzare; il loro scopo era di arrestare. Questa operazione condusse all’arresto di parecchie persone, tra le quali i principali personaggi della Resistenza vicentina, sicché uno alla volta ci trovammo quasi tutti nella famigerata Villa Triste di via Fratelli Albanese. Di li riuscimmo a far uscire qualche messaggio per mettere in guardia gli esponenti ancora in libertà, soprattutto quelli della OC; ma essi rimasero al loro posto; in breve tempo ce li vedemmo comparire in stato d’arresto in via Fratelli Albanese o a Palazzo Giusti di Padova.

In un giorno del lontano 1944, all’imbrunire, quando le prime brume di un autunno precoce facevano cadere sulle vie deserte poche foglie morte che ancora indugiavano sugli stecchiti rami, stavo appollaiato quasi di fronte al comando delle SS, in una stanzetta semi interrata, per indagare su ogni piccola mossa dell’avversario.

Da una porticciola esterna un timido battito mi fece capire che doveva esserci qualche persona amica. Senza prendere le opportune precauzioni, sussurrai: «Spingi un po’ e vieni pure avanti ». Mi si presentò uno di quegli pseudo-partigiani prelevati dalla banda Carità nelle carceri di S. Biagio: era uno studente. Questo traditore piagnucoloso mi chiese soldi del CLN per poter aiutare la madre di «Lupo)} (un partigiano che io sapevo che si sarebbe fatto uccidere piuttosto che chiedere un aiuto), gravemente ammalata. Sapevo che «Lupo» in quel momento doveva essere sui binati della linea Vicenza-Treviso per un’azione di sabotaggio; compresi d’intuito il tradimento e gli risposi che non sapevo cosa fosse il CLN e tanto meno chi era « Lupo ». Mi rigirai per infilare la porta di sicurezza, che sboccava in un’altra strada, ma non ne ebbi il tempo, perché una masnada di SS e brigate nere entrò con i mitra puntati, strappò al traditore le 100 lire che teneva in mano e che confessò di aver ricevuto da me per aiutate la mamma di un partigiano che egli aveva conosciuto in carcere. Li per li mi preoccupai relativamente, giacché vedevo molte possibilità per difendermi dall’accusa; ciò che invece mi preoccupava era la sede cui ero destinato. Passammo per il ponte Pusterla e capii allora che la sede era il comando delle Brigate nere. Li giunto, mi imbattei in un compagno di scuola; il feroce manigoldo, battendomi sulla spalla, mi assicurò che non c’era nulla a mio riguardo e certamente doveva trattarsi di un errore. In questa sede rimasi un paio di giorni, sottoposto a continui interrogatori da parte del comandante delle Brigate nere e di Berenzi, l’allora direttore del giornale « Popolo vicentino ». Capii benissimo che questi interrogatori non potevano approdare a nulla, in quanto, nonostante i ceffoni e le scatolette di carne che mi giungevano in testa da tutte le parti, « confessai» solo notizie di capi partigiani che ben sapevo al sicuro o con il maquis in Val d’Aosta o sul Pasubio, zona che per i nazifascisti era tabu. Fu deciso allora di mandarmi in Questura; ma strada facendo incontrai nuovamente quel vecchio compagno di scuola che, ripetendo i complimenti di due giorni prima, mi consegnò alle SS della banda Carità. Prelevarono anche la mia fidanzata e la mia futura suocera, portando la prima in via Fratelli Albanese, mentre la seconda fu fatta attendere in un bar assicurandola che dopo breve tempo le avrebbero rimandato la figlia. La figlia ritornò a casa dopo oltre un mese e mezzo. Non fui interrogato subito, ma solo dopo due o tre giorni, quando la compagnia di prigionieri cominciava ad ingrossarsi. Il mio interrogatorio fu tenuto da Usai e Squilloni con l’accompagnamento di qualche ceffone. Interrogarono la mia fidanzata, che fortunatamente poco sapeva dei miei raggiri. Mi rinterrogarono a lungo minacciandomi di morte, di campo di concentramento, ecc. Dal canto mio cercavo di parlare molto, prevenendo ed anticipando le loro domande. Finché per ultimo non dissero: « Penserà il maggiore a farti dire la verità! » Mi cacciarono in una cantina, dove trovai un po’ di caldo, essendoci la caldaia del termo, e quattro amici: il ragionier Rizzati, l’avvocato Gallo, il grande invalido di Russia Renni Da Rio e l’autista Magrin, che più volte mi aveva trasportato armi e munizioni col suo camion. Quest’ultimo, di corporatura molto robusta (oltre due metri d’altezza e 130 kg di peso), non ricevette alcuna « pressione» e dopo una settimana fu rilasciato. Rimanemmo in questa cantina per qualche tempo, finché un bel mattino ci trasferirono in una villa accanto ave trovammo il grosso della compagnia; tra i molti, Faccio, i fratelli Campagnolo, « Cavallo» ed alcune staffette. Fu assegnata una stanza per noi quattro, e di tanto in tanto venivamo chiamati per interrogatori, confronti, chiarimenti di contraddizioni riscontrate durante gli interrogatori, ecc. Il più tormentato per questi confronti, ricordo, era l’avvocato Gallo, in quanto nella perquisizione fatta nella sua casa a Lonigo, per un puro e fortuito caso avevano trovato delle carte compromettenti nascoste in una poltrona. I giorni intanto passavano monotoni e si sentiva avvicinarsi il giorno del trasferimento a Padova. La rete di informazioni era ormai ben stabilita, per cui conoscemmo anche il giorno di partenza per Palazzo Giusti. Ovviamente si pensò subito a Renni Da Rin che, con il torace ed un braccio ingessati, non poteva correre il rischio di una nuova avventura. Si decise cosi di rompergli l’ingessatura per farlo ricoverare in ospedale. Venne il momento dell’operazione. Ci provammo tutti e tre, ma l’ingessatura era ben fatta; alla fine venne occasionalmente toccato un punto più debole degli altri e l’ingessatura in parte si ruppe e in parte s’incrinò: il braccio fratturato rimase penzoloni provocando, con le costole fratturate, dei dolori lancinanti. Chiamammo subito gli sgherri, raccontando loro di una caduta dal tavolo e questi, per non prendersi ulteriori responsabilità soprattutto verso la cittadinanza, portarono il Da Rin all’ospedale, naturalmente piantonandolo. Per noi fu un sollievo, soprattutto quando, dopo pochi giorni, ci fecero salire su alcune macchine e all’imbrunire ci condussero nel famoso Palazzo Giusti, graditi ospiti del radiotecnico Carità.

Arrivammo alla sera. Entrammo in un bell’androne, ci fecero scendere dalle macchine, e quindi salimmo un signorile scalone fino ad un’anticamera ove trovammo altri prigionieri. Nessuno parlava, nessuno riconosceva i compagni. Bisognava solo attendere in piedi non si sa cosa. Finalmente, saranno state forse le ventidue, vedemmo arrivare altri due prigionieri che portavano un pentolone, seguiti da un losco individuo che a sua volta portava a tracolla una catena cui erano appese molte chiavi. Ci distribuirono una razione piuttosto scarsa di pasta (i « tubi.). Verso le due di notte ci fu aperto uno studio che dava su questa anticamera, e ci fu concesso di entrare per passarvi la notte. Accovacciati l’uno vicino all’altro accanto a una stufetta elettrica, riuscimmo ad addormentarci alla meno peggio. Dopo quattro o cinque ore ci svegliarono e ci passarono tutti indistintamente nel salone. Qui rimanemmo per qualche settimana. Di questo periodo non voglio qui ricordare i momenti tragici e feroci degli interrogatori. Preferisco annotare qualche allegro episodio. In precedenza eravamo riusciti ad avvisare i due esponenti della DC, il professar Nicoletti e l’avvocato Rumor, che la banda Carità era sulle loro tracce. Senonché, una sera vedemmo arrivare sorridente, in pelliccia e con la borsa d’avvocato piena di ogni ben di dio (salami, pane abbrustolito, formaggio ed altre cibarie), l’avv. Rumor. Non si era ancora acclimatato, quando ci chiese se avevamo già desinato.

Con Giordano Campagnolo, seduto vicino a noi, gli rispondemmo di si, consigliandolo di fare uno spuntino con le sue provviste. Rinfrancato, apri la borsa nella penombra e poté rifocillarsi. Poi si addormentò, avvolto per bene nella calda pelliccia, avendo come cuscino la famosa borsa. Ma verso le due di notte venne il solito sgherro e portò Rumor all’interrogatorio. Naturalmente ci svegliammo anche noi (Campagnolo, Gallo ed io), ci guardammo in faccia, osservammo la porta che inghiottiva l’avvocato Rumor e senza tanti indugi ci buttammo sulla borsa della provvidenza: non rimasero briciole. Verso le cinque, quando Rumor uscì barcollando dallo studio di Carità con un occhio tumefatto e attivò al suo posto, noi apparentemente dormienti, si sdraiò come un morto rimettendo la borsa a far da cuscino. Vedemmo che per un po’ non riusciva a trovar pace, ma poi si addormentò. Quando finalmente si accorse che le provviste erano scomparse, si girò di scatto verso l’avvocato Gallo e disse imprecando che credeva di trovarsi solo tra prigionieri politici e non anche tra ladri. Gallo stette al giuoco allontanando da noi ogni sospetto. Rumor imprecò ancora un poco e poi cominciò a raccontare la sua avventura con Carita.

Passarono dei giorni e alcuni prigionieri, i più pericolosi, furono gentilmente buttati nella ( nave ) con il professor Meneghetti – e tra questi Gallo, Follieri, Giordano Campagnolo e me – nella più infame cella di tutto il palazzo, lunga quattro metri, larga due, divisa in due parti da una parete di legno dove c’era un microfono che registrava le nostre conversazioni. lo credo che la parola più decente registrata dal nastro fosse quella di Cambronne. Ovviamente, la cella divisa in due aveva murata la finestra che dava sul cortile. La respirazione quindi, col passare delle ore, si faceva sempre pili difficoltosa.

Gonelli, il famoso carceriere che avevamo visto la prima sera accompagnare i distributori del rancio, altro non era se non un volgare borseggiatore uscito dalle carceri toscane. Al posto del professar Geremia, per la distribuzione del rancio, un bel giorno scelse me e l’amico Giordano Campagnolo.

Quella fu una vera pacchia, perché ci fu possibile comunicare con tutti i prigionieri, sia con quelli rinchiusi nelle celle adiacenti alle stalle, come eravamo noi, sia con quelli rinchiusi nelle soffitte, i meno pericolosi, sia con quelli dell’infermeria, dove erano ricoverati spesso i prigionieri dopo l’interrogatorio. Il nostro sistema di distribuzione del rancio piacque a Gonelli e gli ispirò fiducia, tanto che un bel giorno ci diede l’incarico assieme a Boscardin di vuotare le cantine di Palazzo Giusti, dove il carbone era stato quasi sommerso da acqua di fogna. Ma anche questo lavoro fini e Gonelli escogitò altri modi per farci lavorare. Cominciò col farci scavare nel giardino una buca larga l x 1 m e profonda due metri. Ci chiedevamo cosa potesse servire e lo capimmo ben presto: Gonelli ci mostrò che le buche dove tutti i prigionieri facevano le proprie necessità fisiologiche erano colme e quindi bisognava vuotarle mettendo il contenuto nella buca scavata in giardino. Cominciammo cos( il nostro puzzolente lavoro che aveva l’unico vantaggio di lasciare più aria per respirare ai due prigionieri che rimanevano in cella. Un giorno, il freddo intenso impediva il diffondersi del fetore; gli amici delle soffitte i « meno pericolosi », vennero nel giardino a prendere aria, e protestarono perché a noi, a Campagnolo e a me, era concesso· lavorare all’aria aperta. Uno dei più accesi era l’avvocato Rumor. Il nostro guardiano pensò bene allora di invitare l’avvocato ad aiutarci; egli di corsa si staccò dal gruppo e corse verso di me, mi strappò quasi la secchia per far vedere la sua buona volontà. Ma, e fu un attimo, una frazione di secondo, guardò le mie braccia, la secchia, emise un suono imprecisato, e disse: «E no, osti! sta qua la xe merda!» E annusandosi le mani, rientrò nella schiera dei « meno pericolosi ». Questo lavoro, cioè calarsi in qualche modo nella fogna, riempire le secchie e vuotarle nella buca scavata in giardino, durava da qualche settimana; un bel giorno, essendo arrivati quasi all’orlo della buca, chiedemmo a Gonelli: «E come la chiudiamo? » Al che ci rispose in perfetto toscanaccio: ., E la terra perché l’avete scavata? Quella serve appunto per coprire tutto, imbecilli! – e dopo una pausa – … e avete anche studiato! ».

Ossequienti, tappammo con un po’ di terra, quella poca che poteva essere assorbita dal liquame, lo strato mancante. A questo punto speravo di avere la rivincita con Gonelli e gli chiesi con un sorriso mezzo idiota e mezzo burlesco: «E della terra rimasta cosa ne facciamo? )lo Mi aspettavo una risposta imbarazzante. Invece lui: «Povero cretino, si fa un’altra buca e si rimette dentro! » Questo giochetto durò fino alla fine di gennaio; poi finalmente si accorsero che la fogna era ripulita per bene e la terra era una grande massa. Perciò ci fecero costruire una specie di rifugio antiaereo e con questo utilizzammo tutta la terra.

A metà marzo fui chiamato da Carità nel suo studio. Pensavo di dover affrontare un interrogatorio, in quanto dal mio arrivo non ero ancora mai stato chiamato. Carità mi mise davanti quattro fogli di carta uso bollo dattiloscritti e mi ingiunse di firmare. Ovviamente presi i fogli in mano e cominciai a leggere. Credo di non aver finito la prima riga, che mi sentii arrivare un calcio nel sedere e finii con la testa sulla pancia di Carità. Il calcio era di Trentanove, un ragazzo che si faceva chiamare tenente. Questi mi impose di firmare, in quanto, se non lo avessi fatto, non ci sarebbe stata nessuna speranza di salvezza per me. Firmai senza discutere. Da quel giorno passai in una cella con Gallo, Follied, Cerchio e Faccio, e non mi fu più possibile uscire. Spero un giorno di poter raccontare con maggiori particolari, ricordando le ansie e il coraggio di tutti, per ricostruire quel grande periodo trascorso da veri partigiani, disposti a dare tutto, anche la vita, per un ideale di patria libera e democratica.

Enrico Parnigotto – Il sacrificio per una saggia Libertà

Il sacrificio per una saggia libertà di Enrico Parnigotto

Perseguitato in quel tempo per le mie idee antifasciste, ero allora pedinato dai nazifascisti. Dapprima non me ne ero accorto, ma in seguito me ne resi purtroppo conto. Ero alla macchia anche perché non avevo obbedito al reclutamento di lavoro dell’allora impresa Todt. Avevo abbandonato i miei impegni di lavoro con la scuola e saltuariamente andavo a trovare la mamma, spostandomi in bicicletta dalla zona di Bassano che era il mio nuovo rifugio. Una notte dei primi d’aprile del ’45 una squadra di militi suonò alla mia abitazione. Apri mia madre, dopo aver a lungo tergiversato con loro sul cancello, mentre io scappavo dalla parte del giardino retrostante. Sapevano che ero in casa, i dinieghi di mia madre minacciata con il mitra a nulla valsero. Alla fine ella mi chiamò e mio malgrado dovetti arrendermi. Mi malmenarono e perquisirono la casa, poi con il mitra puntato alla schiena mi condussero a Palazzo Giusti. Erano passati pochi giorni dall’uccisione del professar Todesco, mio carissimo amico e compagno di lotta; pensavo di star facendo la sua stessa fine. Giunto a Palazzo Giusti, attesi mezz’ora nel salone. L’arresto era stato effettuato da Lotto, Cecchi e altri tre di cui non conobbi il nome; erano tutti armati di mitra e pistole. Nella sala dov’ero in attesa sentii nel frattempo alcune grida che più tardi seppi essere di un povero giovane sottoposto alla tortura della macchinetta elettrica. L’interrogatorio, iniziato da Lotto, fu poi continuato da Squilloni, un pezzo d’uomo grande, villano e sempre ubriaco, dal tenente Tecca e altri. Lotto cominciò a picchiarmi quando mi senti negare le accuse fattemi; Squilloni continuò l’opera e alla fine intervenne anche Tecca: l’interrogatorio prosegui fino alle sei e mezzo del mattino e mi venne pure applicata la macchinetta. Due fili molto lunghi mi vennero avvolti attorno ai polsi, dopo alcuni secondi Lotto ordinò di aprire, ne segui un urlo lancinante. Ancora prima immaginavo che la scossa sarebbe stata tremenda e mi ero proposto di non gridare. Ma il dolore era talmente repentino e agiva in modo tale sui nervi da rendere impossibile il controllo e l’urlo sgorgava istintivo e feroce dagli angoli più profondi della nostra sensibilità, come per una liberazione dal tormento. Nel frattempo continuavano le domande insistenti ei pugni. Volevano sapere i nomi dei miei amici, la relazione che avevo con gli esponenti del Comitato di Liberazione e con noti antifascisti della città; volevano la confessione di aver picchiato uno squadrista l’8 settembre, di aver fatto disegni di propaganda e di aver svolto attività antifascista nella scuola. Dopo questo lungo e brutale interrogatorio, durante il quale non un’ammissione o un nome usci dalla mia bocca, mi buttarono nella cameretta del secondo piano con gli occhi tumefatti e ridotto uno straccio. Benevoli e affettuosi, i compagni della soffitta mi si fecero incontro cercando di alleviare il mio dolore; mi lavarono la faccia e mi diedero dei corroboranti. Ricordo come ora il buon don Luigi Panarotto, l’Avossa, il compagno Faccio, don Giovanni Apolloni e altri. U rimasi sino alla fine della guerra e ne uscimmo tutti nei giorni della Liberazione. Ricordi tristi, ma il sacrificio rimarrà per noi e per i nostri figli come espressione di speranza in una saggia libertà e in una maggiore comprensione tra le genti.

 

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Il lardo di Rumor – Giordano Campagnolo

Il lardo di Rumor di Giordano Campagnolo

. Gennaio 1945. Gli arresti e le deportazioni con il rigore invernale erano aumentati. I partigiani, specie coloro che svolgevano il pericoloso lavoro di città, erano esposti più di ogni altro a tale evenienza. Il 9 gennaio fece l’ingresso nel salone di Palazzo Giusti l’avvocato Giacomo Rumor, equipaggiato come noi non avevamo mai visto nessuno. Egli infatti, saggiamente, prevedendo il suo arresto, si era preparato scarponi, paltò pesante, sciarpa e un bel sacchetto di cibarie, tra cui un bel pezzo di lardo. Nel gran salone una trentina di affamati occhieggiarono il sacchetto, ma solo uno (una canaglia!) ebbe il coraggio o la sfrontatezza di avvicinarsi e trafugare il pezzo di lardo, che poi spartì con i colleghi vicentini. Nel frattempo Rumor veniva interrogato e regolarmente bastonato dagli sgherri di Carità. Rientrando nel salone pesto e dolorante, con gli occhi che gli uscivano dalle orbite, riuscì chiaro a tutti che la pestata era stata molto severa, e l’autore del furto ne fu profondamente scosso. Dopo un certo tempo, Rumor, per lenire un po’ il dolore, apri Il sacchetto e, scoperto il furto, se ne lamentò con Faccio e Gallo che stavano ancora pulendosi la bocca dal lardo mangiato. E Gallo, con quel suo inimitabile sorriso mefistofe1ico, forbendosi accuratamente le labbra e i baffetti alla Menjou, gli espresse la propria indignazione con le parole acconce che solo lui in quel momento sapeva adoperare: «Cosa vuole, avvocato, questi comunisti! ~ Inutile aggiungere che l’autore del furto, col tempo, si confessò tale all’avvocato Rumor, che appunto per questo diventò uno dei suoi più cari amici

 

Un mondo di angoscia di Lionella Moda Bordin

Un mondo di angoscia di Lionella Moda Bordin

Durante la sparatoria effettuata dalle SS fasciste, che avevano circondato la casa, mio marito Alfredo riuscì a fuggire per un miracolo di destrezza e di fortuna. Seguirono giorni neri, nel duplice significato della parola, cioè per l’ansietà che essi comportavano e per la frequente presenza delle uniformi fasciste. L’attività di mio marito non s’interruppe mai. Io fungevo da staffetta fra lui e molti altri appartenenti al Comitato di Liberazione, fra i quali Egidio Meneghini, lo scultore Amleto Sartori, il tipografo Giovanni Zanocco (detto «Campanile» per l’alta statura) e tanti altri. Venivano distribuiti volantini, opuscoli, libri di ardente irredentismo, materiale vario, documenti falsi, soldi per i compagni di lotta; venivano trasmessi ordini e ricevuti sempre nuovi piani tattici. Da allora sono trascorsi venticinque anni e Palazzo Giusti torna alla mia memoria come un luogo di tortura. La prima volta che mi arrestarono fu un’esperienza dolorosa: ricordo il grido di mio figlio che non voleva lasciarmi portar via, che voleva venire con me. Interrogatori lunghi, sfibranti. Poi il rilascio temporaneo, insidioso. Un giorno Zanocco venne a prendere dei soldi per il Comitato e mi diede una ricevuta. Circa una settimana dopo venne arrestato quasi l’intero Comitato di Padova. I fascisti comparvero anche da me, fecero una minuziosa perquisizione e purtroppo trovarono la ricevuta e mi portarono ancora una volta a Palazzo Giusti. Durante il tragitto, riuscii a prendere il foglio dall’incartamento della milizia, lo misi in bocca, lo masticai ed ingoiai in un baleno, evitando gravi conseguenze. Una sera, molto tardi, verso la mezzanotte, mi fecero un serrato interrogatorio. E vollero che fosse presente anche l’onorevole Merlin. La scena fu drammatica. Merlin era alquanto sordo e non riusciva a comprendere tutte le parole che gli venivano rivolte. E ad ogni tardiva risposta, i fascisti gli davano dei ceffoni tali da staccargli quasi la testa. Era una cosa pietosa vedere percuotere un uomo anziano e non poter far nulla per lui. Durante un altro interrogatorio, vidi bastonare l’ingegnere Vasilli di Venezia. Però, fra tanti dolori, ricordo anche la gioia che provai quando Zanocco riuscì a scappare dalle mani dei carcerieri di Palazzo Giusti, e riuscì anche a farmi sapere dove era nascosto. Quando venni rilasciata, lo raggiunsi. E fu un incontro commovente e felice, sapendo cosa gli sarebbe capitato se non fosse riuscito a fuggire. I miei due soggiorni a Palazzo Giusti furono brevi, due o tre giorni in entrambe le occasioni: un preludio per la mia lunga detenzione nelle carceri di Santa Maria Maggiore a Venezia, dove venni inviata in seguito, lontana da mio marito e dai miei cari, in un mondo di privazioni e di angoscia.

Condannato all’astuzia di Aronne Molinari

Condannato all’astuzia di Aronne Molinari

Fin da ragazzo, dalla fine della prima guerra mondiale, partecipai attivamente alle lotte sindacali; poi, al sorgere delle squadracce fasciste, presi parte alle lotte politiche. Fui arrestato una prima volta a Parma, mia città natale, nel 1921; una seconda volta nel 1923 per «associazione a delinquere contro i poteri dello Stato »; quindi nel 1925 per aver reagito a un insulto del segretario federale di Parma; nel 1931 per distribuzione di manifestini antifascisti; e infine nel 1934 fui sottoposto a processo in seguito a una denuncia fatta per togliermi dalla circolazione e condannato a sette anni di carcere. Di questi ne scontai quattro, alla casa penale di Padova, dove, godendo di una certa libertà di movimento (all’interno del carcere, s’intende), mi fu possibile conoscere a fondo tutte le strutture della prigione e i punti dov’era possibile la fuga. Nel 1945, nuovamente arrestato e trasferito da Palazzo Giusti alla casa penale, riuscii cosi a fuggire quattro giorni prima della liberazione.

Ho fatto queste premesse autobiografiche non tanto per arrogarmi esaltazioni personali, ma perché sia meglio compresa la causa che mi portò a Palazzo Giusti e come mi servii delle amare esperienze acquistate per sfuggire, senza gravi danni, alle grinfie dei nostri aguzzini. È naturale che non fu solo per questo ch’ebbi la possibilità di uscirne. A ciò contribuì infatti la disorganizzazione delle informazioni dei nostri avversari e l’approssimarsi della fine del conflitto. Ai primi del marzo del 1945, per delazione di un certo Costante Miazzo abitante in via Belzoni a Padova, fui arrestato dalle Brigate Nere di Nello e Alfredo Allegro, Vivarelli, Prisco e Baracco di Camin. Dapprima mi portarono a Ponte di Brenta dove subii un interrogatorio e dove mi vennero contestate le accuse del delatore, ossia che ero commissario della brigata partigiana Garibaldi di Padova. Naturalmente negai. All’alba del giorno seguente fui condotto al Bonservizi (via Giordano Bruno) assieme a un altro arrestato, Sebastiano Marchesana. Qui le contestazioni ed il modo di condurre l’interrogatorio furono abbastanza duri: il Vivarelli mi bastonò. Comunque non parlai. Il giorno seguente fui messo a confronto con altri quattro detenuti e col delatore e potei rendermi conto di quanto delicata fosse la mia posizione, ma ebbi abbastanza tempo per prepararmi una linea di difesa: primo, perché la spia non aveva molti elementi di accusa al di fuori della propaganda sovversiva; secondo, perché gli altri partigiani dissero di non conoscermi con una fermezza tale da dar garanzia sulla loro sincerità (tre erano gappisti di Padova e precisamente Gastone Nalesso, Bruno Lazzareuo, Guido Franco); terzo Marchesana, agente del SIM promosso poi capitano per meriti partigiani. Dopo quattro giorni di confronti e interrogatori, fummo inviali tutti alla casa penale in attesa del processo, che venne celebrato dopo alcuni giorni da un tribunale militare straordinario. Dei componenti di quest’ultimo ricordo solo il nome del pubblico ministero, un certo maggiore Uderzo dell’esercito repubblichino. Fummo tutti condannati: il Marchesana a cinque anni di carcere, io a sette, mentre i tre giovani partigiani vennero condannati alla pena di morte. Dopo il processo fummo ricondotti alla casa pena1e e messi in due celle separate, in una io e Marchesana, i tre condannati a morte nell’altra. Noi due eravamo abbastanza tranquilli, anche se sapevamo che c’era sempre la possibilità di essere uccisi come ostaggi, cosa che in quel momento rappresentava il pericolo maggiore; d’altra parte si capiva che la fine del conflitto era vicina e che potevamo sperare nella nostra salvezza. Il mattino seguente, alle sei circa, quando cominciavamo ad assopirci, ci fecero alzare e fummo accompagnati in matricola. Qui, prelevati dagli sgherri della banda Carità, venimmo condotti a Palazzo Giusti e qui cominciò quel che si può chiamare il nostro Calvario. Fui ammanettato con il Marchesana, gli altri tre tra loro. Così passammo una lunga giornata d’attesa; non potevamo parlare; non ci dettero né da mangiare, né da bere o da fumare. A sera inoltrata cominciarono gli interrogatori. I primi chiamati furono ,i tre. giovani partigiani; dalle urla strazianti provenienti dall’ufficio del Carità potevamo capire com’era condotto. l’interrogatorio e che si volevano da loro altre confessioni oltre a quelle poche rese davanti al tribunale militare. Nonostante le sevizie subite, si mantennero sulle prime di· sornioni senza mai dire di conoscersi o di aver avuto contatti con noi. Furono portati fuori pesti e sanguinanti, tanto da non reggersi più in piedi. Quindi toccò al Marchesana, che subì pressappoco il medesimo trattamento dei primi tre; ma egli se la cavò in circa mezz’ora dalla furia di quei banditi, anche perché era il meno accusato dalla spia. All’una o alle due circa, venne il mio turno. L’accusa sostenuta dal tribunale e da me confermata, in quanto era il meno che potessi fare, era di propaganda politica, dato che mi ero dichiarato comunista. Premetto che se gli arresti subiti prima mi avevano provocato danni materiali, mi erano serviti però ad affilare l’abilità nella schermaglia degli interrogatori ch’ebbi a sostenere nei lunghi anni di lotta. Ma torniamo a Palazzo Giusti. Come dicevo poc’anzi, restai ammanettato tutto il giorno e mezza la notte. Questo tempo mi servi per osservare tutto ciò che accadeva attorno a me anche nei minimi particolari. Per esempio, nella mattinata vidi un andare e venire di gente con valige e bauli ‘ ne dedussi che c’erano preparativi di trasloco. Ravvisai persone che conoscevo, come Antonio Nicolè {Bandiera} Mario Berion (Curzio) e altri. Capii che gli aguzzini volevano prendere due piccioni con una fava, ossia, mentre si facevano servire, stavano attenti se tra noi vi fosse qualche segno di riconoscimento. Fecero anche un’altra prova: portarono Rino Gruppioni (Spartaco) a confronto con Marchesano, mio compagno di manette. lo guardavo da un’altra parte per non tradirmi col minimo segno, dato che io e Spartaco avevamo operato assieme nel comando delle brigate Garibaldi. Tutto questo susseguirsi di espedienti mi confermò che i repubblichini non avevano in mano nessuna prova concreta della mia attività di combattente partigiano. Quando fui fatto entrare nell’ufficio, il Corradeschi e il tenente Trentanove (cosi lo chiamavano) tentarono subito una provocazione perché reagissi; ma io rimasi esternamente calmo e dissi con fermezza: ~ Prima interrogatemi, poi prendete le vostre decisioni ». Questa mia ferma risposta piacque a una donna e ad un altro figuro seduto al suo fianco, che impedirono ai primi due di sfogare il loro bestiale livore. La donna (che poi seppi essere la figlia di Carità) mi chiese perché ero comunista, come risultava dai verbali processuali in loro possesso. Risposi alla buona, dicendo di non saperlo con precisione, ma che ero un operaio meccanico e che, ancora quand’ero giovane, se protestavo perché la paga non era sufficiente per mantenere la mia famiglia, i padroni mi denunciavano ai fascisti, questi ultimi mi mettevano in prigione, cosi come mi era successo a Parma, mia città di provenienza, e poi a Padova. Tant’è vero che quando nel 1939 venne a Padova il signor Mussolini, mi arrestarono per quindici giorni; nel 1940 venne quel b … del re e mi misero dentro per dieci giorni; poi venne quel c … del principe Umberto e mi tennero in carcere per altri quindici giorni. Questi due ultimi epiteti, detti di proposito, sollevarono l’ilarità degli sgherri presenti. In quel preciso momento capii di avere in mano la situazione, per lo meno per quanto riguardava i presenti. A quel rumore di risa s’affacciò alla porta un uomo che avevo visto prima confabulate con un altro, evidentemente un informatore; capii che era il comandante della ciurma. Domandò cosa c’era da ridere a quel modo, e la figlia rispose: « Senti, papà, cosa dice quest’uomo! ,.. e mi fecero ripetere le affermazioni suddette. Il Carità mi ascoltò con viso calmo e compiaciuto, quasi per approvare, e capii che avevo colpito nel segno, sfruttando il contrasto fra monarchia e fascismo. Ma poi repentinamente, e quasi con durezza, il Carità prese a farmi domande inerenti il processo subito al tribunale militare. Sapevo ormai a memoria le deposizioni precedenti, sia degli interrogatori, sia del tribunale. Mi accorsi che era rimasto colpito dalla mia tranquillità (apparente, se vogliamo, ma pur sempre ben simulata). Mi fece riferire qualche discorso tra quelli che avevo confessato fare alla gente, cosa che feci alla buona. A un certo punto mi interruppe e mi chiese bruscamente cosa pensavo della guerra in corso e della sua fine. Risposi: «Comandante, mi perdoni, ma non posso rispondere. Se fossimo al caffè potrei farlo, ma qui, con questi signori alle spalle (vi erano sempre Corradeschi e Trentanove), mi rifiuto di rispondere ». Al che disse: ~ Ti garantisco che nessuno ti toccherà, purchè tu mi dica sinceramente il tuo pensiero; e fa conto di essere al caffè ». Posso dire francamente che non sapevo decidermi. Comunque ormai il dado era tratto. Dopo alcuni attimi di silenzio, preso il coraggio a due mani, mi decisi: La guerra che io considero ingiusta, l’avete persa, ormai ». E spiegai i motivi; bluff dell’arma segreta tedesca, superiorità ormai palese delle forze e degli armamenti anglo-americani e russi. È logico che non mi sentivo tranquillo e sicuro della parola datami da Carità, però compresi che anche questa volta avevo fatto centro e che, vigliacchi com’erano, avevano una paura tremenda della fine. In quel momento avevo l’impressione di essere in una gabbia di iene, dove ciascuno aspetta il momento giusto per aggredire. Cosi si può immaginare con quale sforzo mentale cercavo di controllare la situazione. Si tenga pur conto della mia esperienza acquisita durante i precedenti arresti della famigerata polizia fascista (l’OVRA), che per condannarmi ha dovuto inventare una di quelle infami montature che erano nel suo costume. Ma torniamo ai fatti. Quando ebbi finito di parlare, Carità rimase alcuni minuti (che mi parvero ore) in silenzio, poi si alzò, mi venne vicino e chiese: «Cosa mi faresti, qualora m’incontrassi fuori dopo la sconfitta che tu prevedi? •. Risposi con calma: Nulla, in quanto da parte mia diventerebbe una vendetta quasi personale e quindi più riprovevole dell’azione che lei sta conducendo ora. Caso mai sarà una giustizia legale a procedere, ma non certo io ». Mi mise una mano sulla spalla, dicendo: «Hai ragione. La tua sincerità ti salva~. Mi chiese se avevo sete; risposi di si. Fece portare del vermut e me ne versò un bicchiere. Poi mi diede una sigaretta che accettai anche per calmare la tensione nervosa che stava per raggiungere il limite di rottura.

Ero quasi incredulo d’essere riuscito a calmare quelle belve che poche ore prima avevano infuriato sulle carni dei miei compagni. Invece era proprio così. Diede ordine ai suoi sgherri di condurmi al secondo piano, dicendo: «Guai a voi se lo toccate! •. Capii che anche lui in parte giocava, dato che non era riuscito a scoprire interamente il mio vero pensiero. E cosi rimasi all’erta. Intanto, dopo circa un’ora che m’ero steso su una branda fingendo di dormire, fu condotto nella cella un uomo con catene ai polsi, lo slegarono e lo lasciarono l’ Questi, poco dopo, venne vicino alla mia branda cercando di conversare; io continuai a fingere di dormire, egli mi scosse gli chiesi cosa volesse. Mi domandò perché ero là e i motivi dell’arresto. Non risposi e dissi solo di lasciarmi dormire. Rimase seduto sulla mia branda per qualche tempo e, quando credette che veramente dormissi, piano piano se ne andò. Il mattino seguente fecero un’altra prova. Verso le otto mi accompagnarono al gabinetto per la pulizia, ma a metà scala ebbi la sorpresa di incontrare Attilio Gambia (Ascanio), anche lui comandante veneto delle brigate Garibaldi e mio diretto superiore. Ambedue abbassammo la testa senza il minimo gesto; così anche questa prova, per loro fallita, mi dette una certa tranquillità. Dopo tre giorni di ansiosa attesa, fui svegliato di mattina presto e mi fu annunciato che dovevo tornare alla casa penale per scontare la condanna infittami dal tribunale, pur rimanendo sempre a loro disposizione. Non so dire che sollievo provai apprendendo questa notizia. Ebbi ancora la forza di dire: «Pregate il comandante Carità di lasciarmi li dove ero prima e dove mi ero trovato bene ». Ebbi un rifiuto e, accompagnato in un cortile, rividi i miei compagni sul camion. Fummo stipati assieme in una celletta d’isolamento, dove cominciammo subito a scambiarci le idee e i racconti su come eravamo stati trattati dalla banda Carità, e facemmo i pronostici sul nostro futuro. Il morale dei tre condannati a morte era abbastanza buono. lo e Marchesana facemmo tutto il possibile per incoraggiarli, prospettando loro la prossima fine della guerra ormai a tutti evidente. Così trascorremmo sette o otto giorni e il morale di tutti diventava sempre più allegro. Ma un mattino, alle quattro circa, fummo svegliati dai secondini che invitarono i tre giovani ad uscire e li consegnarono a quattro o cinque della banda Carità. I tre furono fucilati nelle caserme di Chiesanuova. Le preoccupazioni mie e di Marchesana aumentarono sapendo che la belva ferita è più pericolosa. Cominciai a studiare. il modo .di fuggire e riuscii a metterlo in pratica dopo alcuni giorni, il 22 aprile. Approfittando di un momento di disattenzione di un secondino che doveva condurmi agli uffici per conferire con il comandante del carcere salii di corsa sul cammino-ronda e mi gettai dalle mura. Fortuna volle che mi provocassi solo alcune escoriazioni alle ginocchia· attraversai di corsa il cortile della chiesa di S. Tommaso, dalla chiesa stessa e, di buon passo, raggiunsi una casa amica a Porta Venezia. La sera stessa ebbi modo di mettermi a contatto col comandante di brigata e di riprendere la mia attività quale comandante delle brigate garibaldine di Padova e provincia

Il lardo di Rumor di Giordano Campagnolo




Il lardo di Rumor di Giordano Campagnolo



. Gennaio 1945. Gli arresti e le deportazioni con il rigore invernale erano aumentati. I partigiani, specie coloro che svolgevano il pericoloso lavoro di città, erano esposti più di ogni altro a tale evenienza. Il 9 gennaio fece l’ingresso nel salone di Palazzo Giusti l’avvocato Giacomo Rumor, equipaggiato come noi non avevamo mai visto nessuno. Egli infatti, saggiamente, prevedendo il suo arresto, si era preparato scarponi, paltò pesante, sciarpa e un bel sacchetto di cibarie, tra cui un bel pezzo di lardo. Nel gran salone una trentina di affamati occhieggiarono il sacchetto, ma solo uno (una canaglia!) ebbe il coraggio o la sfrontatezza di avvicinarsi e trafugare il pezzo di lardo, che poi spartì con i colleghi vicentini. Nel frattempo Rumor veniva interrogato e regolarmente bastonato dagli sgherri di Carità. Rientrando nel salone pesto e dolorante, con gli occhi che gli uscivano dalle orbite, riuscì chiaro a tutti che la pestata era stata molto severa, e l’autore del furto ne fu profondamente scosso. Dopo un certo tempo, Rumor, per lenire un po’ il dolore, apri Il sacchetto e, scoperto il furto, se ne lamentò con Faccio e Gallo che stavano ancora pulendosi la bocca dal lardo mangiato. E Gallo, con quel suo inimitabile sorriso mefistofe1ico, forbendosi accuratamente le labbra e i baffetti alla Menjou, gli espresse la propria indignazione con le parole acconce che solo lui in quel momento sapeva adoperare: «Cosa vuole, avvocato, questi comunisti! ~ Inutile aggiungere che l’autore del furto, col tempo, si confessò tale all’avvocato Rumor, che appunto per questo diventò uno dei suoi più cari amici

Condannato all’astuzia di Aronne Molinari


Condannato all’astuzia di Aronne Molinari



Fin da ragazzo, dalla fine della prima guerra mondiale, partecipai attivamente alle lotte sindacali; poi, al sorgere delle squadracce fasciste, presi parte alle lotte politiche. Fui arrestato una prima volta a Parma, mia città natale, nel 1921; una seconda volta nel 1923 per «associazione a delinquere contro i poteri dello Stato »; quindi nel 1925 per aver reagito a un insulto del segretario federale di Parma; nel 1931 per distribuzione di manifestini antifascisti; e infine nel 1934 fui sottoposto a processo in seguito a una denuncia fatta per togliermi dalla circolazione e condannato a sette anni di carcere. Di questi ne scontai quattro, alla casa penale di Padova, dove, godendo di una certa libertà di movimento (all’interno del carcere, s’intende), mi fu possibile conoscere a fondo tutte le strutture della prigione e i punti dov’era possibile la fuga. Nel 1945, nuovamente arrestato e trasferito da Palazzo Giusti alla casa penale, riuscii cosi a fuggire quattro giorni prima della liberazione.
Ho fatto queste premesse autobiografiche non tanto per arrogarmi esaltazioni personali, ma perché sia meglio compresa la causa che mi portò a Palazzo Giusti e come mi servii delle amare esperienze acquistate per sfuggire, senza gravi danni, alle grinfie dei nostri aguzzini. È naturale che non fu solo per questo ch’ebbi la possibilità di uscirne. A ciò contribuì infatti la disorganizzazione delle informazioni dei nostri avversari e l’approssimarsi della fine del conflitto. Ai primi del marzo del 1945, per delazione di un certo Costante Miazzo abitante in via Belzoni a Padova, fui arrestato dalle Brigate Nere di Nello e Alfredo Allegro, Vivarelli, Prisco e Baracco di Camin. Dapprima mi portarono a Ponte di Brenta dove subii un interrogatorio e dove mi vennero contestate le accuse del delatore, ossia che ero commissario della brigata partigiana Garibaldi di Padova. Naturalmente negai. All’alba del giorno seguente fui condotto al Bonservizi (via Giordano Bruno) assieme a un altro arrestato, Sebastiano Marchesana. Qui le contestazioni ed il modo di condurre l’interrogatorio furono abbastanza duri: il Vivarelli mi bastonò. Comunque non parlai. Il giorno seguente fui messo a confronto con altri quattro detenuti e col delatore e potei rendermi conto di quanto delicata fosse la mia posizione, ma ebbi abbastanza tempo per prepararmi una linea di difesa: primo, perché la spia non aveva molti elementi di accusa al di fuori della propaganda sovversiva; secondo, perché gli altri partigiani dissero di non conoscermi con una fermezza tale da dar garanzia sulla loro sincerità (tre erano gappisti di Padova e precisamente Gastone Nalesso, Bruno Lazzareuo, Guido Franco); terzo  Marchesana, agente del SIM promosso poi capitano per meriti partigiani. Dopo quattro giorni di confronti e interrogatori, fummo inviali tutti alla casa penale in attesa del processo, che venne celebrato dopo alcuni giorni da un tribunale militare straordinario. Dei componenti di quest’ultimo ricordo solo il nome del pubblico ministero, un certo maggiore Uderzo dell’esercito repubblichino. Fummo tutti condannati: il Marchesana a cinque anni di carcere, io a sette, mentre i tre giovani partigiani vennero condannati alla pena di morte. Dopo il processo fummo ricondotti alla casa pena1e e messi in due celle separate, in una io e Marchesana, i tre condannati a morte nell’altra. Noi due eravamo abbastanza tranquilli, anche se sapevamo che c’era sempre la possibilità di essere uccisi come ostaggi, cosa che in quel momento rappresentava il pericolo maggiore; d’altra parte si capiva che la fine del conflitto era vicina e che potevamo sperare nella nostra salvezza. Il mattino seguente, alle sei circa, quando cominciavamo ad assopirci, ci fecero alzare e fummo accompagnati in matricola. Qui, prelevati dagli sgherri della banda Carità, venimmo condotti a Palazzo Giusti e qui cominciò quel che si può chiamare il nostro Calvario. Fui ammanettato con il Marchesana, gli altri tre tra loro. Così passammo una lunga giornata d’attesa; non potevamo parlare; non ci dettero né da mangiare, né da bere o da fumare. A sera inoltrata cominciarono gli interrogatori. I primi chiamati furono ,i tre. giovani partigiani; dalle urla strazianti provenienti dall’ufficio del Carità potevamo capire com’era condotto. l’interrogatorio e che si volevano da loro altre confessioni oltre a quelle poche rese davanti al tribunale militare. Nonostante le sevizie subite, si mantennero sulle prime di· sornioni senza mai dire di conoscersi o di aver avuto contatti con noi. Furono portati fuori pesti e sanguinanti, tanto da non reggersi più in piedi. Quindi toccò al Marchesana, che subì pressappoco il medesimo trattamento dei primi tre; ma egli se la cavò in circa mezz’ora dalla furia di quei banditi, anche perché era il meno accusato dalla spia. All’una o alle due circa, venne il mio turno. L’accusa sostenuta dal tribunale e da me confermata, in quanto era il meno che potessi fare, era di propaganda politica, dato che mi ero dichiarato comunista. Premetto che se gli arresti subiti prima mi avevano provocato danni materiali, mi erano serviti però ad affilare l’abilità nella schermaglia degli interrogatori ch’ebbi a sostenere nei lunghi anni di lotta. Ma torniamo a Palazzo Giusti. Come dicevo poc’anzi, restai ammanettato tutto il giorno e mezza la notte. Questo tempo mi servi per osservare tutto ciò che accadeva attorno a me anche nei minimi particolari. Per esempio, nella mattinata vidi un andare e venire di gente con valige e bauli ‘ ne dedussi che c’erano preparativi di trasloco. Ravvisai persone che conoscevo, come Antonio Nicolè {Bandiera} Mario Berion (Curzio) e altri. Capii che gli aguzzini volevano prendere due piccioni con una fava, ossia, mentre si facevano servire, stavano attenti se tra noi vi fosse qualche segno di riconoscimento. Fecero anche un’altra prova: portarono Rino Gruppioni (Spartaco) a confronto con Marchesano, mio compagno di manette. lo guardavo da un’altra parte per non tradirmi col minimo segno, dato che io e Spartaco avevamo operato assieme nel comando delle brigate Garibaldi. Tutto questo susseguirsi di espedienti mi confermò che i repubblichini non avevano in mano nessuna prova concreta della mia attività di combattente partigiano. Quando fui fatto entrare nell’ufficio, il Corradeschi e il tenente Trentanove (cosi lo chiamavano) tentarono subito una provocazione perché reagissi; ma io rimasi esternamente calmo e dissi con fermezza: ~ Prima interrogatemi, poi prendete le vostre decisioni ». Questa mia ferma risposta piacque a una donna e ad un altro figuro seduto al suo fianco, che impedirono ai primi due di sfogare il loro bestiale livore. La donna (che poi seppi essere la figlia di Carità) mi chiese perché ero comunista, come risultava dai verbali processuali in loro possesso. Risposi alla buona, dicendo di non saperlo con precisione, ma che ero un operaio meccanico e che, ancora quand’ero giovane, se protestavo perché la paga non era sufficiente per mantenere la mia famiglia, i padroni mi denunciavano ai fascisti, questi ultimi mi mettevano in prigione, cosi come mi era successo a Parma, mia città di provenienza, e poi a Padova. Tant’è vero che quando nel 1939 venne a Padova il signor Mussolini, mi arrestarono per quindici giorni; nel 1940 venne quel b … del re e mi misero dentro per dieci giorni; poi venne quel c … del principe Umberto e mi tennero in carcere per altri quindici giorni. Questi due ultimi epiteti, detti di proposito, sollevarono l’ilarità degli sgherri presenti. In quel preciso momento capii di avere in mano la situazione, per lo meno per quanto riguardava i presenti. A quel rumore di risa s’affacciò alla porta un uomo che avevo visto prima confabulate con un altro, evidentemente un informatore; capii che era il comandante della ciurma. Domandò cosa c’era da ridere a quel modo, e la figlia rispose: « Senti, papà, cosa dice quest’uomo! ,.. e mi fecero ripetere le affermazioni suddette. Il Carità mi ascoltò con viso calmo e compiaciuto, quasi per approvare, e capii che avevo colpito nel segno, sfruttando il contrasto fra monarchia e fascismo. Ma poi repentinamente, e quasi con durezza, il Carità prese a farmi domande inerenti il processo subito al tribunale militare. Sapevo ormai a memoria le deposizioni precedenti, sia degli interrogatori, sia del tribunale. Mi accorsi che era rimasto colpito dalla mia tranquillità (apparente, se vogliamo, ma pur sempre ben simulata). Mi fece riferire qualche discorso tra quelli che avevo confessato fare alla gente, cosa che feci alla buona. A un certo punto mi interruppe e mi chiese bruscamente cosa pensavo della guerra in corso e della sua fine. Risposi: «Comandante, mi perdoni, ma non posso rispondere. Se fossimo al caffè potrei farlo, ma qui, con questi signori alle spalle (vi erano sempre Corradeschi e Trentanove), mi rifiuto di rispondere ». Al che disse: ~ Ti garantisco che nessuno ti toccherà, purchè tu mi dica sinceramente il tuo pensiero; e fa conto di essere al caffè ». Posso dire francamente che non sapevo decidermi. Comunque ormai il dado era tratto. Dopo alcuni attimi di silenzio, preso il coraggio a due mani, mi decisi:  La guerra che io considero ingiusta, l’avete persa, ormai ». E spiegai i motivi; bluff dell’arma segreta tedesca, superiorità ormai palese delle forze e degli armamenti anglo-americani e russi. È logico che non mi sentivo tranquillo e sicuro della parola datami da Carità, però compresi che anche questa volta avevo fatto centro e che, vigliacchi com’erano, avevano una paura tremenda della fine. In quel momento avevo l’impressione di essere in una gabbia di iene, dove ciascuno aspetta il momento giusto per aggredire. Cosi si può immaginare con quale sforzo mentale cercavo di controllare la situazione. Si tenga pur conto della mia esperienza acquisita durante i precedenti arresti della famigerata polizia fascista (l’OVRA), che per condannarmi ha dovuto inventare una di quelle infami montature che erano nel suo costume. Ma torniamo ai fatti. Quando ebbi finito di parlare, Carità rimase alcuni minuti (che mi parvero ore) in silenzio, poi si alzò, mi venne vicino e chiese: «Cosa mi faresti, qualora m’incontrassi fuori dopo la sconfitta che tu prevedi? •. Risposi con calma: Nulla, in quanto da parte mia diventerebbe una vendetta quasi personale e quindi più riprovevole dell’azione che lei sta conducendo ora. Caso mai sarà una giustizia legale a procedere, ma non certo io ». Mi mise una mano sulla spalla, dicendo: «Hai ragione. La tua sincerità ti salva~. Mi chiese se avevo sete; risposi di si. Fece portare del vermut e me ne versò un bicchiere. Poi mi diede una sigaretta che accettai anche per calmare la tensione nervosa che stava per raggiungere il limite di rottura.
 
Ero quasi incredulo d’essere riuscito a calmare quelle belve che poche ore prima avevano infuriato sulle carni dei miei compagni. Invece era proprio così. Diede ordine ai suoi sgherri di condurmi al secondo piano, dicendo: «Guai a voi se lo toccate! •. Capii che anche lui in parte giocava, dato che non era riuscito a scoprire interamente il mio vero pensiero. E cosi rimasi all’erta. Intanto, dopo circa un’ora che m’ero steso su una branda fingendo di dormire, fu condotto nella cella un uomo con catene ai polsi, lo slegarono e lo lasciarono l’ Questi, poco dopo, venne vicino alla mia branda cercando di conversare; io continuai a fingere di dormire, egli mi scosse gli chiesi cosa volesse. Mi domandò perché ero là e i motivi dell’arresto. Non risposi e dissi solo di lasciarmi dormire. Rimase seduto sulla mia branda per qualche tempo e, quando credette che veramente dormissi, piano piano se ne andò. Il mattino seguente fecero un’altra prova. Verso le otto mi accompagnarono al gabinetto per la pulizia, ma a metà scala ebbi la sorpresa di incontrare Attilio Gambia (Ascanio), anche lui comandante veneto delle brigate Garibaldi e mio diretto superiore. Ambedue abbassammo la testa senza il minimo gesto; così anche questa prova, per loro fallita, mi dette una certa tranquillità. Dopo tre giorni di ansiosa attesa, fui svegliato di mattina presto e mi fu annunciato che dovevo tornare alla casa penale per scontare la condanna infittami dal tribunale, pur rimanendo sempre a loro disposizione. Non so dire che sollievo provai apprendendo questa notizia. Ebbi ancora la forza di dire: «Pregate il comandante Carità di lasciarmi li dove ero prima e dove mi ero trovato bene ». Ebbi un rifiuto e, accompagnato in un cortile, rividi i miei compagni sul camion. Fummo stipati assieme in una celletta d’isolamento, dove cominciammo subito a scambiarci le idee e i racconti su come eravamo stati trattati dalla banda Carità, e facemmo i pronostici sul nostro futuro. Il morale dei tre condannati a morte era abbastanza buono. lo e Marchesana facemmo tutto il possibile per incoraggiarli, prospettando loro la prossima fine della guerra ormai a tutti evidente. Così trascorremmo sette o otto giorni e il morale di tutti diventava sempre più allegro. Ma un mattino, alle quattro circa, fummo svegliati dai secondini che invitarono i tre giovani ad uscire e li consegnarono a quattro o cinque della banda Carità. I tre furono fucilati nelle caserme di Chiesanuova. Le preoccupazioni mie e di Marchesana aumentarono sapendo che la belva ferita è più pericolosa. Cominciai a studiare. il modo .di fuggire e riuscii a metterlo in pratica dopo alcuni giorni, il 22 aprile. Approfittando di un momento di disattenzione di un secondino che doveva condurmi agli uffici per conferire con il comandante del carcere salii di corsa sul cammino-ronda e mi gettai dalle mura. Fortuna volle che mi provocassi solo alcune escoriazioni alle ginocchia· attraversai di corsa il cortile della chiesa di S. Tommaso, dalla chiesa stessa e, di buon passo, raggiunsi una casa amica a Porta Venezia. La sera stessa ebbi modo di mettermi a contatto col comandante di brigata e di riprendere la mia attività quale comandante delle brigate garibaldine di Padova e provincia


 

Bruno Campagnolo – Il coraggio è facile

Il coraggio è facile di Bruno Campagnolo

3 dicembre, una domenica nata sotto una cattiva stella. Al mattino verso le dieci sto seguendo un funerale, quando un allarme aereo e il successivo bombardamento costringono il corteo a cercare rifugio dove si può. Il carro trainato da un ronzino tutto pelle e ossa prende il trotto e si avvia verso la chiesa; dopo una mezz’ora cessa l’allarme e, come Dio vuole, terminata la funzione religiosa, andiamo verso il cimitero. Tornato a casa, presso amici insospettati che mi ospitavano da parecchi mesi con mio fratello, consumato un magro pranzo, mi avviai con Giordano in bicicletta, prudenzialmente distanziati, verso una riunione in una fattoria nei pressi della stazione ferroviaria di Montecchio Precalcino, per stabilire varie cose inerenti la nostra guerra partigiana. A riunione avviata vedemmo entrare un gruppo di SS armate. Non essendo noi armati, preferimmo cercare scampo con la fuga, subito inseguiti nella nostra corsa tra i campi. lo fui l’ultimo ad uscire, e non conoscendo il luogo, finii prima in una stalla con le finestre sbarrate, poi, tornato sui miei passi, seguii gli altri, sentendomi alle calcagna le 5S che mi inseguivano sparando. Fummo messi urgentemente alla prova in questa fuga, ma eravamo tutti baldi giovani che sapevano superare fossi pieni d’acqua, siepi, ecc. Ad un certo momento m’accorsi che, rannicchiato dentro un fosso, c’era Gino Cerchio, uno dei capi più ricercati sul cui capo pesava le pena di morte a vista. Mi fermai e, rendendomi conto che non ce la faceva più perché ormai era stremato, lo rassicurai dicendogli di rimanere nascosto, mentre io, cambiando direzione, avrei attirato su di me gli inseguitori. E cosi feci, riuscendo a salvarlo.

Fui arrestato. Venni condotto nella stessa casa di campagna in cui era avvenuta la riunione e, con mia grande sorpresa, trovai già in stato d’arresto mio fratello Giordano, Lamberto Graziani e Agostino Crema. La staffetta Alberta ( Nerina ) era pure nel cortile, ma per la sua piccola statura e per l’esile figura di ragazzina era passata inosservata alle SS. Fummo caricati tutti e quattro su macchine e portati a Vicenza in una casa di via Fratelli Albanese, succursale della famigerata banda Carità. lo e Crema fummo rinchiusi in una stanza al piano superiore, mentre Giordano e Graziani, essendo stati trovati con documenti sospetti, furono subito interrogati e bastonati a sangue. Sentivamo le loro grida, ma eravamo nell’assoluta impossibilità di aiutarli. Passammo tutta la notte in agitazione in piedi o seduti per terra, essendo la stanza completamente vuota. Al mattino ci portarono ad un primo interrogatorio; tutto andò bene, non essendoci nessuna prova contro di noi. Ero molto in ansia per mio fratello. Mentre mi riportavano in cella, passando per un corridoio, vidi, disteso pancia a terra, una specie di uomo. Mi chinai: era Giordano, pesto e in condizioni da non credere. Apri un occhio e mi sussurrò: « Non ho parlato ». La guardia non si accorse di niente, tanto la cosa si era svolta rapidamente. Tornai in cella tranquillizzato per il silenzio tenuto da Giordano, ma turbato per le condizioni in cui lo avevo visto.

Due sere dopo mi portarono nella villetta del comando per un altro interrogatorio. Mi legarono i polsi con una corda, poi mi fecero passare le ginocchia tra le braccia e quindi, tra queste e le gambe, passarono un palo. Cominciò l’interrogatorio con domande sui partigiani, sui comandanti, ecc.; alle mie risposte negative, il boia prese per un capo il bastone in cui ero infilato e mi fece cadere con la testa per terra, esponendo la parte dove la schiena cambia il suo onesto nome, e con un altro bastone cominciò a battermi, incurante delle mie grida intercalate da tutti i titoli non onorifici che mi venivano in mente. Dopo una quarantina di legnate, si riposarono. Alla ripresa dell’interrogatorio, non avendo io ormai nulla da perdere, dissi quello che pensavo di loro e delle loro nobili famiglie con il risultato di una seconda dose di bastonate, che, confondendosi con le prime, non sentivo quasi più. Forse si accorsero di questo, mi levarono le scarpe e mi batterono sotto le piante dei piedi, facendoli gonfiare in maniera tale, che non potei più rimettere le scarpe. A braccia mi portarono in una cella in cantina dove trovai mio fratello e Graziani. Crema non c’era. Non trovavo una posizione nella quale mettermi, non potendo stare né in piedi, né seduto con le parti cosi doloranti, gonfie e nere per il sangue. Durante un altro interrogatorio, il tenente Sottili mi fece vedere uno schizzo a colori, dove era disegnata una casa vicino ad un torrente, che diceva di aver trovato a casa mia. Insisteva che lo schizzo rappresentava la pianta delle carceri di S. Biagio di Vicenza e che sarebbe servito per far evadere i prigionieri. Dopo aver detto che la mia casa era da tempo abbandonata, gli feci notare che nel disegno vi era scritto « torrente », mentre a S. Biagio passava il fiume Bacchiglione. Come risposta mi diede due schiaffi e mi disse: «Imbecille! In Italia di fiumi non ci sono che il Po e l’Adige. Tutti gli altri sono torrenti ». Evidentemente aveva studiato in libri diversi dai miei. Pochi giorni dopo, altro interrogatorio. È di turno il tenente delle SS Herke. A Giordano torce un dito; a me non succede niente. Ci portano in cella ed il tenente Usai ci comunica che l’indomani mattina presto ci avrebbero fucilati entrambi. Non credo sia rimasto soddisfatto della nostra alzata di spalle. Ci chiede solo se vogliamo un confessore, noi decliniamo l’offerta. Rimasti soli, dico a Giordano: «Non credere! lo fanno per farci parlare e magari ci mandano a confessarci uno di loro vestito da prete. Non preoccuparti, neppure se fanno tutta la messa in scena della fucilazione ». Alla liberazione ho saputo dal tenente Usai, da me visitato in prigione, che avevano sospeso in extremis l’esecuzione perché, avendo compiuto quella notte altri arresti, pensavano potessimo essere utili per qualche confronto. Certo è che avremmo fatto un’ottima figura davanti al plotone, sicuri che fosse solo un trucco. Avremmo detto sorridendo: «Mirate al cuore! », e saremmo morti senza accorgercene, da eroi, come i fratelli Bandiera.

Verso il 20 dicembre, una sera viene condotto nella nostra cella in cantina Torquato Fraccon, uno dei capi del CLN veneto, arrestato fin dalla fine di ottobre e interrogato nei vari comandi da briganti di tutte le specie, dove ognuno aveva cercato di superare gli altri in supplizi e percosse, senza però riuscire a cavare da questa fortezza d’uomo quanto sapeva. Era la terza volta che io lo vedevo; la prima ad una riunione in casa di Vangelista in Matteo S. Lorenzo, la seconda in via S. Biagio mentre, ammanettato con tutta la famiglia, veniva condotto a piedi in carcere. Ed ora lo rivedevo alla vigilia della sua partenza per il campo di concentramento di Mauthausen. Era triste nella sua fierezza e ci disse senza tanti preamboli che vedeva nero, quasi presagisse la sua fine, tanto conosceva a fondo i suoi aguzzini e i loro complici tedeschi. Al mattino ci abbracciò tutti e parti. Mori in campo di concentramento 1’8 maggio 1945. Verso la fine dell’anno lasciammo la cantina per una stanza al pianoterra con la finestra murata e la luce accesa giorno e notte. Il 31 dicembre Rogai, uno sbirro toscano di media età, prepotente e stupido, ci avverti che era venuto a conoscenza di un tentativo di forze partigiane per liberare noi prigionieri, e aggiunse che in questo caso ci avrebbe fatti fuori tutti. Lo ringraziammo della gentilezza che ci avrebbe usato e ci organizzammo per difenderei: riempimmo d’acqua tutte le bottiglie, si da renderle più pesanti e usarle come clave e ci disponemmo in modo da poter sorprendere chi fosse entrato, mentre uno di noi si teneva pronto a rompere la lampadina. A mezzanotte cominciarono gli spari, prima lontani e poi sempre più vicini: noi pronti, molto tesi ma decisi a tutto. Ma non accadde nulla; gli spari cessarono e solo al mattino seguente venimmo a sapere che durante la notte erano stati i militari tedeschi a sparare per festeggiare l’anno nuovo!

Verso il 6 gennaio venni condotto a Palazzo Giusti di Padova assieme all’ingegner Graziani. Il viaggio avviene in macchina; a Mestrino alcuni aerei si abbassano a mitragliarci e i nostri accompagnatori, comandati dal capitano Bacoccoli, si gettano al riparo nel fossato a fianco della strada lasciandoci legati in macchina. Propongo a Graziani di fuggire, ma lui tentenna. Sfuma la possibilità, ritornano i nostri guardiani e si riprende il viaggio. A Palazzo Giusti è concentrato il comando della banda Carità e li arrivano j prigionieri più importanti, cosicché si ritrovano i vari componenti del CLN veneto e i capi partigiani che hanno avuto la sventura di cadere in brutte mani. C’erano tutti i capi: avremmo potuto fare la guerra a tavolino. II palazzo, bello, antico, con un grandioso salone tutto dipinto, adatto a splendide feste, era ora occupato da gente di tutti i ceti sociali ma con un unico ideale di libertà e giustizia. Il salone era il limbo, attraverso il quale tutti dovevano passare in attesa di essere interrogati. Questo significava botte da orbi e torture. Gli interrogatori erano fatti in varie stanze che davano sul salone e sempre di notte, cosicché non si dormiva per l’ansia di essere chiamati. Nell’attesa, chi passeggiava avanti e indietro e chi stava seduto sui divani. Graziani stava sempre seduto e sembrava uno di quei messicani che dormono seduti per terra. Aveva un grosso difetto: russava sonoramente anche con gli occhi aperti (in cantina, a Vicenza, avevamo istituito un turno di sveglia, per cui uno doveva scuoterlo continuamente per permettere agli altri di dormire). Questo suo difetto una notte mi fece divertire perché Graziani russava cosi forte che smisero un interrogatorio credendo che fossero gli aeroplani; quando si avvicinavano a Graziani non riuscendo a capire la causa di quel gran rumore, io gli davo un colpo e il russare cessava; appena si allontanavano, io lo lasciavo fare e il rumore ricominciava. Neppure lui si accorse del gioco, che ebbe il merito di sospendere per quella notte gli interrogatori.

Quelli che occuparono come prigionieri il salone potrebbero farne una storia dolorosamente gloriosa, e ognuno potrebbe essere preso come esempio per la fermezza che gli veniva non da incosciente ottimismo, ma da forza dell’animo e dell’ideale. Parlare di tutti non è possibile. Voglio ricordare Egidio Meneghetti, alto in tutti i sensi; passeggiava avanti e indietro nel salone, ammanettato e cosi fiero nel portamento che gli stessi aguzzini rimanevano intimoriti di fronte a lui. . Attilio Gambia ( Ascanio ) sempre sottoposto a nuovi confronti con gli arrestati e percosso continuamente per il suo rifiuto di parlare, anche lui ammanettato giorno e notte dei dolori fortissimi e un ascesso appendicolare con principio di peritonite. Mi visitò il professor Volpata, primario chirurgo dell’ospedale di Arzignano, come noi prigioniero di Carità, e mi consigliò l’immediato ricovero all’ospedale di Padova con operazione urgente. Lasciai così la «nave» e il suo prezioso carico intellettuale ed umano, a malincuore. All’ospedale mi visitò subito il professor Zaniboni che ordinò immediatamente l’intervento. Un SS faceva buona guardia seguendomi perfino m sala operatoria. Rimasi tra la vita e la morte per una settimana, poi lentamente cominciai a rimettermi. Nella sala comune in cui ero ricoverato, che era chiamata « la Croazia », eravamo una sessantina di cui molti erano partigiani o feriti o operati, tutti sorvegliati dalle loro guardie. Queste mettevano le loro armi, bombe a mano e mitra, sopra un tavolo di marmo in mezzo alla sala con grande spavento del personale sanitario e soprattutto delle suore. Per noi era quasi un divertimento, una oasi di pace, sicuri come ci sentivamo di non essere torturati, né mandati in cella, né in campo di concentramento, tanto più che i medici facevano il possibile per tenerci stazionari in modo da costringere i vari comandi a lasciarci A Pasqua venne in visita il Vescovo che mi riconobbe e mi salutò commosso. Dopo circa due mesi, mentre stavo cercando il momento per tentare la fuga, mi vennero a prendere e mi portarono nella Casa penale di piazza Castello. Piansi di rabbia, ma la fuga non fu che rimandata. Infatti, ricoverato nell’infermeria del carcere per le mie cattive condizioni di salute, conobbi altri partigiani e, con la collaborazione di alcuni galeotti comuni, dopo aver segato per giorni e giorni le sbarre di una cella adibita a magazzino, un lunedì, mentre Aronne Molinari teneva in chiacchiere la guardia, riuscimmo a fuggire passando sopra una scala messa di traverso tra la finestra e il tetto di una casa che confinava col carcere. Su questo speciale ponte che a metà percorso si incurvava pericolosamente, strisciammo uno alla volta, sempre aspettando che la guardia girasse l’angolo e pregando la buona sorte che non alzasse la testa, illuminati come eravamo dal chiaro di luna. Passammo poi nel rifugio della Specola, dove il guardiano si spaventò vedendoci entrare dalla finestra; lo consigliammo minacciosamente di tacere, cosa che lui fece.

Usciti di li, ci dividemmo in due gruppi di cinque e ci lasciammo senza dirci dove saremmo andati, perché se qualcuno fosse stato ripreso non avrebbe potuto cosi danneggiare i compagni neppure sotto tortura. Ci nascondemmo nella chiesa della Sacra Famiglia con la complicità del parroco e passammo alla meno peggio la notte. Intanto le guardie avevano cominciato la caccia anche con cani poliziotti; ma evidentemente questi ultimi o erano antifascisti oppure raffreddati, perché, pur essendo vicinissimi a noi, non ci trovarono. L’indomani mattina ci portammo verso il campo d’aviazione, in una casa disabitata, dove un partigiano vestito da sergente maggiore delle SS, con nastrini e medaglie, ci raggiunse per fotografarci, promettendo per il pomeriggio i documenti a ognuno. Nel pomeriggio tornò portando tutto l’occorrente. Essendo io ancora convalescente e con la ferita aperta, fui destinato al riposo, mentre gli altri quattro raggiunsero le formazioni partigiane che stavano combattendo. Con un ragazzino come guida, in bicicletta, attraverso molte peripezie, arrivai a destinazione in una casa isolata in mezzo alla campagna di Campodoro, dove rimasi due o tre giorni. Al giovedì mattina salutai tutti e mi portai a Camisano Vicentino e di qui, sempre in bicicletta, mi avvicinai a Vicenza. Avevo un desiderio che non mi dava pace, fin dal giorno del mio arresto: volevo sapere chi mi aveva fatto la spia. Per tale scopo volevo prendere uno dei capi della banda Carità che avessero operato a Vicenza. Sapevo che appunto il capitano Bacoccoli abitava davanti alla casa di mia sorella e pensavo mi sarebbe stato facile appostarmi nei paraggi e prenderlo. Mi avvicinai e pregai un ragazzino di suonare da mia sorella e avvertirla che io ero sul retro della casa. Lei si affacciò facendomi segno che non c’era pericolo. Da lei seppi che i fascisti in parte erano scappati, altri erano stati fatti prigionieri, che c’era aria di smobilitazione e che tutti gli eroi della repubblica di Salò in abiti civili cercavano rifugio dove potevano, mimetizzandosi come tanti camaleonti. Andai allora a casa del Bacaccoli e aspettai il suo ritorno. Lo pregai gentilmente di salire con me da mia sorella e mi presentai. Già mi aveva riconosciuto. Pallido, con voce tremula rispose a quanto gli chiedevo e poi scrisse di suo pugno una confessione addolcita su quanto precedentemente era successo, su chi ci aveva tradito, ecc. In un secondo tempo mi fece pervenire anche una descrizione fisica e morale dei principali componenti il reparto e delle malefatte compiute da detta accozzaglia di briganti. L’indomani mattina mi incamminai verso casa mia perché desideravo rivederla dopo tanto tempo. Le strade erano deserte e stranamente silenziose. Ad un incrocio di via IV Novembre sbucarono dei partigiani armati che, riconoscendomi, mi chiesero se erano in vista dei nemici; li rassicurai e consigliai loro di lasciarli andare: «A nemico che fugge, ponti d’oro! » Un po’ più avanti, dalla finestra della sua abitazione, mi salutò Emilio Zola, vecchio socialista che aveva passato alcuni giorni prigioniero della banda Carità a Vicenza. Mentre si stava chiacchierando, un gruppo di tedeschi in ritirata, vedendomi, mi sparò col mitra. Svelto mi gettai sulla porta che lo Zola mi aprì Rimasi a casa sua un quarto d’ora, finché sentimmo un gran gridare di gente: gli americani erano arrivati al ponte degli Angeli. Il destino aveva voluto che non mancassi a questa scena non lasciandomi morire nella sparatoria di quella mattina. I soldati camminavano in due file ai lati della strada e la popolazione li accoglieva con le pentole in mano per offrir loro quel poco che avevano, incuranti di rimanere senza mangiare. Era una cosa veramente commovente, pensando alla fame che avevano patito fino allora.

Passati i primi due giorni dalla Liberazione, mi procurai dei documenti e un lasciapassare, e con un camioncino andai a Bolzano alla ricerca di mio fratello Giordano che doveva essere nel campo di concentramento. Fu un viaggio movimentato da continui posti di blocco; cosicché, quando arrivai al campo, non vi era pi6 nessuno. Seppi che un parroco aveva l’elenco di quelli che erano usciti vivi e tra questi trovai il nome di Giordano. Non sapendo dove fosse andato, rifeci il viaggio di ritorno, fermandomi in tutti i posti di raduno, ospedali, cimiteri. Ma non trovai nulla. Demoralizzato tornai da mia sorella. Una o due sere dopo vidi un uomo stranamente vestito che veniva verso casa camminando come un ubriaco: era Giordano, in uno stato pietoso. Lo abbracciai dalla gioia, ma dopo aver sentito che era stato a combattere al Passo della Mendola, mi sfogai dandogli un ceffone, al pensiero di quanto eravamo stati in pena per lui. Nei giorni seguenti mi feci rilasciare dal questore Follieri, anche lui ex prigioniero di Carità, un tesserino che mi permetteva di visitare tutte le carceri e i posti dove erano rinchiusi i vari brigatisti neri, SS, ecc. Nel Collegio Baggio in via S. Marco a Vicenza, chiuso in cantina, trovai il tenente Umberto Usai, uno dei pi6 feroci aguzzini, che vedendomi si inginocchiò ai miei piedi e piangendo mi chiese perdono e pietà. Aveva attorno al collo uno spago con tanti nodi, come un rosario, e in fondo, come croce, due rametti legati. Pensando a tutto quello che aveva fatto, provai disgusto e glielo dissi con queste parole: «Non ti vergogni, dopo quanto hai fatto, a portare anche la croce, tu che hai calpestato onore, fede, dignità, pietà? Alzati e comportati da uomo ». E me ne andai, lasciandolo forse sorpreso perché non lo avevo picchiato. Lo rividi in carcere a S. Biagio. Dal direttore mi feci dare carta e penna, pregandolo di scrivere un po’ la storia di tutte le nefandezze compiute dal suo reparto cercando di non dimenticare niente. Anche lui, come Bacoccoli, addolci per suo conto la confessione. Visitai anche la Casa penale di Padova, con sorpresa del direttore che vedeva per la prima volta un evaso tornare in prigione. Mi fece visitare tutti i reparti e incontrai alcuni componenti la banda Carità. La scena era sempre la stessa: « perdono, pietà, ero costretto a farlo, ccc. ». lo provavo solo disgusto e disprezzo di fronte al loro comportamento. Il nostro era stato ben diverso, ma !’ideale grande e giusto che ci aveva animati meritava il sacrificio sopportato.

Non è stato niente di Giorgio Ponti

Non è stato niente di Giorgio Ponti

Sono arrestato assieme a mio padre, Giovanni Ponti, e alla partigiana Ida D’Este la sera del 7 gennaio 1945. Da qualche mese la mia famiglia è nascosta, sotto falso nome, a Padova in luoghi diversi. Ho dodici anni. In quei giorni una eccezionale nevicata era caduta sulla città: anche per questo, per camminare sulla neve fresca, voglio accompagnare Ida D’Este alla clinica Palmieri, dove da qualche settimana si nasconde mio padre. La clinica è accerchiata dagli uomini della banda Carità: sotto la minaccia dei mitra ci fanno accoccolare tra gli alberi del giardino che circonda la clinica, in attesa che altri ospiti sospetti rientrino. Con cautela, approfittando del buio, Ida D’Este nasconde sotto la coltre di neve i documenti che doveva consegnare a mio padre: per un momento la neve mi sembra un’alleata preziosa (ma quando, poco dopo, ci portano via, quel nascondiglio si dimostrerà insufficiente). Del mio breve soggiorno a Palazzo Giusti porto, più vivi degli altri, due o tre momenti. L’imponente figura del professor Meneghetti, che, ammanettato, sale lentamente lo scalone del palazzo. Uno sgherro gli sussurra con odio: ..: Con la tua barba faremo una spazzola per pulire gli stivali di Mussolini ». Meneghetti non risponde: per un attimo sulle sue labbra mi pare di cogliere un amaro sorriso. Gli interrogatori continuano per tutta la notte. Dalla stanza dove mi trovo, contigua a quella delle torture, giungono gemiti, grida strozzate, lamenti prolungati e disumani. Cerco di riconoscere la voce di mio padre che da molte ore non è più con me.

Alle prime luci del mattino (fuori continua a nevicare) buttano fuori mio padre: nella luce incerta ne riconosco la figura: è ammanettato; ha il cappotto, gli occhiali, il cappello, come quando lo ho lasciato. Ma il volto è un’enorme macchia tumefatta e bluastra; è cosi gonfio che il cappel1o, sulla testa; sembra piccolissimo (per un attimo quel cappello, ora così sproporzionato, mi sembra quello di un clown). Passandomi vicino cerca di sorridermi, ma non può: il volto è troppo gonfio. Allora, con grande sforzo, mi dice: « Coraggio, Giorgetto, non è stato niente», Ora tocca a me: nella stanza dell’interrogatorio sono una ventina, seduti attorno ad un grande tavolo: le finestre sono sbarrate, una grande luce mi viene puntata contro. Al centro del tavolo il maggiore Carità, sprofondato su una poltrona, sorride (è il terzo sorriso di quella notte). Al mio fianco Ida D’Este, seduta su una sedia, è quasi alla fine del suo calvario: ha il capo appoggiato sul tavolo. .’ Le si avvicina la figlia di Carità e la afferra per i capelli: grida frasi incomprensibili. Osservo le sue mani: sono piene di capelli e di sangue. Ma Ida non ha emesso nemmeno un lamento. Dopo qualche giorno vengo rilasciato: ma gli altri rimangono. Mi riaccompagnano al convento delle Dorotee, dove ero nascosto con la mamma e i miei fratelli. Per strada c’è ancora la neve, ma non è più la stessa: adesso è grigia, fangosa, irriconoscibile.

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Partigiana Nuda – Egidio Meneghetti

Partigiana Nuda di Egidio Meneghetti

Qui si narra un episodio della Resistenza. Accadeva a Palazzo Giusti di Padova, nell’inverno tra il 1944 e il 1945, che la «Banda Carità» talvolta costringesse le partigiane più coraggiose a denudarsi tra scherni e insulti. In quella atmosfera di incubo taluna rasentò la follia. E la follia, con il suo grande mistero, seppe incutere rispetto o, almeno, imporre ritegno. Le parole usate sono semplici e disadorne: chi le ha scritte, più volte, spontaneamente, si è richiamato a espressioni e ad atteggiamenti dei cantastorie, che da secoli, specialmente nelle campagne, ripetono la tragedia della «Donna lombarda» e altre leggende.
Soprattutto per mantenere aderenza con la più schietta anima popolare – che è stata anche l’anima della Resistenza veneta – si è usato il dialetto: il quale, per tale scopo, è davvero insostituibile.

Dal Santo do batude longhe, fonde,
rompe la note carga de paura,
e da Palasso Giusti ghe risponde
un sigo spasimado de creatura.
*
Al fredo, drio dei scuri,
i padovani i scolta l’agonia dei partigiani.
*
El magiór Carità l’è straco morto
de tiràr ostie e de fracàr pestade:
coi oci sbiessi soto ’l ciufo storto
el se varda le onge insaguinade.
*
El buta ’n’altra simpamina in boca,
el se stravaca in te ’na gran poltrona
e po’l fissa la porta. A ci ghe toca?
La porta se spalanca : vièn ’na dona.
*
Partigiana te si la me mama,
Partigiana te si me sorela,
Partigiana te mori con mi:
me insenocio davanti de ti.
*
Ela l’è magra, tuta quanta oci,
coi labri streti sensa più colór,
ela l’è drita anca se i senoci
tremàr la sente e sbatociarghe ’l cor.
*
« O partigiana se parlerai subito a casa tu tornerai »
« Son operaia siór capitàn e no so gnente dei partigiàn »
« O partigiana se tacerai per la Germania tu partirai »
« Son operaia siòr capitàn e no so gnente dei partigiàn »
« O partigiana te spogliarò e nuda cruda te frustarò »
« El fassa pura quel che ghe par, son partigiana no voi parlàr »
*
Partigiana te si la me mama,
Partigiana te si me sorela,
Partigiana te mori con mi:
me insenocio davanti de ti.
*
Spaìsi i oci nela facia bianca
la scruta intorno quela bruta gente:
fiapa la boca, sul sofà, la Franca
la se impitura i labri, indifarente;
*
longo, desnoselà come Pinocio,
Trentanove el la fissa pién de voia
e Squilloni, sbronsado, el struca d’ocio
nel viso scuro e ransignà da boia.
*
El carceriér Beneli, bagolón,
el scorla le manete, spirità,
e dindona Goneli el so testón,
cargo de forsa e de stupidità.
*
Ma Coradeschi, lustro e delicato,
el se còmoda a piàn i bafetini
po’l lissa i cavei, morbidi e fini,
cola man bianca che à copà Renato.
*
Ghe se strossa el respiro nela gola:
l’è piena de sassini quela stansa;
ela l’è sola, tuta quanta sola,
sensa riparo, sensa più speransa,
*
e quando man de piombo le se vansa
par spoiarla, ghe vièn la pele d’oca;
con un sguisso de schifo la se scansa:
« Me spoio da par mi, lu no’l me toca ».
*
Facia brusa, oci sbate, cor tontona,
trema i dei che desliga e desbotona:
so la còtola, via la blusa slisa,
ghe resta le mudande e la camisa.
*
Camisa da soldà de vecia lana,
mudande taconà de tela grossa…
Ride la Franca dala boca rossa:
«È proprio molto chic la partigiana ».
*
Carità el rusa: « Avanti verginella ».
El respiro dei masci se fa grosso.
Mentre la cava quel che la g’à indosso
ela la pensa: « Almanco fusse bela …»
*
Ecola nuda, tuta quanta nuda,
che la querse la pansa cole mane.
Ride la Franca dala lengua cruda:
« Non si lavano mai le partigiane? »
*
Corpo che no conosse la caressa
e de cipria e de unguento e de parfumo,
pèle che la s’à fato mora e spessa
nel sudór, nela pólvar e nel fumo.
*
Sgoba operaia, che te perdi el posto!
Cori stafeta, che se no i te ciapa!
rùmega l’ansia che franfugna el sono
e intanto la belessa la te scapa.
*
La testa la ghe gira, ’na nebieta
ghe cala sora l’ocio spalancado:
l’è tornada ’na pora buteleta
che l’orco nele sgrinfe l’à ciapado.
*
No la sa dove l’è … forsi la sogna …
la savària con vose de creatura:
« Dame el vestito, mama, g’ò vergogna,
mama g’ò fredo, mama g’ò paura …»
*
Po’ la ride, coi brassi a pingolón
e co’ na facia stralossà, de mata:
tuti quanti la varda e nissùn fiata,
s’à fato un gran silensio nel salón.
*
Su da tera la tol le so strassete,
la le spólvara a piàn, la se le mete,
ogni tanto un sangioto… un gran scorlón
e gh’è come un incanto nel salón.

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