Archivio mensile:giugno 2017

Paolo Ciotti – "Abbiamo ucciso il primo austriaco"

Paolo Ciotti

"Abbiamo ucciso il primo austriaco"

Paolo Ciotti racconta uccidere, odio, morti, nemici a Casare Baitle (VI) il 3 giugno 1915

Sono passati pochi giorni dall’arrivo in prima linea e la vicinanza con il nemico determina il primo scontro a fuoco.

Il giorno 3 Giugno è ricco di avvenimenti. Verso sera una pattuglia austriaca si avvicina alle piccole guardie della seconda Compagnia a pochi metri dall’osteria del Termine. Un sergente nemico (forse il capo pattuglia) prende di mira il tenente Borserino della 2° Compagnia che in quel mentre sta passando l’ispezione, e spara. Ma i nostri, alla loro volta, non si perdono d’animo e rispondono col fuoco colpendo il sergente austriaco. Il tenente Borserino è salvo e il resto della pattuglia nemica fugge. I nostri soldati, così mi fu raccontato da chi era presente al fatto, presero il ferito austriaco e se lo trascinarono sino al Comando di Compagnia. Dove, naturalmente giunse morto, anche se avesse potuto vivere.

Era la prima piccola vittoria, la prima vittima fatta dai nostri fanti agli austriaci per cui è spiegabile il cattivo trattamento usato al ferito che fu così ucciso dai nostri soldati, i quali anziché trasportarlo in barella, lo presero per una gamba e lo trascinarono per un lungo tratto sopra il terreno accidentato. Quel povero diavolo aveva già combattuto in Russia; aveva in tasca una fotografia di donna con bimbi (forse la moglie e i figli) e portava al dito medio della mano destra un anello su cui era scritto: ”diedi oro per ferro, tutto per la Patria”. Fu sepolto poco dopo all’osteria del Termine.

Paolo Ciotti – In marcia verso il fronte

Paolo Ciotti

In marcia verso il fronte

Ventiquattro maggio

Paolo Ciotti racconta marce a tra caltrano e Cesuna (VI) il 25 maggio 1915

È il 25 maggio 1915, dalla mezzanotte del 23 l’Italia è in guerra contro l’Austria. I primi reggimenti, tra i quali il 116° fanteria di cui fa parte il sottotenente Paolo Ciotti, marciano verso il nemico.

Dove si va? Arrivano ordini e contrordini per cui nessuno conosce la destinazione precisa. La marcia è lunghissima; io, che non porto nulla con me, non so capacitarmi come i soldati faranno a portare addosso il pesantissimo zaino. Facciamo parecchie soste di dieci o venti minuti ciascuna, e, ogni volta, ne approfittiamo per dissetarci e per ammirare il panorama che di mano in mano diventa più suggestivo. Ma una sosta non ci voleva: quella di Campiello. Fu ridicola e quale dimostrazione dell’imperizia di alcuni dei nostri ufficiali superiori, vale la pena di ricordarla.
Giunti presso Campiello, il rumore di uno scoppio vicino mette tutti in sobbalzo.

Il Comandante del Battaglione Ten. Colonello Piselli, che trovavasi in testa, dà immediatamente ordine che tutto il Battaglione si metta a terra e che nessuno si muova. Forse il nemico, pensa, potrebbe vedere e sparare ancora, ma quel pover’uomo non pensava che lo scoppio su accennato non poteva essere stato determinato da proiettile avversario; se avesse consultato la carta avrebbe capito che il nemico era distante per lo meno un trentina di chilometri!… Il colpo, si seppe poi, fu causato da uno scoppio di mina. Ce lo dissero alcuni operai che incontrammo dopo lungo la via!

Giuseppe Bartoli – Un barattolo di latta

Giuseppe Bartoli
Un barattolo di latta
La stella dalla coda 

aveva appena perso 
l’ultimo filaccio 
ancora pregno di sangue 
Adesso il mondo 
poteva piangere 
rannicchiato 
fra gli spigoli 
delle case arse 
Ma un bambino 
aveva tanta 
tanta voglia di vivere 
di correre sulla rugiada 
che non appassiva più 
sulla terra dischiusa 
Cercava un barattolo 
per giocare a palla 
per capire dal suono 
di quel giocattolo 
che rideva fra i sassi 
che il macello era finito 
Ma nessuna luna d’argento 
– rotolava - 
sul grembo della terra 
e allora spense 
i suoi piedi nudi 
fra spine di pietra 
e diventò subito un uomo

Giuseppe Bartoli – Un ragazzo dagli occhi di sole

Giuseppe Bartoli

Un ragazzo dagli occhi di sole
Sono tornato dove un ragazzo 

dai grandi occhi di sole 
ha maturato le sue radici 
Sono tornato dove abbiamo 
sepolto la nostra giovinezza 
e dove il nome di battaglia 
nasceva tra bagliori di fuoco 
Ed ho ritrovato la mia estate 
L’estate dei ramarri sui muri 
la fionda dall’elastico rosso 
i piedi scalzi color di terra 
e tutta la luce del giorno 
a tingerci d’ambra le mani 
Qui “giocavamo” alla guerra 
fra siepi di rovi e di more 
dietro lo scudo delle foglie 
povera “canaglia” della libertà 
inerme come grembi di colombe 
Raccogliemmo morte e mirtilli 
e tra cappotti di lune rosse 
rubammo l’oro alle lucciole 
Quando tua madre ingobbita 
come la collina che ti colse 
soffocò l’urlo e i singhiozzi 
nella “tana” d’uno scialle nero 
per te cantarono le cicale 
e si schiusero nidi di viole 
C’era un profumo di ginestre 
nel cielo della tua ultima estate 
Ora ti guardo senza piangere 
compagno dagli occhi di sole 
e mi chiedo se non fu fortuna 
quel tuo andartene allora 
col freddo sudore di morte 
sul tenerume delle labbra 
ancora ebbre di latte materno 
Te ne andasti e forse fu meglio 
perchè adesso solo le pietre 
urlano come monumenti nudi 
e perchè ragazzo senza nome 
siamo ormai pochi a ricordare 
il “sorriso” delle tue tenere vene 
che si svuotavano come calici 
per l’ultimo brindisi alla vita.

Cecco Angiolieri – S’i’ fosse foco, ardere’ il mondo

Cecco Angiolieri
S’i’ fosse foco, ardere’ il mondo
*
S’i’ fosse foco, ardere’ il mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempestarei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil’en profondo;
*
s’i’ fosse papa, serei allor giocondo,
ché tutti cristïani embrigarei;
s’i’ fosse ‘mperator, sa’ che farei?
a tutti mozzarei lo capo a tondo.
*
S’i’ fosse morte, andarei da mio padre;
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
similemente faria da mi’ madre,
*
S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
le vecchie e laide lasserei altrui.

Francesco Isola – Colpo di grazia -Disfatta di Caporetto

Francesco Isola

Colpo di grazia

Disfatta di Caporetto

Francesco Isola racconta combattimenti, bombardamenti, feriti, morti, orrori, nemici a Caporetto, Kobarid, Slovenia il ottobre 1917

Francesco Isola è si è arreso agli austriaci, ma non è ancora uscito dal cuore della battaglia che si è scatenata dopo la rottura del fronte a Caporetto. Le artiglierie italiane sparano ormai in maniera casuale sulla linea del fronte, facendo strage.

Un sibilo, un lampo, un fragore potente e una granata si squarciò proprio anche in mezzo a noi: quale strage di vite!
Tutti stesi a terra: chi ormai morto, chi ferito e chi, per grazia di Dio mezzo incolume, ma stordito, il muricciolo di una casa distrutta mi fece scudo dalle schegge, ancora una volta salvo.
Mi alzai barcollando, cercai uno scampo, un rifugio.
Il nemico era furente, ci perseguitava, ci faceva proseguire ininterrottamente e ad ogni costo.
Sorpassammo a valle, ma non seppi dove, la prima linea: quale tragica e commovente visione: cadaveri sparsi qua e là ; feriti agonizzanti senza soccorso, pozze di sangue già coagulato, la trincea irriconoscibile, i reticolati disseminati, armi infrante: ecco il quadro del dolore ove nessuna penna di scrittore avrebbe giammai rilevato l’immane realtà.
E  non meno tragici erano gli episodi umani.
Immaginatevi di vedere uscire da un rifugio un ferito nostro con il passo vacillante che appena appena si reggeva in piedi: una grossa ferita, uno squarcio profondo ha sul collo, gli sgorga il sangue copiosamente, non può più parlare, ha chiuso gli occhi, solo con le mani può invocare aiuto; non umana pietà ma solo odio di  guerra, spinse uno di quelli che ci scortavano, un nemico, ad avvicinare il ferito e senza alcuna pietà col calcio del fucile, lo gettò brutalmente a terra: cadde il ferito, s’udì un rantolo, forse l’ultimo, quello che gli perdonava tanto soffrire.
Ed a parecchi strazianti avvenimenti, ad altre scene di dolore e di sgomento fui ancora testimone e solo verso mezzogiorno uscii dal ciclopico flagello.

Francesco Isola – Ferito a morte per un pezzo di pane

Francesco Isola

Ferito a morte per un pezzo di pane

Francesco Isola racconta prigionia, cibo, fame, nemici, morti, torture a Darmstadt, Germania il 1917

I prigionieri italiani vengono condotti in Germania.

La sera del 29 ottobre si arrivò al concentramento dei prigionieri di Darmstad.
L’argomento che per primo veniva portato in campo era il cibo, si domandava pane, si domandava da mangiare.
Ed anche qui nulla di più che broda di rape, forse di questa in abbondanza; come lupi affamati, senza ritegno a trascendere ad azioni selvagge, ingoiavamo quella misera zuppa.
Ne vidi tanti ficcare il muso entro qualche grande recipiente e, come porcellini, inghiottire voraci.
La fame aveva annebbiato la ragione, l’etichetta.
Breve fu il soggiorno in questo concentramento per un certo numero di noi, poiché, dopo un terzo e più lungo viaggio, ci fecero raggiungere e ci concentrarono nel lontano campo di Friedrichfeld e precisamente nella Westfalia, in Germania.
Già in questo campo erano stati concentrati un numero stragrande di prigionieri dell’esercito interalleato e cioè francesi, inglesi, belgi, portoghesi, serbi, molti russi, neri delle Afriche, ecc. e proprio solo noi mancavamo: dunque eravamo noi i primi italiani a raggiungere quella cinta di esilio, di prigione.
Per prima cosa i tedeschi ebbero cura di dividerci dagli altri prigionieri racchiudendoci in un angolo del grande campo bene separati da una forte cinta di rete metallica; e così per 40 giorni ci sottoposero a molte visite mediche, punture, bagni e disinfezione panni. 
Giorni questi di grandi torture, riducendoci ben presto ad  un nuovo esaurimento per l’insufficiente alimento.
Quale era il nostro alimento quotidiano? Una broda nerastra insapora composta di pezzettini di carote ed acqua, acqua di fonte e null’altro assieme.
Qualche volta ci davano invece una bevanda con un miscuglio d’una farina color caffè, la qual farina, al par della sabbia, calava rapidamente sul fondo dei recipienti.
Un unico mestolo di questa denominata “sboba” era per due volte il nostro miglior cibo giornaliero.
Ci davan si alla mattina il caffè, un liquido color di tintura di jodio nauseante né più né meno dell’infuso di Vienna, tanto ripugnante che nessuno di noi nemmeno l’assaggiava.
Ed il pane! Mio Dio quale oltraggio alla miglior provvidenza della natura!
Il nostro pane non era altro che un conglomerato chissà di quali selvagge sostanze, una pasta cruda anch’essa color tabacco, attaccaticcia, tenuta insieme da una crosta nera in carbone, crosta bruciata superficialmente da una repentina cottura.
Capitava spesso di discernere tra questo ripugnante pane della pagliuccia, delle fibre di legno, oppure buccie di qualche frutto selvatico.
Ci davano delle grosse pagnotte da due chili e mezzo da dividere in dodici parti ed in queste divisioni scaturivano spesso delle lotte tremende a motivo di qualche ripartizione minimamente imparziale: la fame c’aveva reso selvaggi, impazienti, ogni senso di cameratismo era svanito di fronte alla cruda esistenza.
Basti dire che tra noi, in gruppo di dodici, ci numeravamo a sorte per fissare chi per primo e poi di seguito poteva prelevare la rispettiva razione: solo così si aveva pace.
Ecco il maggior alimento che il nemico poteva darci!
Ma questo cibo non era e non fu sufficiente a sostenere le nostre vite e solo con qualche altro espediente riuscivamo a sopravvivere in tanti, mentre tant’altri dopo lunghi mesi d’agonia, colpiti dall’orribile sventura dell’esaurimento, lentamente morirono invocando: “ pane!”.
Dopo qualche settimana dal nostro serraglio dei compagni più audaci, approfittando d’un momento di distrazione delle rassegnate sentinelle, tentarono, e parecchie volte riuscirono, a scavalcare la cinta metallica che ci separava dagli altri prigionieri alleati, portandosi così alla ricerca di cibo.
Ma una notte, una sentinella forse questa dal cuore più crudele, colse un compagno al varco: la baionetta dell’inumano si bagnò di sangue!
Cadde esamine a terra quell’infelice compagno; cercammo di raccoglierlo, ma fummo brutalmente ricacciati nella nostra baracca: solo attraverso la finestra potemmo vedere un gruppo di quegli armati raccogliere quel corpo e portarselo via;  una larga chiazza di sangue diceva che doveva esser stato ferito gravemente.
Morì esso? Nulla si potè sapere di quella povera vita così brutalmente straziata per una colpa il cui fine non era altro che l’elemosina di un po’ di pane.

Giuseppe Bartoli – Una farfalla di cenere

Giuseppe Bartoli

Una farfalla di cenere

Sarà festa grande 
al taglio del maggese 
per coriandoli di farfalle innamorate 
libere dalle culle 
dell’amore agreste 
Voleranno 
verso la vela 
tenera del cielo 
tra grida pulite 
di bambini 
frammenti ansiosi 
d’albe serene 
nati dalla brace 
della carne accesa 
E tornerà puntuale 
il ricordo 
della bimba di Bologna 
che sognava 
una farfalla di fiordaliso 
da chiudere 
nella gabbia del cuore 
Vedo la sua immagine 
dibattersi prigioniera 
fra i rovi delle schegge 
come rosa di macchia 
nella siepe 
Ogni anno 
– per non dimenticare - 
un filo di calendule d’oro 
illuminerà 
il sentiero di cenere 
grigio 
come la dolcezza 
d’un settembre 
Angela 
non rivedrà più 
gronde di luna 
né si scalderà 
all’abbaino del sole 
con occhi 
di passero sperduto 
Di lei resta solo 
un volo immenso 
di cenere 
che si posò leggero 
sui suoi capelli 
“come solinga 
lampada di tomba”

Giuseppe Bartoli – La disfatta

Giuseppe Bartoli
LA DISFATTA
Io non ho perso la guerra 

quando combattevo 
nella nuda terra africana 
seppellito come un pidocchio 
dentro una gabbana 
fatta di sabbia e di sete 
mangiando cavallette 
Io non ho sporcato 
l’argento delle mie stellette 
nella steppa russa 
mordendo con dente di lupo 
le ossa condite di ghiaccio 
dei miei fratelli caduti 
Io perdo ancora la guerra 
tutte le volte che penso 
a me e agli altri ragazzi 
che col fucile in mano 
tenevamo Anna Frank 
sepolta in una soffitta 
E fra l’occhio spento del cielo 
e l’odio assassino della terra 
l’ebrea costruiva col sangue 
quel monumento di pace 
che schiaccia ancora adesso 
l’anima di tutti i boia 
Quella si che fu la vera disfatta 
il marchio d’una sconfitta 
che mi urla sempre addosso 
con una bocca larga 
come una camera a gas

La Banda Carità – Torture e champagne di Renzo Lorenzoni

 

 

La Banda Carità

 

Torture e champagne di Renzo Lorenzoni

La mattina del 3 gennaio 1945 verso le nove, tre agenti del comando di Palazzo Giusti suonarono il campanello della mia abitazione. Uno di essi rimase a far da palo davanti alla porta di casa; gli altri due, accampando un puerile pretesto di dovermi comunicare qualcosa per conto del Conservatorio di Milano, salirono sino al salotto e alla camera da letto. Dopo aver chiesto e avuto conferma che bisognava seguirli sino al Palazzo di via S. Francesco, mi vestii in fretta e alle 9,30 ero già arrivato a destinazione. A dire il vero non era la prima volta che varcavo quelle soglie in qualità di prigioniero. La sera del 20 dicembre 1944, quindici giorni prima, ero capitato in casa dell’amico Umberto Avossa, puro combattente dell’antifascismo, per informarmi della sua salute malferma; e vi ero capitato proprio mentre uno sbirro del maggiore Carità vi si trovava allo scopo di arrestarlo. Non parve vero al poliziotto di cogliere due piccioni con una fava. Dopo aver esaminato i miei documenti personali, mi ficcò dentro una automobile che sostava in quei pressi e in pochi istanti mi portò alla base. Quella sera le cose andarono molto lisce. Verso le nove e mezzo fui introdotto nell’ufficio del tenente Trentanove che mi sottopose a interrogatorio: si riesaminarono le mie carte, e, dopo qualche investigazione circa le mie relazioni personali con l’Avossa, gli inquirenti, tra i quali era attentissimo lo sbirro che mi aveva arrestato, si convinsero del «caso fortuito », e senza manco stendere un verbale dell’interrogatorio mi rilasciarono in libertà, dopo che ebbi firmato la regolare diffida di nulla rivelare di quanto avevo veduto ed udito nell’interno del Palazzo.

 

Questa facile risoluzione dell’incidente indusse erroneamente me, familiari ed amici a ritenere che altro pericolo mi incombesse almeno per il momento: ma non doveva pensarla cosi il maggiore Carità che provvide, in modo più efficace pochi giorni dopo, alla mia sistemazione. A gennaio erano giunti con me (tra i molti di cui non ricordo più il nome) ed erano stati riuniti nella stanza dei tenenti Baldini e Trentanove, il colonnello Maniano, il maggiore Marangalo e la dottoressa Baricolo. Le prime operazioni furono, naturalmente, la perquisizione e il sequestro di quanto avevamo con noi. La signorina incaricata, che seppi poi rispondere al nome di Renata Chicco (una biondina allampanata liquescente con due occhietti cisposi di sinistra civetta) stese a lapis un rapido inventario su di un quaderno: corrispondenza, oggetti personali, portafogli, portamonete, tutto fu accatastato in una grossa busta di carta e rinchiuso in un armadio a saracinesca. Vuotate le tasche e alleggeriti i rispettivi proprietari dei contenuti delle medesime, ci si rimandò nell’anticamera ad … aspettare. Aspettare che cosa? Mah! Probabilmente l’interrogatorio. Ci cullavamo tutti nella fiducia di un sollecito interrogatorio. Ma era un’illusione. Quella prima giornata passò, come le successive, lenta e funerea, rotta solo da un macabro episodio che doveva essere il primo di una tristissima serie. Poco dopo le tre del pomeriggio, dalla camera attigua a quella dove avevamo subito la perquisizione, si udirono dei singulti repressi, dei lamentij, interrotti da qualche grido di dolore. Verso le cinque si apri improvvisamente la porta, ne uscirono, passando in mezzo a noi e diretti al piano superiore ove si trovava un’insufficiente infermeria, prima un battistrada, poi uno dei carcerieri che reggeva sulle spalle lo sventurato uscito fresco fresco dalle torture. Era in stato evidente di pieno collasso fisico e aveva il capo riverso sulla spalla di colui che lo sosteneva: non riuscii perciò a vederlo in volto, ma, dai capelli che aveva foltissimi e da qualche altro particolare somatico, dedussi che dovesse essere giovane. Come finale di coda veniva poi il capitano medico che non si stancava di ripetere a coloro che lo precedevano: « Presto, presto: una branda, un materasso e una iniezione prima che succeda il peggio ». Assistemmo muti e sconvolti al passaggio del triste corteo: i presagi di sventura che vagavano nell’aria sembravano confermati dal tetro spettacolo offertoci. Un’altra conferma, teorica questa ma non meno impressionante, ci venne alla sera stessa, allorché intruppati e raccolti nella sala dove aveva avuto luogo la tortura diurna e dove passammo la notte, uno dei sorveglianti (alto nella persona, con un pellicciotto sino alle ginocchia e l’immancabile mitra a tracolla) usci a dire tra una parolina e l’altra

« Questo luogo è l’inferno per i colpevoli ». Come Dio volle la notte passò, e alle prime luci dell’alba fummo avviati al «salone », dove io rimasi sino al momento della scarcerazione. La seconda giornata, il 4 gennaio, fu contrassegnata da un avvenimento di tutt’altra natura. Verso il tocco si udì il sibilo delle sirene di allarme aereo e di li a pochi istanti gli apparecchi anglo-americani ci rombavano sulla testa. Entrò allora nel salone il tenente Trentanove, seguito da due o tre dei suoi scherani. Sghignazzando e schernendoci, gridava con quanto fiato aveva in corpo: «Sarete contenti, sono qui i vostri amici, i vostri fratelli… ». Ma le sue parole furono repentinamente sepolte da una formidabile esplosione che mandava in frantumi i vetri del palazzo, comprese tre finestre del salone che ci ospitava. Per rimettere un po’ d’ordine nello scompiglio che ne seguì, ci venne ordinato di scendere in giardino e di appostarci in una piccola trincea scavata di fresco. La trincea non aveva alcun riparo. Era stata prescelta per questo? Forse. Nulla essendo accaduto di grave, la conseguenza dell’esplosione fu che la temperatura del salone, già rigida, scese ancora e le notti divennero sempre più dure. La giornata memorabile coincise indubbiamente col 7 gennaio, una domenica. Di buon mattino, in seguito ad un forte attacco artritico, chiesi di essere visitato dal medico, il quale riconobbe l’esistenza del morbo, ma alla mia richiesta di avere un letto su cui riposare durante la notte obiettò che l’accoglimento dell’istanza dipendeva dal comandante. Non me lo feci ripetere due volte e me ne ritornai rassegnato nel salone, dove fervevano già i preparativi per l’imminente rapporto che si teneva nell’attigua sala dell’amministrazione. Al rito presieduto dal comandante, tutti indistintamente, ufficiali e sguatteri che fossero, dovevano convenire, e alla fine della cerimonia intonavano coralmente un refrain di cui non riuscii, per quanto aguzzassi le orecchie, a cogliere le parole, ad eccezione di tre: farabutti e maggiore Carità. I farabutti, si capisce, erano i prigionieri passati, presenti e futuri, e l’idoleggiato era il maggiore Carità. Nel tardo pomeriggio del medesimo giorno si poté notare che un avvenimento sensazionale stava allietando le inquiete anime dei carcerieri di Palazzo Giusti. Uno sbatacchiar confuso di porte, un andirivieni inconsueto di sbirri, un tramestio generale erano i segni infallibili che la cacciagione doveva essere stata eccellente e aver riportato qualche cospicua preda. Il rimbombo del portone di strada si faceva sempre più frequente: macchine entravano ed uscivano di continuo. E nella sbirraglia un mal celato senso di soddisfazione trapelava da ogni gesto. Il colpo era stato grosso per davvero. Era la cattura di Egidio Meneghetti, insigne farmacologo dell’Università, l’animatore del movimento padovano di resistenza. Ricercato da mesi era riuscito a sfuggire fino a quel fatale 7 gennaio, quando nella rete stesa attorno alla casa di cura Palmieri cadde anche lui. Ce lo trovammo cosi ospite del salone in pigiama e in pantofole e, siccome era un cliente di riguardo, ammanettato. La notte che segui (notte di tregenda, la definì il mio vicino di prigionia, il caro Luigi Faccio, ultimo sindaco di Vicenza libera prima dell’avventura fascista) fu movimentata tanto quanto lo era stata la sera. Il salone rigurgitava di facce nuove. Gli interrogatori si succedettero ininterrottamente agli interrogatori e la tortura funzionò implacabilmente sino al mattino, quando il tenente Baldini entrò ballonzolando in salone e gridò: « Li becco tutti, ormai li ho tutti nelle mani ». I« tutti» erano i componenti il CLN.

Evidentemente sorretta e foraggiata dai tedeschi (ogni sera due o tre ufficiali superiori tedeschi passavano dal salone ed erano introdotti nella stanza del Comandante con sonori « Heil Hitler») l’organizzazione poliziesca di Palazzo Giusti presentava, anche all’occhio di un superficiale osservatore, aspetti enigmatici. Uno di questi era l’impalcatura disciplinare sulla quale doveva reggere la struttura dell’organismo. A star a sentire qualche basso gregario (c’era ad esempio un piantone lucchese, tale Rustici, che quando si sentiva sicuro di non essere sorpreso dal comandante si lasciava trascinare dalla nativa loquacità a interessanti confessioni) doveva trattarsi di una iperdisciplina, nel senso più spietatamente militaristico. Episodi di brutalità non mancavano, a dire il vero. Di uno fu protagonista proprio il Rustici, il quale in un momento di debolezza accese con la propria sigaretta il mozzicone di un prigioniero. Proprio in quell’istante il Carità spalancò la porta e colse il Rustici nell’atto. Avvicinatosi, come una belva infuriata, al disgraziato piantone, gli urlò sul viso: «Quando mai imparerete a far i soldati? » e gli assestò due potenti ceffoni che lo fecero ruzzolare per parecchi metri. Per converso, non era difficile notare come i ragazzi diciottenni, i più umili nella scala gerarchica, stessero spesso a braccetto dei graduati e degli ufficiali in atteggiamenti di confidente dimestichezza. E gli interrogatori? Si svolgevano sempre

« coram populo », in un perenne viavai di gente che entrava ed usciva, talvolta sedeva accanto all’interrogato, ne ascoltava la deposizione, interferiva o se ne andava a seconda dei casi. In nome di quale autorità, codesti galantuomini, che certamente a casa loro avevano non pochi conti da regolare con la giustizia e che perciò l’avanzata degli alleati aveva sospinto dalla Maremma e dalla Garfagnana sulle rive del tranquillo Bacchiglione, si erano insediati a Palazzo Giusti per costituirvi una superiorità politica, che non doveva render conto a nessuno del proprio operato? ~ impossibile saperlo. Qualcuno potrebbe semplicemente commentare: «Cose della sepolta Repubblica Sociale» e con ciò probabilmente sarebbe detto tutto. Il fatto è che, una volta pescati e portati li dentro una volta chiuso alle spalle il pesante portone che ergeva sinistro come una pietra tombale, i poveri prigionieri sapevano solamente questo: che le alternative a loro disposizione erano o la fucilazione o tre campi di concentramento in Germania diversamente graduati a seconda della gravità dell’imputazione, o – ipotesi ultima ma quasi sempre da escludere – la scarcerazione. Garanzie di procedura? Norme di legge? Nessuna. Diritto di difesa? Nessuno. Tutto era abbandonato all’arbitrio dei facinorosi, governati da un turpe ,ossesso, a cui, per antitesi ironica, il destino aveva imposto il più. cristiano dei nomi: Carità. Discepolo prediletto del famigerato seviziatore Koch, di età e statura media, pallido e glabro nel volto, con occhi torvi e feroci, sempre in abito borghese, il maggiore Carità camminava col passo agitato del cane che sta braccando la preda. Aveva seco due figlie giovanissime, attive operanti e partecipanti della sua triste bisogna. Accanto a loro, parecchie altre femmine lavoravano o ai servigi più umili o negli uffici investigativi e di amministrazione in qualità di scenografe e dattilografe. Il gennaio del 1945, particolarmente rigido, non favoriva il soggiorno nel salone centrale del Palazzo, dove i prigionieri dovevano sostare in attesa di essere interrogati e poi rinviati alle celle, per le quali erano stati sistemati il piano terra ~ il piano superiore. (Il piano nobile era riservato agli uffici e alle stanze di abitazione del comandante e dei suoi diretti collaboratori quali il tenente Baldini e il tenente Trentanove). La sosta nel salone poteva durare anche qualche settimana, come è capitato a chi scrive, e le giornate che bisognava trascorrere seduti sui canapè, accanto alle camere di tortura ove si svolgevano gli interrogatori degli arrestati, erano orrendamente lugubri. Gli urli e i singulti degli sventurati pazienti, che talvolta non ebbero tregua dalla mezzanotte al mattino, rappresentavano la « berceuse» dei prigionieri raccolti nel salone e pareva ammonissero: « Ora ci siamo noi, ma domani toccherà a voi ». Di tanto in tanto, si spalancava la porta d’accesso sullo scalone i servi si facevano innanzi con vassoi ricolmi di bottiglie, bicchieri e panini imbottiti. Tra una tortura e l’altra i seviziatori e le seviziatrici si ristoravano con spumante, per riprendere con rinnovato vigore il loro lavoro, onde Franca Carità alla vista di una povera vittima sfigurata nel volto e nel corpo dalle percosse e dai supplizi operati con dispositivi elettrici, poteva esclamare: «Toh! guarda com’è buffo ». ‘Ma i tormenti fisici, a cui erano fatti segno i prigionieri più importanti, quelli cioè che avevano gravi rivelazioni da fare, si mescolavano con perversa abilità del comandante e dei suoi assistenti ai tormenti morali. Un sacerdote della diocesi di Treviso mi raccontava come alla fine del terzo interrogatorio fosse stato trattenuto al solo scopo di fargli ascoltare una sequela di barzellette oscene. Il degno sacerdote supplicava con gli occhi di essere rimandato nel salone, ma invano. Sadismo e ferocia: ferocia e sadismo si alternavano regolarmente a ispirare la condotta dei carcerieri di Palazzo Giusti. Uomini e donne, allorché entravano in mezzo ai prigionieri, non lo facevano se non fischiando, cantando, slittando sull’impiantito, in segno di perenne giubilo, che, nelle prime giornate di gennaio, s’era tramutato in baldanzosa fiducia nella vittoria della croce uncinata, auspice la controffensiva del maresciallo von Rundstedt nelle Ardenne. « Torniamo a Parigi » urlava una mattina il tenente Baldini. Infatti, s’è visto. Oggi il maggiore Carità ha chiuso la sua brava esistenza, ucciso da soldati americani sulle Dolomiti di Siusi i suoi collaboratori vagheranno raminghi e sperduti in cerca di quella pace che non scenderà sui loro spiriti esacerbati, né al di qua, né al di là del limite.

Sull’imbrunire del 15 gennaio potei lasciare Palazzo Giusti. Mentre stavo raccogliendo le mie cose dalle mani della signorina Chicco, mi si piantò improvvisamente dinanzi il maggiore Carità chiedendo se la mia istruttoria fosse completa. Mi affibbiò poi una patente di ex affiliato alla massoneria, diffidandomi dal frequentare i cattivi amici e gli ancor peggio ambienti che, a detta sua, frequentavo. Ma mi lasciò andare. Seppi poi che si era pentito di questo gesto magnanimo e che avrebbe voluto ripigliarmi, se altre cure più gravi ed assillanti non si fossero addensate sul suo capo. Al primo contatto coll’aria libera il passo vacillava. Guardai in alto. Le finestre erano illuminate. Si lavorava lassù. Continuava l’orrenda fatica. La gola era stretta, il cervello opaco. Cercavo, senza riuscirvi, di rimettere un po’ d’ordine nella somma di esperienze morali, anzi umane, che m’era venuta da quel pur breve soggiorno. Sentivo che la somma era grande e l’ammaestramento decisivo. Quei pochi giorni valevano bene più che tutta una vita. Mi incamminai, affrettando il passo. Mi sospingeva un puerile desiderio: rientrare a casa prima che annottasse del tutto.

Dal «Gazzettino,. Del 15 settembre 1947.

 

 

Tratto da

 

RITORNO A PALAZZO GIUSTI

TESTIMONIANZE DEI PRIGIONIERI DI CARITÀ A PADOVA (1944-45)

A cura di Taina Dogo Baricolo

La Nuova Italia Firenze

Edizione 1972