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Giovanni Pianfetti – Nuova canzone alpina partigiana

Giovanni Pianfetti

Nuova canzone alpina partigiana

(Resistenza Jugoslavia)

Fummo mandati in terra straniera

con poche armi e vestiti inadeguati,

ma combattemmo da veri soldati

dimostrando a tutti il valor dell’Alpin.

*

All’Armistizio non cedemmo le armi

ma le impugnammo contro il nemico.

Ci alleammo ai soldati di Tito

Per dare al mondo la "Libertà"!

*

Per quelle rupi, selve e foreste

portammo in alto il nostro "Tricolore";

noi combattemmo per rifarci l’onore,

che il fascismo nel fango gettò.

*

Tra le file dei "veci" e dei "bocia"

si produssero vuoti "paurosi";

eran Ufficiali e Soldati Valorosi,

eran combattenti per la "Libertà"!

Tratto da

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La resistenza a Firenze

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La Resistenza a Firenze

N°2

Naturalmente episodi come questo della fucilazione degli ostaggi non facevano che rinfocolare la lotta, la quale continuò aspra in campagna ed in città.

Difatti — come abbiamo già notato — nei dintorni piú o meno immediati della città, in ogni zona che appena appena offrisse una qualche possibilità, si erano formati raggruppamenti partigiani. Le formazioni fluide di sol­dati sbandati e di renitenti alla leva avevano perso di con­sistenza, per l’abbandono ed il cedimento degli elementi meno consapevoli : le durezze dell’inverno e le prospettive di una guerra piú lunga del previsto aiutavano le defe­zioni. Ma intanto affluivano alle bande elementi politi­cizzati, che fuggivano dalla città perché ricercati: afflui­vano anche commissari politici, ufficiali e tecnici, inviati dal Partito comunista e da quello d’Azione. Le bande quindi, pur riducendo nell’inverno i loro effettivi, gua­dagnarono in mordente e nella serietà degli intenti.

Sorse cosí uno scambio continuo fra la campagna e la città per rifornire i raggruppamenti partigiani di viveri, ve­stiario, armi e denaro. A tale scopo si erano rimediati a Fi­renze alcuni laboratori per falsificare carte annonarie, carte d’identità ed altri documenti, mercé l’aiuto d’impiegati an­tifascisti presso la prefettura ed il comune. E l’intensificarsi di tutta questa attività causava l’intensificarsi della sorve­glianza da parte delle polizie e dei rastrellamenti : da ciò nascevano scontri quasi quotidiani con morti e feriti.

I fascisti nelle loro azioni di repressione si valevano come basi di partenza di quei paesi dove potevano contare su un nucleo organizzato di fedeli seguaci. Come ad esem­pio Montelupo, che fu il primo paese della provincia ad annoverare una sezione del Fascio repubblicano, dimostra­tasi assai attiva nella lotta antipartigiana e nella cattura dei prigionieri alleati, rifugiati nelle zone limitrofe.

Da qui la necessità per gli antifascisti d’ impedire a qualsiasi costo — anche con il terrorismo — il consolidarsi dei repubblichini nei paesi di campagna. Gli scontri fra i singoli uomini ed i gruppi armati erano ormai inevitabili e si facevano anzi di giorno in giorno piú frequenti. Il 2 dicembre sulle colline di Greve una formazione comunista, guidata da Faliero Pucci, fu improvvisamente attaccata da un reparto di fascisti supe­riori di numero, che furono però messi in fuga.Il giorno successivo la cronaca registra lo scontro fra elementi « sovversivi » e militi della « Muti », dei quali due vengono uccisi; è fra essi il pregiudicato Fanciul­lotti . Ma il primo scontro di un certo rilievo ebbe luogo a Valibona, sui monti della Calvana, nella zona dì Prato, ed ebbe come protagonista la banda capitanata da Lan­ciotto Ballerini, banda che faceva parte dì una grande for­mazione operante nella zona del Monte Morello. Questa formazione era rifornita dal P. d’A. ed in diretto contatto col suo comando militare, in modo particolare con Carlo Ragghianti.

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Lanciotto Ballerini

(Medaglia d’Oro alla Memoria)

Lanciotto Ballerini era di Campi, faceva il macellaio. Aveva partecipato come sergente alla campagna etiopica e poi a quella di Grecia; dopo l’8 settembre, con alcuni giovani compagni si ritirò tra i boschi di Monte Morello, dando vita ad una formazione armata del Partito d’Azione. Quando la situazione di Monte Morello cominciò ad ag­gravarsi per i frequenti rastrellamenti, la banda si divise in due : i comunisti raggiunsero la loro formazione di Monte Giovi, mentre Lanciotto avrebbe dovuto raggiun­gere Pippo (Manrico Ducceschi), che, collegato anche lui al Partito d’Azione, comandava una formazione di parti­giani nell’alto pistoiese. Con Lanciotto erano rimasti à partigiani trai piú giovani, compresi anche due prigionieri russi evasi dal campo di concentramento.

Avevano fatto tappa a Valibona, dove si trattennero forse píú del necessario, dato che Lanciotto, avendo saputo l’arresto di due suoi fratelli, voleva tentare di liberarli, anche a costo di organizzare un assalto a « villa Triste ». Traditi da un fattore delle vicinanze, la notte del 3 gen- naio vennero assaliti da una colonna di circa 600 uomini’.

Sorpresi nel sonno, furono circondati nel cascinale e fu loro intimata la resa. 1 partigiani reagirono con pron­tezza : si chiusero in difesa, passarono al contrattacco ed infine tentarono la sortita. Guidati da Lanciotto, riusci­rono a rompere l’accerchiamento dalla parte della mon­tagna, nel settore tenuto dai carabinieri, i meno accaniti ed i meno entusiasti del combattimento. Ma Lanciotto, un ufficiale russo ed altri due partigiani rimasero sul terreno : gli altri riuscirono a mettersi in salvo.

Cosí fu descritta la fase culminante dello scontro da uno dei sopravvissuti, nel rapporto presentato al comando militare del P. d’A. :

… lo personalmente e tutti i superstiti ed i nemici stessi possono testimoniare il comportamento eroico di tutti. Ma la figura emer­gente è stato Ballerini Lanciotto che a testa alta, impavido, audace, temerario con una bomba per mano, inseguiva i nemici mettendoli in fuga e terrorizzandoli — sembrava un eroe leggendario — gri­dava: squadra A. a destra, fuori le mitragliepesanti; squadra B. a sinistra, fuori i mortai d’assalto; avanti contro questi vigliacchi, mettiamoli in fuga — e come un leone eccitato dal combattimento trascinava gli altri — terminate le bombe, imbracciato il moschetto, si gettava verso la mitraglia fascista che lo fulminava a dieci metri — mi trovavo a cinque metri da lui — sparavo con la rivol­tella. Un altro giovane di Sesto, Vandalo, scamiciato, come un garibaldino in piedi correva a destra e a sinistra dove si riunivano i fascisti, fulminandoli a moschettate. Sono stati tutti bravi e dovranno essere fieri di aver preso parte ad un combattimento cosí impari ed in condizioni d’inferiorità come armi, come numero e come posizione… 2. 1

Fu questa la prima battaglia sostenuta dai partigiani che ebbe una notevole risonanza nell’opinione pubblica. Molti furono i morti (sul campo, od in seguito alle ferite riportate) nelle file fasciste, composte da militi di Prato (fra questi si diceva allora che fosse presente e attivo anche il noto campione ciclista Fiorenzo Magni dal battaglione « Muti » e da alcuni reparti di carabinieri.

Né il rastrellamento operato di conseguenza su tutta la zona intorno a Firenze, compresa fra la Calvana e il Monte Morello, distrusse l’attività partigiana. Le forma­zioni disperse si riformarono in zone limitrofe un po’ piú arretrate — come ad esempio il Mugello — e nella primavera successiva passarono all’offensiva, rioccupando il territorio perduto. Comunque, al principio dell’inverno 1944 — nonostante i rastrellamenti ed il crescente rigore della stagione — era lecito affermare che in qualsiasi dire­zione uno si avviasse, poteva imbattersi, entro un breve raggio di territorio, nelle zone controllate dai partigiani.

Erano queste formazioni partigiane che assalivano i convogli dei tedeschi, che interrompevano con atti di sabo­taggio le comunicazioni ferroviarie e telefoniche, che deva­stavano i magazzini di viveri. La loro attività non rientra nei limiti di questo studio e meriterebbe una trattazione organica a parte.

La Resistenza a Firenze

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La Resistenza a Firenze
N°2

Naturalmente episodi come questo della fucilazione degli ostaggi non facevano che rinfocolare la lotta, la quale continuò aspra in campagna ed in città.
Difatti — come abbiamo già notato — nei dintorni piú o meno immediati della città, in ogni zona che appena appena offrisse una qualche possibilità, si erano formati raggruppamenti partigiani. Le formazioni fluide di sol­dati sbandati e di renitenti alla leva avevano perso di con­sistenza, per l’abbandono ed il cedimento degli elementi meno consapevoli : le durezze dell’inverno e le prospettive di una guerra piú lunga del previsto aiutavano le defe­zioni. Ma intanto affluivano alle bande elementi politi­cizzati, che fuggivano dalla città perché ricercati: afflui­vano anche commissari politici, ufficiali e tecnici, inviati dal Partito comunista e da quello d’Azione. Le bande quindi, pur riducendo nell’inverno i loro effettivi, gua­dagnarono in mordente e nella serietà degli intenti.
Sorse cosí uno scambio continuo fra la campagna e la città per rifornire i raggruppamenti partigiani di viveri, ve­stiario, armi e denaro. A tale scopo si erano rimediati a Fi­renze alcuni laboratori per falsificare carte annonarie, carte d’identità ed altri documenti, mercé l’aiuto d’impiegati an­tifascisti presso la prefettura ed il comune. E l’intensificarsi di tutta questa attività causava l’intensificarsi della sorve­glianza da parte delle polizie e dei rastrellamenti : da ciò nascevano scontri quasi quotidiani con morti e feriti.
I fascisti nelle loro azioni di repressione si valevano come basi di partenza di quei paesi dove potevano contare su un nucleo organizzato di fedeli seguaci. Come ad esem­pio Montelupo, che fu il primo paese della provincia ad annoverare una sezione del Fascio repubblicano, dimostra­tasi assai attiva nella lotta antipartigiana e nella cattura dei prigionieri alleati, rifugiati nelle zone limitrofe.
Da qui la necessità per gli antifascisti d’ impedire a qualsiasi costo — anche con il terrorismo — il consolidarsi dei repubblichini nei paesi di campagna. Gli scontri fra i singoli uomini ed i gruppi armati erano ormai inevitabili e si facevano anzi di giorno in giorno piú frequenti. Il 2 dicembre sulle colline di Greve una formazione comunista, guidata da Faliero Pucci, fu improvvisamente attaccata da un reparto di fascisti supe­riori di numero, che furono però messi in fuga.Il giorno successivo la cronaca registra lo scontro fra elementi « sovversivi » e militi della « Muti », dei quali due vengono uccisi; è fra essi il pregiudicato Fanciul­lotti . Ma il primo scontro di un certo rilievo ebbe luogo a Valibona, sui monti della Calvana, nella zona dì Prato, ed ebbe come protagonista la banda capitanata da Lan­ciotto Ballerini, banda che faceva parte dì una grande for­mazione operante nella zona del Monte Morello. Questa formazione era rifornita dal P. d’A. ed in diretto contatto col suo comando militare, in modo particolare con Carlo Ragghianti.
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Lanciotto Ballerini
(Medaglia d’Oro alla Memoria)
Lanciotto Ballerini era di Campi, faceva il macellaio. Aveva partecipato come sergente alla campagna etiopica e poi a quella di Grecia; dopo l’8 settembre, con alcuni giovani compagni si ritirò tra i boschi di Monte Morello, dando vita ad una formazione armata del Partito d’Azione. Quando la situazione di Monte Morello cominciò ad ag­gravarsi per i frequenti rastrellamenti, la banda si divise in due : i comunisti raggiunsero la loro formazione di Monte Giovi, mentre Lanciotto avrebbe dovuto raggiun­gere Pippo (Manrico Ducceschi), che, collegato anche lui al Partito d’Azione, comandava una formazione di parti­giani nell’alto pistoiese. Con Lanciotto erano rimasti à partigiani trai piú giovani, compresi anche due prigionieri russi evasi dal campo di concentramento.
Avevano fatto tappa a Valibona, dove si trattennero forse píú del necessario, dato che Lanciotto, avendo saputo l’arresto di due suoi fratelli, voleva tentare di liberarli, anche a costo di organizzare un assalto a « villa Triste ». Traditi da un fattore delle vicinanze, la notte del 3 gen- naio vennero assaliti da una colonna di circa 600 uomini’.
Sorpresi nel sonno, furono circondati nel cascinale e fu loro intimata la resa. 1 partigiani reagirono con pron­tezza : si chiusero in difesa, passarono al contrattacco ed infine tentarono la sortita. Guidati da Lanciotto, riusci­rono a rompere l’accerchiamento dalla parte della mon­tagna, nel settore tenuto dai carabinieri, i meno accaniti ed i meno entusiasti del combattimento. Ma Lanciotto, un ufficiale russo ed altri due partigiani rimasero sul terreno : gli altri riuscirono a mettersi in salvo.
Cosí fu descritta la fase culminante dello scontro da uno dei sopravvissuti, nel rapporto presentato al comando militare del P. d’A. :
… lo personalmente e tutti i superstiti ed i nemici stessi possono testimoniare il comportamento eroico di tutti. Ma la figura emer­gente è stato Ballerini Lanciotto che a testa alta, impavido, audace, temerario con una bomba per mano, inseguiva i nemici mettendoli in fuga e terrorizzandoli — sembrava un eroe leggendario — gri­dava: squadra A. a destra, fuori le mitragliepesanti; squadra B. a sinistra, fuori i mortai d’assalto; avanti contro questi vigliacchi, mettiamoli in fuga — e come un leone eccitato dal combattimento trascinava gli altri — terminate le bombe, imbracciato il moschetto, si gettava verso la mitraglia fascista che lo fulminava a dieci metri — mi trovavo a cinque metri da lui — sparavo con la rivol­tella. Un altro giovane di Sesto, Vandalo, scamiciato, come un garibaldino in piedi correva a destra e a sinistra dove si riunivano i fascisti, fulminandoli a moschettate. Sono stati tutti bravi e dovranno essere fieri di aver preso parte ad un combattimento cosí impari ed in condizioni d’inferiorità come armi, come numero e come posizione… 2. 1
Fu questa la prima battaglia sostenuta dai partigiani che ebbe una notevole risonanza nell’opinione pubblica. Molti furono i morti (sul campo, od in seguito alle ferite riportate) nelle file fasciste, composte da militi di Prato (fra questi si diceva allora che fosse presente e attivo anche il noto campione ciclista Fiorenzo Magni dal battaglione « Muti » e da alcuni reparti di carabinieri.
Né il rastrellamento operato di conseguenza su tutta la zona intorno a Firenze, compresa fra la Calvana e il Monte Morello, distrusse l’attività partigiana. Le forma­zioni disperse si riformarono in zone limitrofe un po’ piú arretrate — come ad esempio il Mugello — e nella primavera successiva passarono all’offensiva, rioccupando il territorio perduto. Comunque, al principio dell’inverno 1944 — nonostante i rastrellamenti ed il crescente rigore della stagione — era lecito affermare che in qualsiasi dire­zione uno si avviasse, poteva imbattersi, entro un breve raggio di territorio, nelle zone controllate dai partigiani.
Erano queste formazioni partigiane che assalivano i convogli dei tedeschi, che interrompevano con atti di sabo­taggio le comunicazioni ferroviarie e telefoniche, che deva­stavano i magazzini di viveri. La loro attività non rientra nei limiti di questo studio e meriterebbe una trattazione organica a parte.

Armando Amprino (Armand0) Lettere di cndannati a morte

 


sacrificio

È destino dei popoli che il loro cammino
verso la libertà e la giustizia sociale sia
segnato dal sangue dei suoi martiri,
forse perché questo cammino non sia smarrito,
ma chi muore per una causa giusta, vive sempre
nel cuore di chi per questa causa si batte.”


Armando Amprino (Armando)
Di anni 20 – meccanico – nato a Coazze (Torino) il 24 maggio 1925 -. Partigiano della Brigata ” Lullo Mongada “, Divisione Autononia ” Sergio De Vitis “, partecipa agli scontri del maggio 1944 nella Valle di Susa e a numerosi colpi di mano in zona Avigliana (Torino) -. Catturato nel dicembre 1944 da pattuglia RAU (Reparto Arditi Ufficiali), alla Barriera di Milano in Torino – tradotto alle Carceri Nuove di Torino Processato dal Tribunale Co.Gu. (Contro Guerriglia) di Torino Fucilato il 22 dicembre 1944, al Poligono Nazionale del Martinetto in Torino da plotone di militi della GNR, con Candido Dovis.


Dal Carcere, 22 dicembre 1944
Carissimi genitori, parenti e amici tutti,
devo comunicarvi una brutta notizia. Io e Candido, tutt’e due, siamo stati condannati a morte. Fatevi coraggio, noi siamo innocenti. Ci hanno condannati solo perché siamo partigiani. Io sono sempre vicino a voi.       
Dopo tante vitacce, in montagna, dover morir cosí… Ma, in Paradiso, sarò vicino a mio fratello, con la nonna, e pregherò per tutti voi. Vi sarò sempre vicino, vicino a te, caro papà, vicino a te, mammina.                                
Vado alla morte tranquillo assistito dal Cappellano delle Carceri che, a momenti, deve portarmi la Comunione. Andate poi da lui, vi dirà dove mi avranno seppellito.               Pregate per me. Vi chiedo perdono, se vi ho dato dei dispiaceri.
Dietro il quadro della Madonna, nella mia stanza, troverete un po’ di denaro. Prendetelo e fate dire una Messa per me. la mia roba, datela ai poveri del paese.  Salutatemi il Parroco ed il Teologo, e dite loro che preghino per me. Voi fatevi coraggio. Non mettetevi in pena per me. Sono in Cielo e pregherò per voi. Termino con mandarvi tanti baci e tanti auguri di buon Natale. Io lo passerò in Cielo. Arrivederci in Paradiso.
Vostro figlio Armando
Viva l’Italia! Viva gli Alpini




Tratto da
Lettere di condannati a morte
Della
Resistenza Italiana


Einaudi Editore 1952

Le Donne nella Resistenza

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Amelia Galvani Garro Padova Brigata «Sabatucci»

…In quei giorni (dopo l’8 settembre) al Campo di Marte si fermò un treno di Padova, Istituto "P. Selvatico" soldati rastrellati in partenza per la Germania. lo e la mia amica Scapin (part.) decidemmo di aiutarli […] in fretta e furia confezionammo diverse fasce bianche con la croce rossa. Sapevamo che i soldati addetti alla sanità avevano maggiore libertà di movimento. Poi con l’aiuto di mia figlia Carmen e altre belle figliole ci recammo lungo i binari dove sostavano i carri bestiame con le porte aperte. Mentre le ragazze intrattenevano i militari tedeschi di scorta, noi consegnammo le fasce da mettere intorno al braccio ai prigionieri, e così moltissimi riuscirono a fuggire…

Agnese Guzzon Gallocchio, Padova, Brigata «Sabatucci»

Il 28 ottobre ‘43, poiché avevamo ospiti inglesi, subimmo una perquisizione… per fortuna i nostri amici alleati erano fuggiti dal retro della casa… Purtroppo non trovarono alcuna persona disposta ad ospitarli e furono ben presto di ritorno; decidemmo perciò di costruire un rifugio sotteraneo quando il 3 febbraio i fascisti vennero di nuovo ebbero un bel frugare, passando più volte sopra il nascondiglio […] I fascisti della Ettore Muti ritornarono a casa nostra il 27 agosto del ’44, picchiarono a sangue mio padre e lo portarono al loro comando […] da dove fuggì e trovò rifugio in un Convento […] Furenti per lo scacco subito vennero a casa e arrestarono me e mia madre […] condotte al comando della Ettore Muti […] il brigo Ventrella ch’era di animo bestiale mi picchiò per sapere dov’era mio padre […] In cella c’erano altri partigiani […] quattro di loro vennero fucilati a Chiesanuova, dove una lapide ricorda il loro sacrificio. Noi dovevamo subire la stessa sorte ed eravamo già pronte sul camion, quando il comandante decise di inviarci al carcere dei Paolotti, dove rimanemmo più di 70 giorni: Là eravamo molte detenute politiche…

Teresa Martini Redetti, Padova, Brigata «Pierobon»

L’8 settembre […] ci vide tutti impegnati, soprattutto noi donne,nell’opera di assistenza ai soldati sbandati […] e ai prigionieri alleati […] Si costituì ora una rete clandestina per farli espatriare in Svizzera con documenti falsi e il Padre Placido Cortese dei Frati di S. Antonio fu tra gli organizzatori il più importante. A quest’opera di solidarietà partecipai entusiasta.. Padre Placido per truccare i documenti toglieva dagli ex voto le foto cercando le rassomiglianze con i partigiani e gli ebrei. La via per la Svizzera da Padova passava per Milano […] Il 14 marzo del ’44 la mia attività e quella di mia sorella vennero stroncate: […] vennero due agenti delle SS tedesche che ci arrestarono […] Giungemmo quasi all’alba a Mathausen e ci rendemmo conto della penosissima realtà; dopo i consueti rigorosi controlli e visite mediche ci raparono a zero e iniziò la nostra vita nelle baracche…

Maria Zonta, Padova, Brigata «5abatucci»

…A quindici anni entrai a lavorare come apprendista nella fabbrica della Snia Viscosa […] nell’aprile del ’44 i salari erano bassi… eravamo costretti ad acquistare al mercato nero a prezzi paurosi […] con tutte le mie compagne di lavoro decidemmo di chiedere l’aumento […] ci dimezzarono il cottimo […] il 10 mattina decidemmo di iniziare lo sciopero, che durò più giorni […] il giorno 20 vennero a casa mia due fascisti in divisa e due tedeschi delle SS, mi arrestarono e mi condussero a Venezia nel carcere di S. Maria Maggiore… i16 ottobre venne deciso il nostro invio in Germania […] Durò cinque giorni e cinque notti. A Berlino subimmo anche un bombardamento e infine giungemmo a Ravensbrück […] A me parve di entrare all’inferno […] le baracche erano incatramate e le strade nere per il fumo dei camini del forno crematorio…

Tratto da

http://www.anpi.it/storia/196/le-donne-nella-resistenza

Donne nella Resistenza

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Anna Bilato Zanella, Cadoneghe, Brigata «Sabatucci»

…Giunse poi 1’8 settembre con tutte le disastrose conseguenze ed insieme alle compagne allora provvedemmo a vestire in borghese i soldati che erano stati abbandonati […] Bisognava poi risolvere il problema dei prigionieri inglesi, neo-zelandesi e russi che, scappati dai campi di concentramento italiano, cercavano rifugio nelle case di campagna […] molte brave persone ebbero il coraggio e la bontà di ospitarli ed assisterli, consapevoli di rischiare la fucilazione, com’era scritto nel bando del comando tedesco e fascista affisso sui muri […]. Il mio lavoro (di staffetta clandestina di stampa, messaggi in codice, medicinali) continuò fino al novembre del ’44

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[…] venni fermata in un recapito di Padova, ma per fortuna non portavo niente di compromettente. Dovevano però sapere molte cose sul mio conto, perché a Palazzo Giusti, dove mi condussero i fascisti, continuarono a interrogarmi (soprattutto il Corradeschi) con percosse per obbligarmi a parlare. Sono noti ormai i sistemi adoperati dai criminali della banda Carità.

Franca Decima Proto, Padova, Brigata «C. Lubian»

…le trasmissioni di radio Londra e la stampa clandestina erano le uniche fonti [di] informazione […] s’inseriva una voce che diceva; "trasmettiamo ora alcuni messaggi speciali" si trattava in apparenza di frasi senza senso il cui significato era capito solo dai partigiani: "il nido delle aquile", "la dott~ina segreta" […] Quando questo avveniva, partivo subito per avvisare Fraccalanza,che abitava in una frazione vicina, egli poi organizzava il gruppo…

Taina Baricolo Dogo, Padova, Brigata «S. Trentin»

Venne il giorno dell’annessione dell’Austria alla Germania di Hitler. Al liceo l’avvenimento ci venne comunicato con poche gravi parole dal professore di storia […] quasi intuitivamente costruimmo il legame tra il contenuto delle lezioni teoriche […] e la realtà minacciosa che sentivamo incombere […] All’università la strada naturale fu quella dell’opposizione alle adunate e alle riunioni del Guf […] Dopo 1’8 settembre, quando mi venne affidata una borsa piena di manifestini da distribuire velocemente in vari edifici di Padova, fui felice di fare qualcosa anch’io… entrai a far parte della brigata Trentin… il 3 gennaio 1945 fui arrestata da «quelli della Banda Carità» e portata a Palazzo Giusti, dove ritrovai professori, compagni di scuola e, con viva sorpresa, anche personaggi inattesi che io pensavo appartenessero all’altra sponda…

Milena Fimiani Valle, Padova, Brigate «Ferretto» e «Mazzini»

…i contatti più frequenti li avevo a Venezia con un compagno che aveva un negozio di cosmetici […] In montagna, con la brigata Mazzini, la cui base era al rifugio Mariek sul monte Cesen […] nel rifugio ho conosciuto Fanny Mora e Angiolina Morona, che a volte fungevano da staffette… alla sera prima di coricarci aggiustavamo i vestiti dei partigiani, da loro ho imparato come si applicano le toppe ai pantaloni […] Verso la fine di agosto i partigiani occuparono Miane, Follina, Pedeguarda, Solighetto; dopo alcuni giorni da parte tedesca e fascista iniziò una vasta offensiva, con incendi di case e fienili. A Miane le donne riuscirono con coraggio e tempestività a domare il fuoco…

Vittoria Foco Zerbetto, Padova, Brigata «Sabatucci»

La nostra casa era punto di incontro e luogo di riunione per i compagni […] dopo il ’42 […} iniziai l’assistenza clandestina ai prigionieri di guerra slavi degenti all’ospedale di S. Antonio a Monte […] affetti per lo più da tubercolosi…

Tratto da

http://www.anpi.it/storia/196/le-donne-nella-resistenza

Alfonso Gíndro (Mirk) – Lettere di condannati a morte della Resistenza Italiana

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È destino dei popoli che il loro cammino

verso la libertà e la giustizia sociale sia

segnato dal sangue dei suoi martiri,

forse perché questo cammino non sia smarrito,

ma chi muore per una causa giusta, vive sempre

nel cuore di chi per questa causa si batte.”

Alfonso Gíndro (Mirk)

Di anni 22 – meccanico – nato a Torino il 14 giugno 1923 -. Partigiano nella formazione G.A.P. « Dante di Nanni » — Arrestato il 19 gennaio 1945, in una casa di Torino, da elementi dell’U.P.I. – Fucilato l’11 febbraio 1945 al Poligono Nazionale del Martinetto in Torino, da plotone di militi della. G.N.R., con Giovanni Canepa, Rubens Fattorelli, Nello Meneghini e Lorenzo Viale.

Torino 11.2.1945

Mamma adorata,

sono 21 giorni che sono detenuto in carcere, finalmente si sono decisi a fare il processo. Durò otto ore. Durante l’istruttoria avevo in me una calma straordinaria, al fine di tutto venne letta la condanna, non vorrei dirtelo, ma verresti a saperlo ugualmente pel fatto che verrà pubblicato sui giornali. Mamma adorata, purtroppo la sentenza è risultata in nostro sfavore, siamo stati condannati alla fucilazione. Mamma adorata, non piangere per il mio triste destino, forse era così segnato. Sii forte, così come fui io e come lo sono tuttora e nulla varrebbe rimpiangere.

Mamma adorata sii fiera di tuo figlio che diede la vita per un giusto ideale e per una santa causa che si sta combattendo e che presto splen­derà alla luce di una grande vittoria. Non posso rimpiangere la mia esistenza così fulmineamente troncata per il volere di gente che non è sazia dei loro nefandi delitti. Penso a te mamma adorata, penso al tuo straziante dolore, ma sii forte e coraggiosa avanti a tutto.

Mamma adorata ti chiedo perdono se a volte ti ho dati dispiaceri, ma la mia giovane età non poteva ancora ragionare, cercavo in questa mia vita di fare tutto per un popolo, e infine per te stessa cosicché almeno potevi passare questi anni della tua vecchiaia in una pace serena dopo tutti i dispiaceri passati, ma vedi come è il destino

Non mi è stato possibile raggiungere ciò che desideravo.

Ti chiedo perdono se non ho ascoltato i tuoi saggi consigli, ma la mia turbinava in un vortice di idee. Mamma perdonami, forse a quest’ora potrei essere al tuo fianco a renderti meno dolorosa la vita del tuo calvario. Mai come in questo momento il mio pensiero à a te vicino. Mamma adorata queste sono le ultime mie parole, sii forte, sii forte.

Ricevi un forte abbraccio e tanti baci da chi sempre ti pensa e non cesserà di pensarti. Addio, tuo figlio

Alfonso

Mamma adorata,

come già tu sapevi che noi dobbiamo essere fucilati, purtroppo il destino è stato avverso. Mamma adorata sii forte e fatti coraggio.

Non rimpiango la mia giovane esistenza così troncata improvvisa­mente. Penso a te mamma carissima, penso al tuo strazio, come ti dico sii forte, e non piangere la mia morte, cosi come sono forte io, benché sappia quel che mi aspetta. Sii forte, ricevi l’ultimo abbraccio da tuo figlio

Alfonso

 

Tratto da

Lettere di condannati a morte

Della

Resistenza Italiana

Einaudi Editore 1952

Livia Borsi Rossi – Le donne nella Resistenza

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Livia Borsi Rossi

 

(…) All’8 settembre ero all’ospedale, perché avevo avuto un aborto, non fatto da me, ma casuale. Sento gridare, gridare, gridare. Mi son presa paura, mi sono messa la vestaglia, sono scesa sotto. C’erano dei camion carichi di militari: chi era senza una gamba, chi ferito alla testa. «Assassini! Fino a mezzanotte ci sono stati amici, hanno giocato con noi alle carte », raccontavano questi militari, «poi ci hanno sparato addosso come a delle bestie! » Erano i tedeschi che li avevano assaliti. (…) Ho domandato il permesso di andarmene, perché avevo tre figli, e sono tornata a casa.

 

(…) Un giorno i tedeschi, ubriachi, vanno nel bar li a Teglia, rompono tutto, poi vengono su in casa mia: hanno aperto i cassetti e buttato all’aria di qua e di là le cose che c’erano dentro: cercavano, ma non han trovato niente. E han preso mio marito, l’hanno portato giù dove avevano il Comando e gli han dato tante di quelle botte, tante di quelle botte! C’era sangue dappertutto; io dicevo a mio figlio: «Guarda, è tutto sporco di sangue; vedrai che l’hanno ammazzato papà! » I bambini gridavano. Quella notte non ho dormito in casa: siamo scappati e siamo andati a dormire alla Croce azzurra di Barabino, che era la Pubblica assistenza. Sono andata là e gli ho detto: «I tedeschi hanno preso mio marito, l’hanno picchiato, io non so dov’è, per non stare in casa sono venuta qua». Ci siamo alloggiati li io, Ernesto, la Delina, mia sorella e mio padre, che aveva settantott’anni. (…) L’indomani mattina sono venuta via dalla Croce azzurra, perché avevo anche paura che facessero del male a quei ragazzi dell’Assistenza: avevo la testa sul collo, pensavo a queste cose. Vado dalla bottegaia vicino a casa mia, che mi dice: «Di suo marito io non so niente». Allora mio figlio si fa coraggio ed entra in casa. Trova un biglietto nascosto, con scritto: «Sono all’ospedale».(…) Era tutto rotto, l’avevano massacrato: una costola fracassata, un braccio a pezzi. Venticinque giorni l’han tenuto all’ospedale! Allora ho domandato ai miei compagni del partito cosa dovevo fare. Perché avevo già cominciato a portare delle munizioni. Su un monte vicino a Genova i nostri militari avevano lasciato delle munizioni, e mio figlio Ernesto, che aveva sedici

anni, e mia figlia Delina, che ne aveva quattordici, me le portavano in casa, alla villa Rosa, dove c’erano i tedeschi. Avevano un coraggio da leone. Io rischiavo: da casa mia, passando sotto il naso ai tedeschi, portavo queste munizioni a Teglia in casa di una che si chiamava i Checca, e poi veniva a prenderle suo cognato, che stava a Cornigliano, e andavano a finire nelle mani dei partigiani di città, i gappisti. Buttavano le bombe sui treni, procuravano le armi, facevano colpi di mano, i gappisti: erano in pericolo più degli altri. La prima volta ho portato quaranta chili di balistite, a sacchetti, due per volta, e a casa della Checca c’erano anche la Colomba e la Parma, che erano due donne che stavano in quella scala, ed è stato quando hanno fatto il primo sciopero, nel dicembre del ’43. Un giorno Ernesto mi ha portato un mucchio di caricatori, e io ho portato anche quelli. Mio marito non ha mai saputo niente: lui non sapeva quel che facevo io, e io non sapevo quel che faceva lui; perché anche lui c’era. Io mi domando delle volte come ho fatto ad avere un coraggio simile. Si vede che poi qualcheduno ha fatto un po’ la spia ed è magari per questo che hanno preso mio marito e l’hanno picchiato. Quando ho domandato ai compagni cosa dovevo fare, m’han detto: «Per il momento stai ferma, perché potrebbero pedinarti…»

 

(…)Una sera, ai primi di luglio, ammazzano un repubblichino, che stava poco distante da me. L ‘hanno ammazzato che erano le 8 e tanti, vicino al palazzo di Nasturzio. Io ero andata in galleria a portare la mia bambina più piccola, perché lei ed Ernesto dormivano là: quella era una galleria grande, e la gente ci dormiva anche. Invece la Delina stava a dormire con me: era come me, non aveva paura di niente. Alla mezzanotte arriva la squadra d’azione, e spara di qua, spara di là. Uno che abitava in un palazzo vicino alla villa Rosa ha sentito quel rumore, è andato alla finestra nel sonno, gli hanno sparato, e gli hanno staccato la testa. Un altro era ferito da una bomba e gridava: «Aiuto! aiuto! » ma nessuno si muoveva, perché avevano paura. Tutti gli uomini scappavano dalla parte dietro del palazzo, dove c’era un seminato, per non esser presi. Picchiano alla porta di casa mia e mi cercano. «Sta qua Borsi Livia?» Ho aspettato un po’ per non far vedere che ero sveglia e ho detto: «Sì». «Apra la porta. Siamo le…» Non mi ricordo più cos’han detto. lo ho aperto la porta. Erano repubblichini. «Chi è Borsi Livia? È lei?» «Io». «Si vesta, venga con noi».

 

 

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Lidia Beccaria Rolfi–Donne nella Resistenza 3

Lidia Beccaria Rolfi

(…) Ora la guerra, anche se è lontana, incomincia a piacermi sempre di meno; capisco che è un grosso pericolo per chi va e una grande «fregatura» per chi resta. Ho appena sedici anni, ho ancora tante idee confuse, ma i fatti mi portano a riflettere. (…) Gli entusiasmi patriottardi di tre anni prima sono caduti da tempo: porto la gonna pantaloni della divisa per andare in bicicletta, non partecipo più agli ultimi cortei. Il 10 maggio,a scuola, strappiamo il cartello «Vincere» che è appeso nell’aula e alcuni compagni portano una cravatta rossa e un garofano rosso all’occhiello. (…) Mi diplomo, il 31 maggio, senza gioia. Il 25 luglio lo ricordo ancora adesso come un giorno straordinario. È il giorno in cui scopro la libertà, intesa per ora solo come libertà di parlare. Mi illudo che la caduta di Mussolini voglia anche dire fine della guerra per l’Italia. Le mie reazioni, anche se sono nella direzione giusta, sono soltanto reazioni istintive alla tragedia della guerra, alle sofferenze che vedo attorno a me, alle morti che hanno colpito i soldati al fronte e i civili in città. Non c’è ancora una presa di coscienza sulla realtà della situazione italiana e sul fascismo. Questa presa di coscienza verrà molto più tardi.

L’8 (…) nel pomeriggio, non appena si sparge la notizia dell’armistizio, le strade di accesso alla città diventano teatro di un fuggi fuggi generale: la gente scappa dalla fiera intasando le vie con ogni mezzo di trasporto: birocci, carri, biciclette. La maggior parte però scappa a piedi. Non si sa bene perché scappi: è impaurita dall’ignoto, dai “si dice”, dalle voci che si diffondono e che annunciano l’arrivo imminente delle truppe tedesche. Si è già individuato nel tedesco il nemico di ora, anzi il tedesco ridiventa «il nemico» naturale, quello che la gente comune non ha mai digerito, nemmeno al tempo dell’Asse.

Alla fine di ottobre ricevo la mia prima nomina come insegnante elementare: sono destinata a Torrette di Casteldelfino in valle Varaita. Raggiungo la sede il 16 novembre e la sera stessa, all’albergo dell’ Angelo di Sampeyre, incontro alcuni ebrei fuggiti da Saluzzo, da Torino, e sento parlare del campo di concentramento per ebrei a Borgo San Dalmazzo. La notizia mi sconvolge. Nei quindici giorni successivi conosco alcune persone che avranno un peso determinante nella scelta che farò. Conosco «Medici» (Morbiducci) e «Rubro» (Terrazzani). Incomincio a collaborare con loro.

Divento la staffetta di «Medici» e poi di «Ezio» (Bazzanini), imparo a montare bombe a mano, che preparo alla sera al lume di un lanternino a petrolio, affronto il primo rastrellamento nel dicembre (i tedeschi arrivano con pochi mezzi fino a Casteldelfìno) con una cassa di bombe sotto il letto. Trascorro l’inverno in valle, facendo la spola a volte in bicicletta, più spesso a piedi o in corriera, fra la valle e Saluzzo, affronto rischi, pericoli, posti di blocco e spie con la beata incoscienza dei diciotto anni, spesso ascolto «Medici» parlare, raccontare a noi che siamo più giovani e che lo ascoltiamo increduli, la vera storia della rivoluzione bolscevica, della guerra d’Abissinia, della guerra di Spagna e delle responsabilità del fascismo. Seguo perplessa i suoi discorsi: a volte stento a capire. Le argomentazioni contro i tedeschi mi convincono di più: le ho già sentite sei mesi prima, quando i reduci sono tornati dalla Russia e hanno raccontato.

Dalla pianura arrivano giorno per giorno notizie di rappresaglie e morti: ho visto Cerreto bruciare un mattino, arrivando da Cuneo. Alla fine di marzo, quando già le formazioni partigiane hanno raggiunto una certa forza e si stanno organizzando, quando in valle ha fatto la sua comparsa «Ezio» e il movimento si sta estendendo con azioni quasi quotidiane in pianura, i tedeschi e i fascisti iniziano il rastrellamento a tappeto della valle. Vedo i primi morti, due soldati meridionali sbandati, uccisi come cani a Venasca, vedo i partigiani fucilati a Melle. «Ezio» mi ordina di andarmene dalla valle che pullula di spie. Torno a casa e rientro, come eravamo intesi, dopo una decina di giorni, quando ormai i tedeschi se ne sono andati e in valle non sono rimasti che pochi presidi della Gnr (Guardia nazionale repubblicana) di Bergamo.

Rientro l’11 sera e trascorro la giornata del 12 passeggiando per la montagna, con la speranza segreta di trovare qualche compagno. Verso le 8, quando è già buio, Gianni Ferrari, un partigiano giovane, lombardo credo, bussa alla mia porta, si ferma una mezz’ora per avere notizie e rifocillarsi, e riprende la marcia per raggiungere la valle Maira; due ore dopo altri quattro partigiani, venuti a conoscenza del mio rientro, mi raggiungono, entrano a mangiare un boccone e ripartono quasi subito anche loro per la valle Maira. Li accompagno per un pezzo, lungo la strada che conosco bene, e rientro nella notte. Il mattino dopo, alle 6, quattro militi della Gnr di stanza a Sampeyre mi svegliano, perquisiscono la mia camera, buttano all’aria tutto, rovistano, urlano, poi mi trasferiscono, a piedi, con le mani legate, all’albergo dell’Angelo dove ha sede il Comando. Mi interrogano per un giorno e una notte, mi torturano, cercano di spaventarmi con minacce di morte, mi fanno sfilare davanti il plotone di esecuzione; il comandante, il tenente Vicentini di Mantova (così mi ha detto di chiamarsi), assume in proprio l’onore e l’onere di picchiare a sangue «un’indegna spia del nemico che collabora con banditi ribelli», poi mi lega a una sedia e il mattino dopo mi fa caricare, legata come un salame, su una camionetta.

Mi portano a Cuneo, prima dal prefetto poi in carcere, e il giorno seguente, per ordine del prefetto, che ne ha dato l’incarico al tenente colonnello Carlo Sciavicco della Gnr, sono consegnata nelle mani della Gestapo che mi trasferisce a Saluzzo nelle carceri giudiziarie. Per gli interrogatori vengo condotta in una villa isolata alla periferia della città: la Gestapo mi interroga per due giorni, poi si disinteressa di me. Rimango in carcere dieci giorni, in una cella enorme con detenute colpevoli di reati comuni, infine mi trasferiscono, il 24 sera, alle carceri Nuove di Torino. Il giorno successivo subisco l’ultimo interrogatorio all’albergo Nazionale di Torino, da parte del capitano Schmidt, firmo un verbale scritto in tedesco e tradotto da un interprete, in cui continuo a negare ogni addebito, mi comunicano che sono condannata a morte, poi mi riportano in cella e non si occupano più di me. Rimango alle Nuove per circa tre mesi. (…)

La notte fra il 25 e il 26 giugno i tedeschi prelevano me e altre tredici detenute dalle celle e ci accompagnano nella camera adiacente allo studio di suor Giuseppina, la madre superiora. È lei stessa che ci comunica con le lacrime agli occhi che saremo deportate in Germania dove «andremo a lavorare». Ancora nella notte ci caricano su un camion e all’alba ci trasferiscono a Porta Nuova e ci chiudono in un vagone bestiame, agganciato ad altri vagoni strapieni di uomini, giovani quasi tutti, in tuta blu e scarpe bianche da ginnastica, partigiani o rastrellati o segnalati durante lo sciopero del marzo’ 44 e tutti destinati, come lavoratori coatti, all’industria tedesca. Sullo stesso treno, durante una sosta del viaggio, vedo un compagno partigiano della mia valle, Gianni Negro. Cerco stupidamente di attirare la sua attenzione senza rendermi conto del pericolo a cui lo espongo. Mi vede e mi fa un cenno. È l’ultimo saluto di una persona amica.

Viaggiamo per quattro giorni e quattro notti nel vagone chiuso. Ci aprono per i bisogni fisiologici solo a rari intervalli e solo dopo che il treno ha varcato la frontiera del Brennero. Nella stazione di Chemnitz, di notte, subiamo un bombardamento aereo chiuse nel vagone. Il nostro treno non è colpito. Staccano i vagoni degli uomini e proseguiamo sole, sempre in vagone piombato, fino a Berlino; e qui, scortate da SS, ci trasferiamo in metropolitana a un’altra stazione della città. Siamo un piccolo gruppo miserabile di quattordici donne, sporche e stanche, con fagottini di effetti personali e con gli ultimi resti dei viveri che ci ha dato alla partenza suor Giuseppina. Ci accompagnano due SS stanchi come noi, ma non suscitiamo nessun interesse nella folla della metropolitana. I tedeschi sono abituati a questo genere di spettacolo e ci ignorano. Ci caricano su un vagone passeggeri e dal finestrino scorgiamo il paesaggio, dopo giorni di viaggio alla cieca.

Il treno sembra andare verso Nord, passa in una pineta fitta, poi attraversa un paesaggio ondulato e penetra ancora in una pineta. La scarpata rivela un terreno sabbioso, i pini si fanno meno fitti, il paesaggio diventa brullo, desolato, non si vedono case. A una stazione, dopo trenta, quaranta chilometri circa, salgono nello scompartimento delle donne in divisa con un numero e un triangolo a punta (…) A una fermata successiva, in una stazioncina piccola di cui riusciamo a leggere il nome Fürstenberg -, ci fanno scendere e ci ordinano di camminare. Le donne vestite a righe ci precedono. Ci avviamo per una strada che costeggia un lago, la strada è lunga e i bagagli, pur scarsi, pesano. Arriviamo stanche davanti a un muro altissimo, nero, che si estende a perdita d’occhio. Nel muro si apre un portone sormontato da torrette, ci sono tante donne in fila che varcano il portone, mentre soldati SS le contano.

Varchiamo il portone anche noi; i due SS che ci hanno accompagnato tornano indietro dopo aver consegnato a un SS sul portone una cartella: i nostri dossier. Siamo a Ravensbrück. Siamo il primo trasporto di donne italiane che arriva a Ravensbrück. È la sera del 30 giugno del ‘44.

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Bianca Paganini Mori – Donne nella Resistenza

 

 

 

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Le Donne nella Resistenza

n2°

Bianca Paganini Mori

 

(…)Noi ragazzi studiavamo ed eravamo diventati quasi tutti studenti universitari. Per forza di cose, eravamo iscritti alle organizzazioni scolastiche del regime, perché altrimenti non saremmo potuti andare a scuola, però non eravamo attivi seguaci delle teorie fasciste, pur non avendo altre idee politiche: eravamo ancora troppo ragazzi e non potevamo avere, evidentemente, idee politiche. Tuttavia la più completa estraneità che regnava in casa verso il partito fascista era diventata anche nostra, e padre e madre ci avevano insegnato e abituato a pensare in una maniera talmente libera che non potevamo intimamente aderirvi. Scoppiò la guerra e mia madre ci portò, per difenderci dai bombardamenti cui La Spezia era continuamente sottoposta, a San Benedetto.

 

Restare in città era pericoloso anche per un altro motivo: la mia mamma era stata colpita da un terribile male al cuore, un grave scompenso cardiaco. Sicché lassù ci colse 1’8 settembre del 1943. Fu un evento drammatico. Mi ricordo che la sera di quel giorno la piazzola del paese, la strada, erano affollate, e l’annunzio colse un po’ tutti di sorpresa. (…) Mia madre si alzò, andò alla finestre a disse: «Qualcosa sta succedendo». Allora ci alzammo e ci vestimmo tutti, e andammo a vedere: stavano passando file, ininterrotte, di carri armati, di automezzi, di soldati, tedeschi, diretti verso La Spezia.

 

La mattina molto presto io e il secondo dei miei fratelli, Alfredo, partimmo per la città: volevamo sapere che cosa era successo. Arrivati giusto a La Foce, che è un valico che precede La Spezia, cominciammo a vedere tedeschi che, occupato il valico, fermavano le persone in divisa, toglievano le mostrine agli ufficiali, li schiaffeggiavano. A un generale sputarono addirittura in faccia. Ci fermammo, e mio fratello cominciò a dirmi: «Torniamo indietro», e: «Bisogna portar via ‘sta gente». Ormai a La Spezia non si poteva più andare: quelli che arrivavano su dalla città, dicevano che i tedeschi l’avevano occupata, avevano bloccato la stazione e le strade. E allora prendemmo con noi quelli che potevamo prendere e li guidammo attraverso la montagna verso Riomaggiore, che è la stazione proprio alle spalle della nostra montagna, perché potessero prendere il treno.

 

Questo già il 9 settembre. Subito, intanto, durante la stessa mattinata, i soldati che erano nella vallata a 50, a 100 metri da noi, avevano cominciato a scappare: avevano saputo quello che stava succedendo: che i tedeschi caricavano e portavano via su camion i militari, prigionieri. E allora, bisogna che dica la verità, tutte le case del paese si aprirono: chi dava una camicia, chi un paio di scarpe, chi una giacca, chi un paio di calzoni a questi poveri ragazzi; e qualche soldo, anche, per il viaggio. Li si accompagnava per un tratto o gli si insegnava la strada dei boschi, affinché evitassero la strada principale. Cercammo tutti, immediatamente, di aiutarli. Mio fratello Alberto, il maggiore, era tenente degli alpini a Brunico. Il 9 settembre si trovò con l’ordine di bloccare il valico: aveva una mitragliatrice in mano e sei alpini. Pensò: «Da solo non ce la faccio». Vista la mala parata, scappò, come tutti quanti gli altri. Dapprima si unì a un gruppo di alpini e di ufficiali degli alpini nel Trentino. Poi però, sapendo che a casa c’erano quattro ragazzi con la mamma sola, cercò disperatamente di ritornare. Ci impiegò un mese, però ci riuscì. E immediatamente si mise in contatto con altre persone e gruppi di La Spezia che già conoscevamo, per esempio con il colonnello Fontana, non solo per non obbedire alla Repubblica di Salò, ma anche per organizzare una resistenza.

 

Ci si cominciò a organizzare. Pochi, da principio. Mamma non posso dire che fosse felice di questo. Vedeva evidentemente il pericolo, perché non era una sciocca, però non interferì mai in quello che volevano fare i suoi ragazzi, soprattutto il maggiore. Anche perché aveva fiducia.

 

Dirò di più: non solo non si oppose, ma ci seguì. Alfredo, come soldato di sanità, era a Genova: continuava l’Università, frequentando il sesto anno di medicina. Dopo che si furono costituiti i primi nuclei di partigiani, ai primi di gennaio venne via da Genova e si uni anche lui a quei gruppi.(…) Passavano praticamente tutti di li quelli che dovevano andare in montagna, e li venivano accolti. Gli si dava da mangiare, quel poco che avevamo. Alfredo li accompagnava, poi ritornava giù. Noi ragazze si faceva quel che si poteva: gli si preparava da mangiare, li si puliva.

 

Eravamo proprio ragazze, allora. C’era un posto di blocco a La Foce, e un posto di blocco proprio a San Benedetto, e il bello si è che in mezzo a questi posti di blocco noi giravamo impunemente. Bice, per esempio, che era

impiegata a un pastificio di La Spezia, molto spesso la sera arrivava su con un camioncino sul quale c’erano farina e pasta, e faceva passare il posto di blocco, senza che nessuno dicesse niente, al camioncino con quella farina e quella pasta, che poi arrivavano in montagna.

 

Ricordo che una volta io salii su con tre o quattro bombe a mano nella borsa, e la borsa me la portò un repubblichino. «Come pesa ‘sta borsa!» «Sa, ho trovato delle castagne, delle patate! » E me la portò lui, fino a casa. Altre volte scendevamo in città a prendere dei chiodi da mettere nelle strade in cui sarebbero passati gli automezzi dei fascisti e dei tedeschi. Attraverso i posti di blocco noi passavamo impunemente, perché ormai ci conoscevano.

 

Verso marzo, aprile, i nuclei si organizzarono meglio. I miei fratelli facevano parte delle formazioni Giustizia e Libertà della IV zona operativa, a capo della quale era il colonnello Fontana, ma c’erano altre formazioni, come la brigata Garibaldi «Muccini», che operava verso Sarzana. C’era bisogno ormai di persone che sapessero curare i feriti. E Alfredo, studente del sesto anno di medicina, cominciò a fermarsi anche lui in montagna per cercar di predisporre un servizio di assistenza. Alla fine di giugno venne giù perché c’era bisogno di medicinali, e il 2 o il 3 di luglio scese in città: gli avevano promesso che gliene avrebbero dati. Una spiata, non lo sappiamo… Fatto sta che parti da San Benedetto e arrivò in piazza Garibaldi; qui, prima che, (meno male!) entrasse nella farmacia dove era già pronto il pacco per lui, lo arrestarono. La notizia del suo arresto giunse subito su. Mia madre, strano a dirsi, mentre era sempre piuttosto malaticcia con il suo scompenso di cuore avrebbe dovuto condurre una vita molto calma, molto serena -, quel giorno sembrava quasi ritornata alla primitiva energia. Non pianse, non si disperò. Ci disse: «Ragazzi, ripuliamo la casa». In casa non c’era quasi niente di compromettente e pericoloso, perché i miei fratelli non vi lasciavano niente di quel genere, è ovvio. C’era però una divisa della X Mas, perché la sera prima era passato da noi un militare, che prima di andare in montagna si era spogliato della divisa e ce l’aveva lasciata. E allora la divisa, fuori di casa! Poi c’erano dei fucili, ma fucili da caccia, nostri. Però mamma disse: «Sarà meglio portarli via. Chi sa cosa potrebbero pensare, a parte il fatto che sono fucili di valore e magari se li prenderebbero». Infine chiamò mio fratello, il minore, che era proprio un ragazzino -aveva quindici anni -e gli disse: «Figliolo, va’ dove vuoi, ma qua in casa, per lo meno per qualche giorno, non ti far vedere». Prima ancora avevamo avvertito in paese che nessuno si avvicinasse alla nostra casa, perché sarebbe stato pericolosissimo. E poi aspettammo.

 

Passò tutto il giorno, e non successe niente. Intanto durante la giornata poco per volta erano arrivate notizie: che Alfredo era stato portato al Comando delle Brigate nere, di li al Comando delle SS e la sera in prigione. Aspettammo. Mamma aveva detto: «È inutile che noi scappiamo. Siamo tre donne: io ho sessantatré anni, voi siete ragazze -io avevo ventun anni, mia sorella diciotto -: non ci faranno nulla». Andammo a letto, con un’ansia terribile. Verso mezzanotte, cominciammo a sentire, sulla strada che conduceva alla casa, dei passi. «Eccoli! -mia madre disse, -eccoli! Calme! Perché se stiamo calme, se siamo serene, riusciremo a esprimere con maggior chiarezza quello che vogliamo dire, a dare forse l’illusione che qua non c’è mai stato nessun altro che noi». Ma lei poteva essere calma; io, giuro, calma non ero. Bussarono alla porta, mia madre andò ad aprire. C’erano tre repubblichini, uno dei quali era il capo dei repubblichini della zona, un certo Gallo, che fu poi preso prigioniero e fucilato, e insieme con loro cinque SS: tre ufficiali, fra cui un tenente, e due soldati. Cominciarono a chiedere degli uomini. «Uomini non ce n’è». Mia madre ci aveva ordinato di rispondere cosi. «Uno è militare, -spiegò lei, -e non ne ho più saputo niente, l’altro è all’Università a Genova, dove fa il sest’anno di medicina, e il piccolo è da amici». Per cinque ore perquisirono la casa, da cima a fondo. Non trovarono che dei libri, come La storia della rivoluzione russa, Disobbedisco di Giuliotti, la Storia di Cristo di Papini, che presero per libri antifascisti: fra l’altro erano anche perfetti ignoranti.

 

Davanti alla Divina commedia con le figure del Doré chi sa perché dissero: «Che roba! Che schifo!» Da ultimo trovarono lettere indirizzate a mio padre da un amico svizzero, ma lettere scritte da cinque, sei anni, nelle quali non c’era altro che dimostrazioni di affetto, di simpatia, e il racconto di quello che lo scrivente faceva, della sua vita. Non so che cosa credettero: forse le presero come la prova di una specie di contatto con stranieri. Insomma, alle 5 del mattino partimmo, con loro. Devo premettere che i partigiani erano stati avvertiti che Alfredo era stato preso e avevano preparato una specie di…, come posso dire?, di agguato. «Se vengono e portano via le donne, salviamo per lo meno loro». Ma ci presero per donne di malaffare che avessero fatto una passeggiata coi tedeschi e non ci fermarono: ci conoscevano, ma si erano dovuti tenere nascosti, perché la strada era sorvegliata, e, poverini, non ci riconobbero. Per lo meno, questo ci dissero in seguito.

 

Fummo portate a La Spezia, nelle carceri.(…) Una volta sola ci fecero vedere mio fratello, ed era in condizioni pietose, tanto che mia madre, quando ritornò in cella, si senti molto male. Non lo rivedemmo più. Giunse il 20 luglio, giorno in cui in Germania fu fatto l’attentato a Rider. Mamma, quando lo seppe, diventò come matta. lo dico che quel giorno ci fu in lei proprio una vena di pazzia, perché subito, appena seppe la notizia, chiese alla suora, ma in una maniera perentoria, che non era nel suo carattere, di essere ricevuta dal comandante tedesco. «Voglio essere ricevuta dal comandante tedesco!» E la suora le diceva: «Ma cosa vuole da lui?» « Voglio essere ricevuta!» La suora chiese allora al comandante tedesco se poteva ricevere mia madre, ed egli acconsentì. Stava facendo un interrogatorio. Mia madre dalla porta gli disse: «I miei figli saranno assassini, saranno briganti, saranno indegni di vivere, ma come chiami tu quelli della tua gente che hanno attentato a Rider? Allora non soltanto in Italia ci sono banditi e assassini; ce ne sono anche da te!» La suora, suor Teresina, racconta che il comandante la guardò, si fece tradurre dall’interprete quello che lei aveva detto -e mia madre pretese che fosse ripetuto parola per parola -, poi si alzò, le fece il saluto militare, le tese la mano e le disse: «Mille donne come te e io qua non ci sarei». Da quel giorno non ci tormentarono più: cessarono per noi gli interrogatori. Perché mia madre gli aveva anche detto: «È inutile che tu continui a interrogarmi: io non so niente e anche se sapessi qualcosa, non te lo direi”. Gli dava del tu: “tu dai del tu a me che ho sessantre anni, perché io non posso dare del tu a te che potresti essere mio figlio?”.

 

Bianca Paganini Mori fu incarcerata presso il carcere di La Spezia e successivamente deportata a Ravensbruck.

 

 

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