Guerra di Albania 2°

 

Grazzi presenta a Metaxas l’ultimatum

 

Poco prima delle tre, un lungo cifrato da Roma, indirizzato contemporaneamente al generale Visconti Prasca e al luogotenente Jacomoni, annunciò che proprio in quel momento il nostro ministro ad Atene, Grazzi, stava presentando a Metaxas la nota di Mussolini. lì governo italiano, non potendo piú tollerare che la Grecia favorisse la flotta inglese, chiedeva la facoltà di occupare alcuni punti strategici per tutta la durata della guerra. In caso di resistenza, sarebbe ricorso alla forza. Metaxas aveva tempo per rispondere fino alle sei.

Alle sei meno un quarto, una vaga luce lattiginosa sali dalle montagne, rivelandone appena il profilo. Qualche ago di pioggia zampillava nelle pozzanghere. Un cifrato PAPA (precedenza assoluta sulla precedenza assoluta), proveniente da Roma, fu consegnato a Visconti Prasca da un piantone inebetito dal sonno e spettinato. Il capitano dell’ufficio “C (cifra) tradusse subito in chiaro il messaggio. Cinque minuti dopo, altri cifrati PAPA furono trasmessi ai comandi di Corpo e di divisione.

Giovanni Metaxas aveva risposto che considerava la nota di Mussolini come una dichiarazione di guerra, e che la Grecia era pronta a resistere con tutte le sue forze.

Alle sei e cinque, nel chiarore incerto dell’alba, i battaglioni della “julia” si misero in marcia. Dritto ‘sul ciglio di una mulattiera, il generale Girotti guardava sfilare i suoi uomini. La sua penna candida spiccava contro il cielo di piombo.

I battaglioni andavano ciascuno verso il proprio destino. Fra il “Gemona” e il “Guidale” marciavano alcune centinaia di volontari albanesi, di cui gli alpini, giustamente, si fidavano molto poco. Erano ometti di tutte le età, certuni quasi vecchi altri ancora ragazzi, che parlavano poco, sottovoce, e si arrotolavano continuamente grosse sigarette di tabacco lungo. Balbettavano appena l’italiano, ma in compenso molti parlavano bene il greco e conoscevano il terreno al di là del Sarantaporos. Il piccolo presidio greco di Ponte Perati, costituito da mezza compagnia di fucilieri e da una quindicina di finanzieri, si dileguò sulla strada di Konitza un’ora circa prima che il “Vicenza” e “L’Aquila” arrivassero sul posto. I montanari abruzzesi comandati dal maggiore Fatuzzo trovarono vuota e tutta sottosopra la casermetta rosa dei greci, subito al di là del ponte. Le acque del Sarantaporos erano di un verde profondo e impetuose. Trascinavano arbusti strappati alle pendici dei monti Gramos e qualche pecora morta.

Pioveva a scatti. Gli esploratori alpini, col fiuto della gente di montagna, che dovunque vi siano monti è a casa propria, precedevano cautamente i reparti. Le colonne dirette a Konitza, cinque chilometri dopo Ponte Perati, cominciarono ad avvertire il tuono costante della Vojussa. Il torrentaccio epirota, color del panno militare, schiumava incassato fra rocce torve e spigolose. Gli alpini lo superarono al vecchio ponte di Bourozeni, plumbeo e solitario, fra le selve basse. La strada era abbastanza larga. Era coperta di fango alto quattro dita. Ogni tanto, gli scarponi chiodati affondavano completamente in pozzanghere che parevano laghetti. La colonna attraversò il primo villaggio greco. Una ventina di case che parevano fatte di croccante, abbandonate in fretta e furia dalla popolazione.

Anche le colonne che nel frattempo marciavano una quindicina di chilometri piú a est, in direzione di Furka, incontravano casolari, vuoti come gusci di conchiglia. Il “Gemona” era alle prese con sentieri appena tracciati, che la pioggia trasformava in torrentelli rabbiosi. Da ‘quella parte, le selve erano fitte, impenetrabili. Ognuna di esse poteva nascondere un agguato. Gli esploratori, procedendo a mezza costa, frugavano le macchie con sguardi insistenti, pieni di rancore. Ma non c’era nessuno. Qualche strillo di gazza, qualche fruscio, il rumore lieve della pioggia.

C’era proprio da credere che i greci, nonostante la resistenza a oltranza annunciata da Metaxas, non avessero alcuna voglia di farsi vivi, se nelle prime ore del pomeriggio non si fosse sparsa la notizia, attraverso la misteriosa “radio fante,” che un gruppo di volontari albanesi, a est di Perati, s’era scontrato con una compagnia e aveva combattuto per circa tre ore. Verso mezzogiorno, improvvisamente, i greci avevano cessato il fuoco e si erano dileguati attraverso i boschi, lasciandosi dietro una decina di morti, alcuni feriti e sette o prigionieri. I greci indossavano uniformi marrone scuro e avevano elmetti a focaccia di provenienza inglese. Erano armati di fucili “Saint Etienn,` e di bombe a mano di ghisa, piccole ma pesanti, a frattura prestabilita. Appartenevano a quel 15°Reggimento Tiratori del Pindo che i nostri informatori avevano già avvistato sulla sinistra del Sarantaporos, dove la conca di Furka si apre fra i monti Arina e le alture di Cristobasile.

 

Quello sostenuto dai volontari albanesi fu l’unico combattimento del 28 ottobre. Un po’ dopo il tramonto, il battaglione “Tolmezzo,” zuppo e stanco, raggiunse indisturbato il fondo della val Belica, sotto i monti Gramos, una ventina di chilometri oltre il confine. Il “Gemona” e il “Guidale” si attestarono alle pendici dei monti Stauros, al centro dello schieramento. Il “Vicenza” occupò Amorandos, un paesino di dieci case, dove i pastori erano rimasti con le greggi, ma tacevano fissando le fiamme nei caminetti primitivi. “L’Aquila,” piú in basso, controllava la media valle del Sarantaporos.

Durante la notte si alzò un vento turbinoso. All’alba, scemato il vento, crollarono dal cielo valanghe d’acqua. Valanghe è dir poco. Gli alpini non avevano mai visto una pioggia cosí massiccia, pazza, incessante. Impediva la visibilità, come una fitta nebbia. Sollevava zampilli alti un palmo nelle pozze. Scioglieva la terra e scopriva le radici con la violenza di una manichetta.

” S’è sfondà il ciel l ” disse l’alpino Clant Angelo, masticando un po’ di galletta.

Le colonne si rimisero in moto. La marcia, però, era pesante, incerta. Il fango gommoso cresceva a vista d’occhio sotto quel diluvio. Gli scarponi ne erano come risucchiati. Ogni passo costava fatica. Sarebbe stato quasi meglio combattere, che marcire a quel modo, piantati nella melma. Gli uomini del 9° reggimento, che si movevano su un terreno piú consistente, andavano avanti un po’ meglio. Quelli dell’8° alle prese coi viottoli e coi solchi appena tracciati fra le macchie di corbezzolo e i roveti, in certi punti affondavano fino alle caviglie. Le fasce stavano indurendo sui polpacci. Le mantelline pesavano irrigidite.

 

Assalto alla baionetta

Il 2 novembre, sotto una pioggia muggente, il “Gemona” sbatté di petto, con una certa sorpresa, contro due battaglioni del 7° fanteria greco. Si accesero combattimenti aspri. Il nemico usava bene, al momento giusto, i mortai da 71 di fabbricazione italiana. In qualche punto, si arrivò alla baionetta. Vedendosi bloccato e intuendo che la situazione si sarebbe fatta ancora piú dura, il comandante dell’8* alpini, colonnello Dapino, ordinò al “Tolmezzo” e al “Cividale” di abbandonare l’itinerario in cresta e di scendere a mezza costa. Anche il “Gemona,” piegando sulla sinistra, riusci a sganciarsi. Nel frattempo, il 9° reggimento ripeteva senza successo i suoi tentativi di oltrepassare la Vojussa in piena. Le acque schiumose del fiume, alimentate dalla pioggia diluviante, spezzavano come fuscelli elementi di ponte e passerelle. Diversi soldati e molti muli erano già stati strappati via. Un lungo raglio, una frenesia di zampe, il palpito di una mantellina a fior d’acqua. Piú nulla.

Il giorno 3, sette giorni dopo l’entrata in territorio greco, il nemico attaccò subito, alle prime luci, con forze palesemente superiori a quelle finora avvistate. I tiri di artiglieria, controbattuti qua e là dai pezzi del 3° da montagna, erano insistenti e bene aggiustati. Essendo cessata la pioggia, sulla testa del “Gemona” e del “Tolmezzo,” scuri contro le nuvole grige, volteggiarono alcuni apparecchi da caccia che mitragliarono i costoni a quota abbastanza bassa.

Gli alpini, nonostante la loro saldezza montanara, erano un poco sorpresi da quell’improvviso risveglio nemico, piú violento e aspro d’ogni previsione. I battaglioni, in azione da una settimana, fradici di pioggia, infangati, a corto di viveri, sostenevano ammutoliti la furia dei greci e degli elementi. Fra le truppe di prima linea e le riserve logistiche divisionali, il contatto era sempre piú tenue, difficoltoso. Le salmerie, mandate da Konitza per rifornire i battaglioni impegnati fra Lasmida e Samarina, riuscivano a superare solo in piccola parte la barriera d’acqua e di fango, alto venti centimetri, che le divideva per una ventina di chilometri dalle linee. Il 9° reggimento continuava la sua lotta aspra, disperata, contro il corso travolgente della Vojussa, traboccata dal suo alveo roccioso, torbida di melma e di detriti. Il 4 novembre, mentre le nostre truppe si raggruppavano immobili per raccogliere le forze, in attesa di rifornimenti, i greci ingrossarono. Altri due reggimenti, altre batterie da 105 e da 151, serrarono sotto, provenienti da Metzovo, da Gianina e da Kalabaka. Precise forcelle d’artiglieria e tiri ravvicinati di mortaio scompaginavano le pazienti salmerie in marcia verso le posizioni tenute dall’8° e dal 9%

Il 5, la situazione si aggravò rapidamente. Una decina di battaglioni in uniforme marrone si gettò sul “Gemona” e sul “Cividale,” come una muta di segugi su due cinghiali disposti a vender cara la vita. il nemico, coi suoi movimenti, rivelava chiaramente l’intenzione di inserirsi tra il 9° e l’8°, con la speranza di isolarli. Per un’ora parve che le truppe del colonnello Dapino e quelle del colonnello Tavoni avessero perso contatto. Poi, con un balzo in avanti terribile, il “Gemona” e “L’Aquila” richiusero la falla. La fame, il freddo, lo sfinimento non avevano ancora piegato la “Julia.” Il generale Girotti, contando nei pronti provvedimenti di Visconti Prasca, aveva ordinato: “L’8° tenga duro, il 9′ lo sostenga sulla destra.”

Nel primo pomeriggio del 5, apparvero in cielo alcuni aerei italiani che mollarono rifornimenti sul fango e sulle forre. Viveri e munizioni. Roba preziosa, ma poca.

“Forse torno a trovarte, Rosina!” gridò il caporale Fortuna Francesco, agitando la mano verso gli aerei.

 

L’indomani, 6 novembre, la pioggia ricadde rabbiosa. Con tutto ciò, ondate di greci si abbatterono sugli avamposti dei battaglioni piú impegnati: “Tolmezzo,” “L’Aquila,” “Cividale.” Gli alpini, piantati nel fango, non persero un palmo di terreno. Ma erano ai limiti delle possibilità umane, e il crollo poteva verificarsi da un momento all’altro. Il colonnello Dapino ordinò, quindi, che l’8% sganciandosi progressivamente sulla destra, ripiegasse sul 9°, in modo da formare un blocco unico davanti alla catapulta avversaria. L’operazione si svolse abbastanza bene durante il pomeriggio. Prima di sottrarsi al contatto, il “Tolmezzo” contrattaccò cinque volte, catturando armi e facendo una quarantina di prigionieri. Il “Cividale,” semicircondato, martellato dai mortai da 81, frustato sul fianco dalle mitragliatrici incrociate, fu l’ultimo a ripiegare, verso ìl. tramonto. Il battaglione del tenente colonnello Zacchi aveva perso un buon terzo degli effettivi.

I due reggimenti della “Julia,” moltitudine d’ombre nell’ombra, sì riunirono a notte fatta. Gli uomini barbuti e scalcinati consumarono le ultime scatolette sull’orlo dei fossi, a ridosso delle rocce incombenti. I genieri RT, aggregati al ” Vicenza,” ascoltavano in cuffia, da Radio Roma, la notizia che Roosevelt era stato rieletto da poche ore presidente degli Stati Uniti con 25 milioni e mezzo di voti. Un commentatore politico dalla voce petulante prendeva lo spunto da quell’avvenimento per ironizzare sul prossimo destino delle democrazie.

La mattina dopo, 7 novembre, il Comando Superiore Truppe d’Albania, facendosi vivo per la prima volta, radiocifrò alla divisione alpina l’ordine di ripiegare su Konitza, per bloccare ai greci la strada della Vojussa e l’accesso a Ponte Perati.

“Abbiamo capito,” commentò l’alpino Copetti Giacomo, del “Gemona.” “Il gallo è andato sotto la gallina.”

Infatti, i greci dalla difesa erano passati all’offensiva. Forze valutabili a oltre quattro divisioni stavano premendo contro il confine albanese.

 

 

 

Il 10 novembre, nella sua abitazione di Londra, mori il primo ministro Chamberlain, l’uomo dall’ombrello. Piú o meno alla stessa ora, sotto la pìoggia, i resti dell’8° reggimento alpini, dopo essersi concentrati a Konitza, si incolonnarono per rientrare in territorio albanese. A Konitza, per contrastare il passo alle soverchianti truppe del generale Papagos, restarono il “Vicenza” e “L’Aquila,” un po’ meno provati da quelle due settimane di piombo, fango e famé Il generale Girotti e il suo stato maggiore precedettero l’8°, per provvedere al rifacimento della divisione in una base arretrata. Avanzò, invece, da Erseke, il comando della divisione “Bari,” che verso le 22 prese ufficialmente il comando del settore. Gli alpini del 9° si adattarono mugugnando a prendere ordini dalla fanteria.

Da un primo, sommario bilancio, le perdite della “Julia,” dal 28 ottobre al 10 novembre, ammonta. vano a 49 ufficiali e circa 1700 fra soldati, graduati e sottufficiali. Oltre 400 dei 2316 quadrupedi entrati in campagna erano rimasti sul fango, della Vojussa e del Sarantaporos.

Fra 1’11 e il 14 novembre, mentre il 9° alpini, rimasto fra Konitza e Ponte Perati con l’ordine di resistere a oltranza assieme al 13° fanteria della “Bari,” anche nel settore nord-est, di fronte a Koriza, alcuni reggimenti greci cominciarono a saggiare le posizioni-cerniera tenute dalla “Parma,” dalla “Venezia” e dalla “Piemonte.” Reparti di euzones e di cavalleria alpina (speciale corpo greco dotato di cavalli di piccola taglia, quasi dei ponies, ma robustissimi) riuscirono ad infiltrarsi nelle suture delle tre divisioni di fanteria, fra Bozigradi, Ocisti, Zicisti e Bilisti. Era chiaro che lo sforzo dell’avversario, dopo l’arretramento della “Julia,” stava concentrandosi sulla sinistra del nostro schieramento, nel tentativo di scardinare il dispositivo. Se Papagos, il generale ateniese dall’aria di professore universitario, fosse riuscito a irrompere nella pianura di Koriza, tutte le nostre truppe schierate sul confine rischiavano d’essere aggirate in un paio di giorni.

Nonostante fossero materialmente e psicologicamente impreparati a sostenere quell’urto che il 15 ottobre, a Palazzo Venezia, nessuno aveva, neppure vagamente, messo in bilancio, i fanti delle tre divisioni, distribuiti su quaranta chilometri di fronte, tennero le loro posizioni o le ripresero dopo averle perdute.

Nelle retrovie, i servizi, organizzati per sostenere una rapida marcia in avanti, erano assolutamente inadeguati a quel rovesciamento di situazione. Le attrezzature sanitarie, soprattutto, erano insufficienti. Ospedaletti da campo, posti di medicazione e centri chirurgici che, secondo i calcoli di Mussolini e dei suoi consiglieri militari, avrebbero dovuto assistere un numero irrisorio di ricoverati, si trovarono di colpo sommersi da centinaia e centinaia di feriti, da interminabili file di lettighe, sulle quali uomini dilaniati dalle schegge di mortaio o falciati dalle mitragliatrici si lamentavano di continuo. Dal 7 novembre in poi, i chirurghi in camice bianco ed elmetto non fecero che operare, amputando arti irrecuperabili, suturando tremendi squarci addominali. Ben presto i posti-letto non bastarono piú. I feriti in attesa di assistenza furono sistemati alla meglio sotto tende di fortuna, sotto gli ulivi, sotto le cappotte dei camion, dovunque fossero al riparo dalla pioggia. Nei punti dove gli attacchi greci erano piú massicci e insistenti, le scorte di cotone, di garza e di bende si esaurirono prima che giungessero i rifornimenti richiesti dai grossi magazzini territoriali di Tirana e di Elbassan. I medici ricorsero alle filacce, lacerarono i lenzuoli, strapparono la biancheria. In qualche caso, esauriti gli anestetici e i disinfettanti, si usò la benzina. Attorno alle tende contrassegnate dalla croce rossa, fra giovani corpi stroncati, fra volti pallidi e contratti, i cappellani in grigioverde, con un semplice paramento nero gettato sulle spalle, passavano senza sosta da un morente all’altro, bisbigliando il Miserere. Talvolta, le mazzate dei mortai da 81, precedute da un sibilo di seta stracciata, piombavano sugli ospedali, finivano i feriti, riuccidevano i morti.

 

 

La frettolosa linea Soddu

Il 15 novembre, dopo una notte infernale, piena di vento, di pioggia, di lampi, di schianti, di aloni rossastri diffusi fino alle nuvole dai lanciafiamme, il 13° fanteria, alla sinistra del 9° alpini, cedette alla spinta di truppe fresche. Il “Vicenza” e “L’Aquila,” decimati, stremati da quattro giorni di lotta furibonda, ripiegarono su posizioni arretrate, verso Ponte Perati. Quello stesso giorno, il comando della divisione “Julia” sostituì quello della “Bari” alla testa del settore. Da quel momento, fino al 23 novembre, gli alpini del generale Girotti ebbero il compito di ritardare l’avanzata greca, per consentire al grosso delle nostre truppe di sganciarsi dalla armata nemica e di arretrare di circa sessanta chilometri, su posizioni “prestabilite” che, in realtà, il generale Soddu, mandato da Mussolini a sostituire Visconti Prasca, aveva studiato in fretta e furia. Compito analogo a quello della “Julia” ebbero alcuni battaglioni della “Parma,” della “Venezia” e della “Piemonte.” A partire dal 13 novembre, grossi trimotori tedeschi da trasporto cominciarono a scaricare sul campo d’aviazione di Koriza gli alpini del battaglione “Morbegno” e del battagliere “Edolo,” appartenenti al 5° reggimento, divisione “Tridentina,” mandati a rinforzare la fanteria. Il giorno 16, verso le undici di mattina, i primi proiettili greci da 151 caddero sull’aeroporto, sollevando brusche fumate che il vento subito disperdeva. Il cannoneggiamento, da quel giorno in poi, continuò incessante. Aveva evidentemente lo scopo di distur bare le operazioni di atterraggio e di scarico. Piú di una volta, i greci centrarono in pieno il bersaglio. Decine di alpini, colpiti mentre scendevano dagli aerei, furono subito ricaricati su altri apparecchi e portati indietro, agli ospedali territoriali di Bari o di Ancona. Giovani ‘ di leva, e richiamati, che nel giro di due ore erano partiti dalla patria, avevano attraversato l’Adriatico ed erano tornati indietro feriti, senza aver neppure appoggiato il piede sulla terra albanese.

 

Il siciliano non fu fucilato

 

Nella notte sul 20 novembre cominciò la ritirata su tutto il fronte. Si svolse con ordine, nonostante ogni comando, con quel culto per le suppellettili e per gli ammennicoli personali ch’era caratteristico del nostro esercito, cercasse di caricare sugli automezzi sgabelli, scrivanie, scaffali, perfino trabiccoli per scaldare la branda. Ai militari, fatta eccezione per i furieri, gli scritturali, i magazzinieri e i marcanti visita riconosciuti, era rigorosamente proibito salire sul camion. Qualcuno riuscí a farla franca, nonostante il controllo dei carabinieri, standosene quatto, per 24 ore, sotto casse e tendoni. A Pogradec, mentre una colonna di cento automezzi stava uscendo da un ingorgo a passo d’uomo, un fante siciliano della “Piemonte,” che a piccoli sorsi aveva vuotato una borraccia d’anice, sbucò improvvisamente, ubriaco, dal cassone di un “3 RO,” e gridò con tutto il suo fiato:

“Meletari! Fini la puzzolentissima guerra. A casa, torniamo, dai figghiuzzi nostri e dalle madruzze benedette!”

Fu subito buttato giú dall’autocarro e arrestato. Tirò calci per un po’, poi si afflosciò sul fango. Gli autisti, passandogli davanti, lo guardavano con la coda dell’occhio. Si sparse la voce che un maggiore d’artiglieria, squadrista, invalido dell’altra guerra e volontario di questa, addetto alla disciplina del rupiegamento, ne aveva ordinato l’immediata fucilazione, centro un muro prossimo alla strada. Si seppe in seguito che un maggiore dei carabinieri si era opposto a quella sbrigativa sentenza di morte.

“Qui non siamo a Caporetto,” aveva gridato l’ufficiale della benemerita. “E se lei, maggiore, ci tiene proprio ad ammazzare qualcuno, si tiri un colpo di rivoltella! Se qui c’è qualcuno che deve pagare, sono proprio gli antemarcia come lei

Cosí, il fante siciliano se la cavò con lo spavento, mentre il maggiore dei carabinieri, perseguitato dal rapporti dello squadrista, ebbe grane a non finire.

11 rovesciamento della situazione, da offensiva a difensiva, era stato talmente brusco e inaspettato, che i comandi logistici, commissariato, sussistenza, uffici carburanti, magazzini vestiario, non avevano fatto a tempo, in certi casi, a emettere i necessari contrordini. Capitava cosí che le autocolonne in ritirata incontrassero autocolonne di pasta, vino, farina e scatolette, dirette in senso inverso. Certe volte, l’incontro avveniva in punti dove la strada era cosí stretta e tortuosa, da non permettere ai grossi “Lancia” con rimorchio` il doppio passaggio. Bisognava buttare fuori strada i veicoli carichi di rifornimenti, dopo aver recuperato il piú possibile dei viveri, cospargerli di benzina e incendiarli, affinché l’avversario ne trovasse soltanto i rottami bruciacchiati.

Le borgate e i villaggi che le truppe attraversavano ritirandosi erano sbarrati e silenziosi come cimiteri. Porte e finestre erano macchie nere sui muri bianchicci. Perfino le bestie, nelle stalle e nei cortili, non davano segno di vita. Ma i soldati, marciando in silenzio sui cigli della strada, sentivano che la gente delle case era tutta sveglia, a orecchie tese per seguire i rumori dell’interminabile sfilata. A Udenisti, piccolo paese fra Pogradec e il passo di Lin, una bandiera greca, azzurra e bianca, pendeva dal balcone di pietra di una casa a due piani, dall’aspetto piuttosto signorile. I soldati inveirono, ma senza troppa convinzione, contro quel segno antitaliano.

 

Due carabinieri dalla lucerna grigia bussarono alla porta. Nessuno rispose. Dopo aver esposto la bandiera di Metaxas, i padroni di casa se n’erano andati. I carabinieri staccarono il vessillo con una pertica, lo piegarono accuratamente e stesero un verbale. Risultò che responsabile di quel gesto filoellenico era un ricco possidente della zona, Giorgio Moisci Faraki, accanito antifascista. Si seppe anche ch’era un lontano parente del famoso attore Alessandro Moissi: il quale non era austriaco, come si credeva, ma albanese di Valona, e aveva avuto un fratello ministro delle Poste e Telegrafi di re Zog.

 

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