Fuga dall’inferno del “blocco”

VI
Fuga dall’inferno del “blocco”

Vi erano trenta blocchi nel campo: quindici per i lavoratori, gli altri per la quarantena, ma vi era un blocco speciale – vi fu per lo meno per cinque o sei mesi – il blocco 20. Era isolato da tutti gli altri, nessun internato ordinario vi entrava mai per riuscirne, nessun internato ordinario aveva mai avuto contatto con gente di questo blocco che non fossero già dei cadaveri. Arrivavano gruppi speciali “raccomandati”, si riusciva a sapere quanti erano e vagamente da alcune indiscrezioni delle S.S. di che nazionalità fossero. Quasi tutti russi. Non ricevevano matricola ed erano avviati direttamente al loro blocco. Una rete speciale elettrica,
quattro garitte con sentinella doppia e un muro sopraelevato circondavano questo blocco, e si sapeva che in esso, capace di contenere al massimo cinquecento persone, ne misero persino duemila; si sapeva che là si portava da mangiare meno della metà della razione normale, gli uomini non avevano né cucchiaio né scodella. Ogni mattina “ammucchiati” al di fuori del muro esterno si vedevano trenta, quaranta cadaveri. Questo è quanto si sapeva del blocco 20, ma venne un momento in cui il blocco 20 fece parlare di sé. E fu nella notte dal 31 gennaio al 1. Febbraio 1945. Erano arrivati da poco due grandi convogli di paracadutisti russi e slovacchi al blocco 20. Avevano ancora la forza di essere uomini e capirono che in quel blocco non li attendeva che la morte. Era caduta un’abbondante nevicata: il Comando diede ordine di sgomberare la neve dai tetti che minacciavano di crollare. Gli uomini del blocco 20 accumularono la neve lungo i muri, e alcuni capi squadra improvvisati piazzarono i mucchi di neve in modo da prepararli per scalare il muro. Intanto nel pomeriggio venivano strangolati il capo blocco, un traditore ucraino e gli altri cinque o sei aguzzini. In serata gli uomini prepararono le armi: staccarono dei pezzi di legno a cui legarono le maniglie delle porte, legarono insieme i loro zoccoletti di legno, riempirono dei sacchetti con neve e con sassi.
L’estintore per gl’incendi fu destinato ad essere un lanciafiamme. Intanto nel cortile si lavorava a sgombrare la neve, mentre intorno alla baracca lo spiazzo era illuminato con il riflettore. Le sentinelle tedesche si compiacevano di quell’ardore inusitato che voleva dire, secondo loro, nuovi sforzi e nuove sofferenze per quei condannati a morte.
Pochi minuti dopo la mezzanotte risuonò un grido, era l’Urrà; l’Urrà con cui si erano espugnate mille fortezze hitleriane, l’Urrà con cui i soldati rossi avevano travolto qualsiasi ostacolo. I proiettili improvvisati sconcertavano le sentinelle sulle loro alte garitte. I tedeschi accecati dal liquido dell’estintore abbandonavano le armi e gli internati scalavano il muro gettando sui fili elettrici le coperte ammucchiate.
Appena conquistata la prima garitta, un gruppo di combattimento apriva il fuoco sulle altre; gli uomini si davano tutti fuga, mentre altri gruppi combattendo proteggevano col fuoco la ritirata. In basso, nelle baracche delle S.S. vi era una festa, era l’anniversario di Hitler e si
beveva più del solito. Intanto i morti viventi davano la loro suprema battaglia, la vincevano ed evadevano in massa.
Poco dopo molti di essi avevano già trovato dei cavalli nelle fattorie vicine. All’alba un gruppo di evasi attaccava e disarmava un’intera batteria antiaerea nei pressi del campo.
Fuggirono in circa 450, ma ben pochi di essi erano in condizioni fisiche tali da poter andare lontano. Più di trecento furono catturati e ammazzati come cani. E gli altri? La storia ci dirà quanti nazi sono stati liquidati, quante imprese eroiche sono state compiute da questi partigiani che realizzarono l’inverosimile evasione.

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