Internati italiani a Mauthausen

IV
Internati italiani a Mauthausen
(“l’Unità”, 1 settembre 1945)
L’afflusso in massa degli italiani a Mauthausen cominciò negli ultimi mesi del ’43; prima di allora erano già arrivati alcuni italiani assieme a deportati politici francesi e agli antichi combattenti dell’esercito repubblicano spagnolo; con gli uni e con gli altri essi avevano condiviso la lotta a morte contro i nazi e i fascisti, con gli uni e con gli altri venivano ora a soffrire e a morire. Adesso arrivavano però convogli interi di italiani: partigiani, amici dei partigiani, semplici rastrellati, operai scioperanti delle città vicine e via dicendo. Arrivavano a treni e a treni interi. Mauthausen li inghiottiva come una fornace ardente può inghiottire treni e treni interi di combustibile. I convogli più numerosi di italiani furono quelli della fine marzo ’44 e del giugno ’44. Ai grandi scioperi di Torino, di Milano e di Genova seguirono delle deportazioni di migliaia e migliaia di italiani soprattutto da Genova da dove, grazie a Basile, furono mandati a Mauthausen più di duemila lavoratori, e poi arrivavano convogli ordinari, in generale due convogli al mese, uno da Bolzano, uno da Trieste di circa 300 internati.
Cinque, sei, sette giorni di viaggio senza acqua, ammucchiati a 50, 60 in un vagone merce chiuso. Alla stazione di Mauthausen erano accolti dalle S.S. che li ricevevano dalle mani della milizia fascista o della gendarmeria militare tedesca. Incolonnati e avanti, sei chilometri a piedi su per la collina sotto il peso dei bagagli.
La strada saliva e apparivano allora le enormi costruzioni al di là di quelle muraglie rossicce su cui troneggiava l’aquila dal becco rapace. Si vedevano pochi internati nelle immediate adiacenze del campo, non avevano l’aria né troppo denutrita, né troppo depressa appartenevano all’infima minoranza dei privilegiati che avevano l’impiego nel campo) e nel cuore si ravvivava un filo di speranza e di ottimismo. Però il campo non era un campo; cosa sono queste porte gigantesche, queste torri di pietra, questi muri enormi? Ma avvicinandosi alla porta oramai non vi era più il tempo di pensare, bisognava cominciare a camminare a passo ginnastico; e le randellate cominciavano a piovere insieme agli scherni e agli insulti. Randellate che facevano paura perché non si riusciva a comprendere il motivo, la ragione per cui venivano picchiati a casaccio questi uomini che ancora si credevano uomini, che ancora ragionavano come uomini. Ed ecco gli arrivanti ammucchiati là dietro il bagno, a gruppi discendono nel sotterraneo dove ci sarà la doccia, la depilazione, la disinfezione. Un altro gruppo scende nella sala da bagno, è accolto a spinte, a pugni, a insulti. Poi ognuno consegna quanto possiede, denaro, oggetti preziosi e tutti i beni personali; una cosa sola viene lasciata la cinghia oppure le bretelle.

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Mauthausen in attesa del “bagno”

E tu vedi bene che i tuoi oggetti non vanno messi in un sacco o in un deposito ma sono lì, depredati divisi sotto i tuoi stessi occhi tra le S.S. e i vecchi internati che li aiutano; con lapis copiativo ti segnano un numero sul petto e entri per essere rasato completamente e spolverato con un disinfettante. Poi passi alla doccia, e, senza darti il tempo di asciugarti (e con che?) ti cacciano fuori. Mentre passi a casaccio ti gettano una camicia sbrindellata, un paio di mutande lacere e con quelle fuori nella neve, con le scarpe o magari senza scarpe se le tue sono sembrate abbastanza belle per meritare di essere rubate.
Ed ecco i nuovi arrivati ammucchiati nell’angolo di una delle quattro stanze stretti, pigiati; sono lì, circondati dagli aguzzini, criminali di professione, che prendono in consegna la gente dalla S.S. di servizio. E adesso comincia la quarantena, il periodo in cui si farà di questi uomini delle bestie, mentre sistemeranno le pratiche burocratiche per vedere in quale “trasporto” è più conveniente mandarli a lavorare e a morire. Poveri italiani, arrivano per ultimi; le altre Nazioni hanno ormai alcuni di loro che sono riusciti ad impiegarsi (non tutti gli impiegati sono adesso dei banditi professionali) e questi si sforzano di salvare i loro connazionali. Salvare vuol dire cercare di impiegare qualcuno nei servizi del campo, vuol dire farli iscrivere con un mestiere tale che permetta loro di lavorare in una fabbrica di Vienna o di Linz, vuol dire portar loro qualche pezzo di pane o qualche litro in più della immonda zuppa di rape e di patate non sbucciate che gli impiegati fissi del campo riescono a sottrarre con relativa facilità dai magazzini delle S.S. o dalle cucine generali. Poveri italiani che non capiscono né il tedesco né il polacco e a cui nessuno ripete per due volte un ordine sovente tanto assurdo che ti sembrerebbe incomprensibile anche nella tua lingua, su cui piovono subito le gragnuole di colpi.

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