Ovamo Njiemci – Qua i tedeschi

Ovamo Njemci! –

(Qua i tedeschi)

Epilogo della III Brigata «Garibaldi»

di Emilio Rubera

Nel brano che precede, al penultimo capoverso, dicevo: «Fui caricato su una kola e portato poco lontano in una specie di lazzaretto».

Superato il tifo esantematico e la polmonite, legato sul dorso di un cavallino secondo l’usanza del Far West, rieccomi in Brigata. Ero stato prelevato dal lazzaretto ove, poche ore prima, ero stato giudicato «irrecuperabile».

Il merito, ho saputo solo nel settembre del 1973, va tutto ad una dottoressa che da qualche anno è andata in pensione col grado di Generale della Sanità militare dell’Esercito jugoslavo. Era il momento in cui i tedeschi avevano dato inizio alla 72 offensiva, mettendo a ferro e fuoco tutta la zona.

Lasciata Bratunac, da varie ore la colonna, in fila indiana, si arrampicava su di una montagna con dislivello del 15% circa fra boschi inesplorati e pianure a pascolo lussureggianti.

Una marcia non priva di singolari episodi non certamente allegri. Uno di questi non sarà mai cancellato dalla mia memoria. Ad un certo punto, nel fitto di una boscaglia, mentre si costeggiava un torrente in piena, una voce a me nota gridò: «Rosina, acqua!» Sul cavallino dietro il mio, il Ten. medico Ricci scontava il suo tifo esantematico con oltre 41 di febbre. Aveva sete, ma Rosina (il suo portaordini così chiamato per avere un viso rubicondo) di nome Pacini, con altrettanto volume di voce, rispose: «No!»

Non ci crederete, ma quel no così secco e deciso del portaordini al suo ufficiale mi fece, dopo tanto tempo, sorridere. Mi girai verso Ricci e gli gridai: «Quel no di Rosina è la tua salvezza!»

L’avanguardia della colonna era stata affidata al battaglione del Ten. Nunzio Giuffrida. Nel silenzio più profondo, quando ormai stavamo per raggiungere la vetta per prendere posizione, anch’io udii il maledetto grido di avvertimento: «Ovamo Njemci». Una costante della tattica della guerriglia era quella di rompere l’organico, trasformarsi in pattuglie snelle e guardinghe al comando di un graduato od anche di un semplice combattente fra i più svegli, coraggiosi ed intelligenti e risolvere in positivo il «si salvi chi può». Non dimenticando di prendere i contatti notturni col Comando per una ripresa organica delle operazioni.

Senza forze mi trovai col cavallino al trotto con Montanarella accanto che con una mano teneva la cavezza e con l’altra evitava che io cadessi da quella «eroica» posizione.

Attraversato un fitto bosco proprio dalla parte dove mai essere umano era passato, ci trovammo sulla vetta di un’alta montagna. Montanarella, al cospetto di una morena, mi disse: «Tu scendi di qua, io cercherò di salvare il cavallino. Ci incontreremo sul fondo valle!» Quella ripida morena di detriti mobili non sconvolse la mia inebetita esistenza. Mi buttai già a velocità sostenuta a cavallo di un grosso bastone. Quella temerarietà mi salvò la vita.

I tedeschi, raggiunto il mio punto di partenza, sventagliarono il loro mitragliatore, ma ormai avevo raggiunto il sottobosco. Ero per il momento salvo. Ma le gambe non mi reggevano e per muovermi dovevo strisciare con i ginocchi e le mani. La mia fine, questo lo percepii, si presentava a breve scadenza. Montanarella era scomparso, lo ritroverò nel campo di concentramento di Belgrado. Un torrente in piena avrebbe accelerato la mia fine, se due partigiani titini non mi avessero aiutato ad attraversare quel torrente facendomi aggrappare al collo di un cavallino.

Per brevità tralascio la descrizione di molti particolari quali la fermata del cavallino in mezzo al torrente, l’incontro sull’altra riva con due partigiane, madre e figlia, desiderose di miei consigli, il rifugio casuale in una grotta per tre giorni unitamente ad altri italiani arrivati prima di me, l’abbandono in quelle condizioni e la nobile figura del garibaldino Giulio Bordino di Bagnacavallo che, ritornato sui suoi passi nel buio di una notte senza luna,

trovatomi seduto sulle foglie all’ingresso della grotta, con voce tremula, mi disse: «Signor tenente, si morirà in due, ma io non lo abbandono!»

Ho pianto in preda a non poche considerazioni tutte facilmente intuibili. Sento il dovere di raccontare questa odissea che non è solo la mia, ma di centinaia di uomini in lotta contro lo stesso crudele destino, per non essere sopraffatti prima della vittoria finale sul nazifascismo, negazione dei più alti valori dello spirito e degli ideali cari all’umanità: libertà, giustizia e pace.

La forza ed il coraggio di Bordino si dimostrarono insuperabili. Mi sentii sollevare da terra. Mi trovai così sulle spalle di quel gigante. Era la mia unica ancora di salvataggio.

Vi potrei raccontare di un’upupa che alla prima alba ci ha accompagnato con leggiadri svolazzi verso l’incognito, di come riuscimmo a beffare una pattuglia di musulmani trovata per caso a riscaldarsi in una capanna. Potrei dirvi quanto pagai cara quella beffa. Sono tutti fatti che potrebbero essere romanzati, ma questo non è il mio compito. Io penso che se riuscirò ad essere semplice ed elementare nel dipingere, sia pur con pochi colori, il quadro della nostra presenza in Bosnia, otterrò da voi che mi leggete, una partecipazione sentita ed anche sofferta attraverso gli stimoli dei vostri stessi affettuosi sentimenti.

Il nostro crudele destino ebbe a prepararci un tiro mancino. Nella ricerca di una capanna per trascorrere la notte, il caso volle che andassimo a bussare ad una casetta di legno, casermetta musulmana che ospitava proprio la pattuglia che il giorno prima avevamo beffato.

Catturati, a me riservarono un trattamento particolare. Sanguinavo ma non ero morto. Il giorno dopo mi fecero la grazia di consegnarmi, unitamente a Bordino, all’avanguardia della Divisione "Principe Eugenio", la leggendaria «Panzer Division» tedesca che aveva conquistato lUbrus e che era stata spedita in Balcania per il meritato riposo.

Ecco l’ultimo atto prima del trasferimento, a tappe, in un campo di concentramento in Germania: un giovane caporale altoatesino mi si affianca e mi dice in ottimo italiano: -Tenente. sa che per lei c’è la fucilazione?» Risposi: «Sì, lo so, ma preferisco avere prima qualcosa nello stomaco dopo tanti mesi di digiuno». Fu gentile. Mi portò una grossa razione di pane (quello a cassettone, come usavamo dire) ed un po’ di margarina. Anche Bordino ebbe la stessa razione.

Pioveva e seduti vicino ad un fuoco acceso per la circostanza, bagnati come pulcini, restammo in attesa dell’incognito. Ero talmente sfinito che non riuscivo a pensare nè al peggio nè, tanto meno, all’impossibile meglio. La vita ci fu salvata. Oggi il nostro pensiero-tormento volteggia fra quei boschi, quelle doline, quei monti nel ricordo di tanti compagni d’arme traditi dalla sfortuna e rimasti in quella terra spesso insepolti, ma sempre consapevoli di un dovere religiosamente compiuto per far salvo l’onore della Patria, per la libertà e per la pace fra i Popoli.

La 79 offensiva tedesca era riuscita a scompaginare l’eroica III Brigata «Garibaldi», ma gli scampati, anche se poco armati e con il fisico logorato dalla fame e dalle malattie, continuarono la lotta con i reparti dell’Eplj o della Brigata «Italia» fino alla definitiva sconfitta del nemico.

Anch’io, interprete dei sentimenti di tutti i garibaldini, dedico ai giovani amanti della libertà questi tristi ma esaltanti ricordi, affinché sappiano quanto è costato caro lottare per la pace fra i popoli, per la libertà e la giustizia.

soldato

Coperti di stracci

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