Archivio mensile:febbraio 2019
I sedici martiri massacrati sulla piazza di Carpi
I sedici martiri massacrati sulla piazza di Carpi
La storia di Walter Lusuardi:
si fece fucilare al posto del fratello
Il 16 agosto si celebra l’anniversario della strage di sedici persone, per rappresaglia all’uccisione del console della milizia della Repubblica di Salò, Filiberto Nannini. Egli si era trasferito da Parma a Migliarina, frazione di Carpi e si era stabilito nella villa Segrè, abbandonata dai proprietari di religione ebraica. Dalla zona di Parma, dove il console aveva operato, erano arrivati numerosi rapporti sulle spietate azioni repressive di cui egli era stato responsabile, tra cui molte fucilazioni di partigiani e renitenti alla leva. La mattina del 15 agosto il console era partito in bicicletta per Carpi, come faceva di solito, ma a metà strada venne ucciso forse da un commando dei Gap. Già nel pomeriggio e la mattina seguente, gruppi di fascisti della brigata nera di Carpi e dei paesi vicini avevano rastrellato le frazioni di Migliarina, Rio Saliceto, Fossoli e Carpi per catturare partigiani e antifascisti, già noti ai repubblichini, perché segnalati da fascisti locali. Prudentemente molti di questi partigiani di Migliarina e Budrione quella notte dormirono fuori casa, come Walter Lusuardi, Enzo Neri, Aldo Corsari, Aldebrando Manfredini, Malavasi, Ganassi, Savani e altri giovani che avevano disertato. A Migliarina i fascisti tuttavia riuscirono a catturare una trentina di persone e a raggrupparle sotto la tettoia dell’osteria. Tra i fermati vi erano tutti gli uomini della famiglia di Walter Lusuardi: il padre Primo, il fratello Edmondo, che aveva sei figli, e il nipote Dino, di 15 anni. Il padre ed il nipote vennero lasciati liberi, mentre Edmondo fu fatto salire con altri sul camion, con la minaccia che, se non si fosse presentato suo fratello, avrebbero ucciso lui. Walter, che era nascosto in un rifugio partigiano nella valle di Migliarina, venne informato dell’arresto del fratello e sapendo che volevano proprio lui, non esitò: prese una bicicletta e raggiunse quel maledetto camion; fu portato a Carpi e imprigionato assieme al fratello ed agli altri arrestati. In quei pochi chilometri di strada che separano il rifugio partigiano dall’osteria dove erano i fascisti, Walter venne fermato diverse volte dagli amici e invitato a tornare indietro, ma la risposta fu sempre la stessa: «Non posso, mio fratello ha sei figli da crescere. Loro vogliono me». Nel pomeriggio i familiari degli arrestati, saputo che essi erano stati portati in una villa di fronte alla Caserma dei Carabinieri di Carpi, in viale XXVIII Ottobre (ora viale Odoardo Focherini), vi si recarono per avere notizie dei loro cari, ma poterono sentire solo i lamenti e le urla di dolore. Solo dopo si conobbe a quali torture fossero stati sottoposti: avevano loro strappate le unghie dei piedi e delle mani ed a Walter, in più, avevano fratturato un braccio. Verso sera, i sedici ostaggi, allineati in due file e quasi incapaci di reggersi in piedi per le torture subite, furono condotti in piazza dai componenti di una brigata nera non carpigiana. Furono fatti sdraiare a pancia a terra e uccisi a raffiche di mitra e un colpo alla testa. Dentro, carcerato, era rimasto solo Edmondo; nello stesso istante in cui riecheggiarono gli spari, si aprì la porta della cella e gli si avvicinò il capo della brigata nera di Carpi, che gli accese una sigaretta. Mettendogliela in bocca, gli disse: «Loro ti volevano uccidere, ma io ho mantenuto la promessa, anche perché hai sei figli. Puoi andare sei libero». Uscito, Edmondo si incamminò a piedi verso casa: il suo pensiero era tormentato dal mucchio di cadaveri che aveva visto da lontano, al centro della piazza, tra cui sapeva che doveva esserci quello del fratello Walter, che aveva dato la vita per lui. Nella sua mente dominava il pensiero di quando sarebbe giunto a casa. Il suo passo era lento. C’era il coprifuoco, ma voleva ugualmente arrivare; abbandonò la strada e attraversò i campi, avviandosi verso casa, verso quel disperato annuncio che doveva dare, assieme a un doloroso, ma caldo abbraccio, ai vecchi genitori.
***
Walter Lusuardi aveva 30 anni, lavorava come bracciante, a giornata. In quei giorni lavorava alla TODT assieme al fratello Edmondo: scavavano fossati anticarro per i tedeschi. Il loro padre, Primo Lusuardi, oltre ad essere stato presidente della Lega braccianti di Migliarina Budrione nei primi anni del Novecento era stato uno dei pochi che sapeva leggere e scrivere. Scriveva sul giornale socialista “Luce”, dove teneva una rubrica che si intitolava “Dalla vanga alla penna”: in essa invitava gli operai, gli uomini, ma specialmente le donne, a frequentare le scuole serali: gli uomini per avere il diritto di voto, perché a quei tempi votava solo chi “sapeva di lettera” e le donne perché avrebbero avuto almeno la soddisfazione di scrivere personalmente le lettere ai mariti, o ai fidanzati lontani, in guerra. Leggeva anche all’osteria ad alta voce, per i suoi amici, i giornali l’Avanti e Luce. Walter, cresciuto in questa famiglia socialista, e quindi antifascista, rientrato dal servizio militare in aeronautica, prima da Palermo, poi da Ferrara, trovò una situazione economica che non era affatto cambiata, anzi era peggiorata: la miseria era tanta, le giornate di lavoro poche e quindi anche i soldi erano pochi; per questo accettò l’ingaggio per andare in Germania a lavorare, per due anni, nei lavori stagionali, di raccolta delle patate. A quei tempi, per i giovani, l’unico divertimento era il ballo e a Migliarina, vi era una grande sala, chiamata “Salone Moderno” in cui, oltre alle serate danzanti, si poteva assistere a serate teatrali. Un gruppo di amici, ragazzi e ragazze, tra cui Walter, avevano formato una compagnia teatrale ed avevano allestito diverse commedie, come “Il Fornaretto di Venezia”; si esibivano anche cantando romanze delle opere più famose. Walter aveva una bella voce: molte volte, specialmente nelle serate all’osteria, dopo un bicchier di vino, veniva sollecitato a cantare. Le canzoni erano quelle che cantava Beniamino Gigli: “Non ti scordar di me”, “Mamma”, ma non mancavano l’inno socialista “L’Internazionale” o “Bandiera rossa”, ma queste ultime le cantava a bassa voce, mentre intorno si creava un vuoto. Molti dei presenti se ne andavano per paura di essere giudicati socialisti sovversivi; infatti in quel clima, a metà degli Anni Trenta, anche queste cantate erano un affronto per quei fascisti locali che, purtroppo, se ne ricordarono. Solo per questo l’hanno torturato senza pietà, strappandogli le unghie di mani e piedi, rompendogli un braccio davanti al fratello e l’hanno portato in piazza uccidendolo assieme a quindici innocenti. Pochi giorni dopo la liberazione, il Parroco dell’Ospedale di Carpi, che aveva dato la benedizione e ascoltato le ultime volontà dei sedici fucilati, invitò i familiari di Walter ad andare in curia di Carpi per ritirare i documenti del loro caro. Nel portafoglio c’era la foto della fidanzata Ebe Gualdi e un biglietto con scritto l’ultimo pensiero: Un abbraccio a mamma e papà e tutti, un forte abbraccio e baci a Ebe. “Vando”.
Le stragi nascoste – Quattro casi di ordinaria violenza, insabbiati
Le stragi nascoste
Quattro casi di ordinaria violenza, insabbiati
(4) Vicenza
La particolare tipologia delle stragi che tra la fine dell’aprile e l’inizio del maggio 1945 si accompagnarono all’estrema ritirata dei tedeschi e dei fascisti dalle vallate dell’Italia settentrionale è esemplificata da quanto avvenne a Lonigo (Vicenza) il 26 aprile. Una colonna di carristi tedeschi (Btg. Fallschirmjàger Rgt. 10) catturò cinque persone di età compresa tra i 16 e i 25 anni, armate di fucile modello 1891; si trattava di giovani improvvisatisi guerriglieri sull’onda dell’entusiasmo per l’imminente liberazione dell’Italia. Diffusasi la notizia della cattura, l’arciprete del luogo e un comandante partigiano si recarono dal maggiore Alfred Grundmann, cui richiesero di risparmiare le vite dei prigionieri, ottenendone ampie rassicurazioni: li si considerava quali ostaggi, trattenuti a garanzia della tranquillità della ritirata. Le cose andarono in modo diverso: «Nonostante il maggiore Grundmann avesse data a mons. Caldana la sua parola di ufficiale che, in ogni caso, non avrebbe fatto fucilare i cinque, questi venivano il giorno successivo trovati uccisi in un fossato di via Marona». Nel dicembre 1945 i carabinieri di Lonigo denunziarono al comando militare alleato e alla questura di Vicenza il maggiore Grundmann, del quale si forni Fidentikit: «statura m 1,78 circa, corporatura robusta, colorito roseo pallido, capelli biondi ondulati, età anni 36-38». Nei mesi successivi il maresciallo dei carabinieri raccolse le dichiarazioni di alcuni testimoni. Ecco la deposizione del partigiano che aveva parlamentato con Grundmann:
Mi disse che i giovani non li lasciava liberi ma li avrebbe trattenuti in ostaggio e nel contempo mi incaricò di far conoscere alla popolazione ch’egli avrebbe ordinato rappresaglia contro la cittadinanza qualora questa avesse arrecato dei danni ai soldati tedeschi. Continuò con l’affermare che avrebbe provveduto ad inviare i giovani a Montebello Vicentino, ove aveva sede altro comando germanico, ma assicurò nuovamente che gli stessi non avrebbero subito alcun danno fisico.
Verso le ore 20 dello stesso giorno [26 aprile 1945] i cinque fermati, scortati da due soldati tedeschi, partirono a piedi per Montebello Vicentino. Provvidi ad informare il comando della divisione partigiana ed il giorno successivo mi fu fatto sapere che i giovani non risultavano essere giunti a Montebello.
L’indomani fui avvertito che in Via Marona, in un fossato laterale alla strada, si trovava il corpo di cinque giovani fucilati. Erano i cinque partiti da Lonigo, sul conto dei quali era stata data la assicurazione sulla loro incolumità. Essi sono: Burattini Pietro, Fasolin Dino, Zigiotto Alberto, Zigiotto Angelo e certo Mussopapa, siciliano. Presentavano scariche di mitra alla testa ed al petto.
La stessa mattina del rinvenimento dei giovani, il maggiore Grundmann si era allontanato da Lonigo.
La parte conclusiva della verbalizzazione della donna austriaca utilizzata dai tedeschi quale interprete nelle trattative con le autorità locali evidenzia quali fossero le reali intenzioni dell’ufficiale germanico, dietro la parvenza rassicurante e le dichiarazioni bonarie:
Prima di allontanarmi ebbi ancora modo di parlare col maggiore Grundmann, al quale rinnovai preghiera di lasciar liberi i giovani, poiché ritenevo che essi si trovavano chiusi in qualche luogo quali prigionieri. Ottenni sempre dal maggiore le stesse affermazioni ed assicurazioni.
Il Grundmann in compagnia del tenente si allontanò dall’albergo uno o due giorni dopo, di buon mattino. Prima di partire il tenente si rivolse ai 1, suoi due soldati e disse: «Meglio sarà fucilare anche la donna austriaca». Io intesi la proposta, feci una svolta fra i corridoi e mi nascosi in un’abitazione vicina, sino a che i militari non si allontanarono definitivamente.
Non conosco il nome del tenente, né quello dei soldati. Il maggiore Grundmann, a quanto appresi da un soldato, è nativo di un paese della Prussia occidentale o nei pressi di Berlino. Egli parlava bene, con accento berlinese che io conosco bene.
Nel maggio 1946 il maresciallo dei carabinieri di Lonigo concluse le sue indagini, rammaricato che non gli fossero «pervenute richieste di alcun genere, relative all’episodio in questione, da parte di autorità alleate». Era questa una delle situazioni ricorrenti di impulso iniziale all’individuazione dei responsabili che, forte a livello locale, non trovava riscontri ai livelli superiori. L’Ufficio procedimenti contro i criminali di guerra tedeschi stabilì peraltro che «la responsabilità dell’imputato appariva evidente, dato che nella sua qualità di
comandante di battaglione poteva egli soltanto decidere sulla sorte dei 5 partigiani fatti prigionieri, della cui incolumità personale si era, anzi, in un primo tempo fatto garante, come da assicurazione data alle varie personalità che si erano recate da lui per ottenere addirittura il rilascio dei catturati». Si valutò dunque che «dalle prove acquisite agli atti risultano sufficienti elementi di responsabilità a carico dell’imputato, motivi per cui l’istruttoria può ritenersi ultimata». Il fascicolo contro il maggiore Grundmann rimase celato per
mezzo secolo nell’inaccessibile sede della Procura generale militare. Riaperte le indagini, nel 1997 il giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Padova, ritenuto «che la fucilazione di 5 uomini catturati con armi e in atteggiamento ostile alle FFAA germaniche non appare essere atto contrario ai principi di diritto bellico» archiviò il procedimento.
Tratto da
Le stragi nascoste
Di Mimmo Franzinelli
Editore Le Scie Mondadori 2002
Giulio Stocchi Se ne stava così triste
Giulio Stocchi
Se ne stava così triste
il gran re
che l’ospite lacero
ne ebbe pietà
e degli inferi scese
gli infiniti gradini…
Ma la favola di Alcesti
può essere oggi
raccontata così:
Se ne stava così lacero l’ospite
che il gran re ne ebbe fastidio
e agli inferi ordinò che fosse condotto
degli infiniti gradini
Giulio Stocchi L’amico mio caro si chiede se “per far guarir l’Italia”
Giulio Stocchi
L’amico mio caro si chiede se “per far guarir l’Italia”
occorra “spaccar la testa ai sciur”
come dice l’antica canzone
La mia risposta è inequivocabilmente: “Sì”
Senza corpi contundenti però
bensì sconfiggendo
le loro vetrine la loro televisione le loro idee
Perché ciò avvenga occorre che “i non sciur”
comincino a pensare
o quantomeno a pensare diversamente
da come “i sciur” hanno loro insegnato
con le loro vetrine la loro televisione le loro idee
Il difficile è appunto
questo
Chiara Ferrari . Lassù sulle colline del Piemonte
Cantavano i partigiani
Breve rassegna (e breve storia) di alcune famose canzoni della Resistenza,
dei loro testi e dei luoghi dove sono nate
Lassù sulle colline del Piemonte è la trasformazione della canzonetta Laggiù nel paradiso delle Haway da parte di alcuni studenti partigiani milanesi che ne riprendono la melodia. Esiste anche una versione dei partigiani dell’Appennino Emiliano: Lassù sulle colline di Bologna
Per ascoltare
La canzone
Lassù sulle colline del Piemonte
ci stanno i partigiani a guerreggiar
guardando la pianura all’orizzonte
aspettano il momento di calar,
ma un dì pure tu laggiù ritornerai
la mamma e la bella abbraccerai,
ma un dì pure tu laggiù ritornerai
la mamma e la bella bacerai.
Lassù in un lontano casolare
la mamma con le mani giunte sta
pregando per il figlio che combatte
per dare all’Italia libertà
ma un dì pure tu laggiù ritornerai
la mamma e la bella bacerai,
ma un dì pure tu laggiù ritornerai
la mamma e la bella abbraccerai.
Chiara Ferrari – La su quei monti
Patria Indipendente
Cantavano i partigiani
Chiara Ferrari
Breve rassegna (e breve storia) di alcune famose canzoni della Resistenza,
dei loro testi e dei luoghi dove sono nate
Là su quei monti, scritto sull’aria di Là su quei monti c’è un’osteria o Vinassa vinassa, è il canto delle Brigate Giustizia e Libertà attive nella pianura cuneese
Per ascoltare
La Canzone
https://youtu.be/Fa3JFbnx0nU
Là su quei monti fuma la grangia,
dove s’arrangia, dove s’arrangia…
là su quei monti fuma la grangia
dove s’arrangia il partigian.
Il partigiano, l’arma alla mano
guarda lontano, guarda lontano,
con la certezza che porterà
giustizia, giustizia e libertà.
Là su quei monti stanno sparando,
là c’è il comando, là c’è il comando…
là su quei monti stanno sparando,
là c’è il comando dei partigian.
Il partigiano, l’arma alla mano…
Là su quei monti le stelle alpine
crescon vicine, crescon vicine…
là su quei monti le stelle alpine
crescon vicine ai partigian.
Il partigiano, l’arma alla mano…