Archivio mensile:settembre 2012

Battaglia per Hill 810

Battaglia per Hill 810

di Giovanni Baldini, .

Sul fronte della Linea Gotica fra Vernio (PO) e Barberino del Mugello (FI) dal 9 al 24 settembre 1944 ebbero luogo i durissimi scontri fra gli americani del "133rd Infantry Regiment", 34th Infantry Division ‘Red Bulls’ e i tedeschi del "Grenadier-Regiment 754", 334th Infantry Division.
Il reggimento tedesco era conosciuto anche come "Phalange Africaine" in quanto aveva combattuto in Africa a fianco dell’esercito francese di Vichy fino a quando dovette arrendersi agli inglesi nel maggio ’43. Fu poi ricostituito nel mese successivo e partecipò con compiti difensivi per gran parte della campagna d’Italia, combattendo a Cassino, ad Anzio, sulla Linea Gotica e difendendo Bologna. Fu continuamente impegnato in azioni di guerra fino ad aprile ’45.

Anche il reggimento americano aveva combattuto in Africa e anch’esso partecipò alla campagna d’Italia passando per Anzio, Cassino e Roma. Dopo lo sfondamento della Linea Gotica il reggimento passò da Bologna, Modena, Biella, Varese e fu di supporto al governo militare alleato a Trieste sotto la guida britannica.

Il 9 settembre il Red Bull lascia la zona di Legri (in comune di Calenzano, FI) raggiungendo la zona di Barberino del Mugello il 14, dove le difese tedesche iniziano ad essere sempre più agguerrite.
In tutta la fase della battaglia per Hill 810 e oltre il Red Bull sarà appoggiato da soldati italiani dell’esercito ricostituito e si avvarrà di guide partigiane sia nelle fasi esplorative che in quelle di gestione dei feriti.
Quando gli americani raggiungono Mangona i tedeschi cominciano con il tiro dei mortai, circa 1200 colpi al giorno e il comandante del Red Bull, colonnello William S. Schildroth, medaglia al valore per la liberazione di Roma, muore a causa di mine.
Ci sono morti e feriti anche fra la popolazione civile, non solo fra gli abitanti del posto ma anche fra gli sfollati che erano giunti nei dintorni.
Fino al 20 settembre gli scontri sono molto pesanti, le postazioni tedesche sono scavate nella roccia e pesantemente fortificate, gli americani conquistano e perdono posizioni.

Il 21 è il giorno in cui infine il Red Bull riesce a conquistare la collina 810 (il punto più elevato è appunto 810 metri sul livello del mare) spezzando il fronte e iniziando la rincorsa che porterà a Vernio e Montepiano.
Il 24 la battaglia ha termine. Il 30 il Red Bull rientra in prima linea a Montecarelli.

Sul luogo degli scontri adesso sorge il Parco Memoriale della Linea Gotica di Vernio.

Davanti ai tedeschi cantammo Bandiera Rossa

Davanti ai tedeschi cantammo “Bandiera Rossa”

 

testimonianza di Valerio Signorini, partigiano fiorentino

Una fredda sera del recente febbraio 2003, nel tepore della mia casa di Firenze, stavo seguendo il programma televisivo Ballarò. Vi si affrontava il problema della minaccia della guerra contro l’Iraq e si dibatteva sulle iniziative e le manifestazioni in atto o da intraprendere per la salvaguardia della

pace.

Gli ospiti della trasmissione si confrontavano sulla diversità dei giudizi e sulle conseguenti prese di posizione. A questo si aggiungeva il contributo di

testimonianze da parte di realtà esterne, grazie a collegamenti televisivi con altri ambienti e persone.

Durante uno di questi la mia attenzione fu sollecitata dalle parole degli intervistati decisamente caratterizzate dalla “calata” pisana del loro vernacolo e ancora di più dal nome della località collegata, Fornacette.

Inaspettatamente la trasmissione aveva destato in me un’ondata di emozioni che mi riportava indietro di mezzo secolo. Di colpo la mente tornava ai miei vent’anni e alle due settimane, o poco più, vissute in quel piccolo paese di provincia nell’incertezza della sorte che attendeva me e i miei compagni di allora e con l’ansia delle decisioni da prendere per la nostra sicurezza.

Ma procediamo con ordine. Inverno 1944: le armate anglo-americane sono ferme a nord di Napoli, sul fronte di Cassino.

Mussolini, liberato dai tedeschi, ha fondato al nord la Repubblica sociale.

Per mostrare agli amici nazisti che conservava ascendente e potere, vuole mostrare all’esigua schiera dei volontari accorsi a formare le lugubri “Brigate nere” anche un esercito regolare o almeno una parvenza di esso. Nel gennaio del ’44 il governo della Repubblica sociale emana un ordine di arruolamento obbligatorio per i nati dal 1922 al 1925.

Tuttavia un gran numero di giovani, nello stato di generale confusione e inefficienza, hanno pensato bene di non obbedire alla chiamata. Il governo fascista risponde a sua volta con un ultimatum che prevede l’arresto e la fucilazione per quanti, entro l’8 marzo 1944, non si presentino per essere arruolati.

Io, in quanto figlio unico di madre vedova, a cose normali avrei qualche possibilità di non dover partire, ma con la situazione cosi, non solo ho

poche probabilità in tal senso, ma vengo addirittura aggredito e malmenato da facinorosi fascisti locali perché non sono già sotto le armi. Mia madre é terrorizzata per le eventuali conseguenze a mio danno; devo purtroppo decidermi a rispettare gli ordini del bando fascista. Secondo le prescrizioni impartite mi presento dunque al comando delle forze armate repubblichine di Vercelli.

Conosco appena l’ambiente militare per precedenti visite in cui ero stato abile e destinato alla Regia Marina, ma dal primo contatto con quel reparto a Vercelli noto che vi regna una confusione senza pari. Quantunque le mie generalità siano state subito registrate, intuisco che in quella situazione può essere possibile sfuggire all’arruolamento.

Senza pensarci più di tanto, insieme a pochi altri, faccio dietro-front e riprendo il treno per Firenze. Mia madre mi accoglie con gioia, ma subito è presa dall’angoscia per le conseguenze che potrebbe avere il mio atto.

Ma ti rendi conto – mi dice – che così facendo sei un disertore? Se ti prendono finirai al muro! Disperatamente mi scongiurano a convincermi di riprendere il treno e tornare a Vercelli. Con il caos che vi regna, forse non si sono ancora accorti della mia breve assenza. Così é infatti e io, a marzo del ’44, _finisco mio malgrado a far parte di un centinaio, o poco più, di giovani neo-arruolati in quel reparto dell’esercito di Mussolini.

Mancano perciò le divise, perciò, in abiti borghesi, ci mandano a fare i marinai in riva. . . alle risaie del Piemonte.

Trascorsi un po’ di giorni veniamo trasferiti nella vicina Pavia dove per lo meno c’é un fiume, poi a Chiavari, sulla riviera ligure di Levante. Qui, da bravi marinai, benché_ ancora in borghese, vediamo almeno il mare.

I nostri comandanti diretti sono ufficiali italiani che hanno aderito alla repubblica di Mussolini, ma è chiaro che devono obbedire agli ordini impartiti dai comandanti tedeschi.

Lo spostamento successivo ci porta a Venezia dove restiamo solo pochi giorni. Qui veniamo vestiti con la divisa, però non si tratta della classica divisa blu del marinaio italiano. Ci fanno indossare l’uniforme del Battaglione San Marco, reparto speciale da sbarco della Marina, che veste una divisa grigioverde con pantaloni alla zuava e un basco in testa, ma con bavero, cravatta e cordone tipici della divisa marinara. Unica differenza con quella del San Marco è che l’uniforme che ci danno ha i pantaloni lunghi che cadono sulle scarpe anziché finire negli scarponi a formare il rigonfio tipico della zuava. Indossare questa divisa ci secca assai. Lo farà ancora di più quando il principe Borghese a legato il suo nome ad azioni di repressione e rappresaglia. A Venezia veniamo anche armati con il moschetto mod. ’38, arma antiquata e quasi inutile di fronte ai mitra dei tedeschi e degli americani.

Dopo il soggiorno veneziano, il trasferimento successivo ha come meta Livorno. Siamo alla fine di aprile e da due mesi ormai va avanti questo nostro peregrinare da una località all’altra. Scherzando ci chiediamo se hanno deciso di farci fare il servizio militare sui treni. Questo continuo viaggiare però non ostacola, anzi facilita, lo stabilirsi di rapporti cordiali tra noi e fa nascere belle amicizie. Proveniamo soprattutto da regioni del nord: piemontesi, milanesi, bergamaschi, molti veneti, pochi emiliani e qualche toscano. Tuttavia le differenze regionali non impediscono di intenderci benissimo. Presto ci rendiamo conto che tutti avversiamo il regime fascista e i suoi seguaci per aver trascinato l’Italia in guerra e noi sotto le armi.

A Livorno veniamo acquartierati nella bellissima zona dell’Ardenza. Finalmente abbiamo in faccia il mare!

Livorno mostra però il volto drammatico di una città gravemente ferita dalla guerra. Ha già subito numerosi bombardamenti aerei e gravissime sono le distruzioni e i danni alle strutture del porto e alle abitazioni. La maggior parte della popolazione ha abbandonato la città riparando nelle campagne, in piccoli paesi anche assai distanti da Livorno, che sono pieni di sfollati.

Ed é proprio nel piccolo paese di Fornacette che anche noi veniamo trasferiti dopo circa un mese. Ci sistemano quasi all’inizio del paese, in un grande

palazzo sulla via Tosco-romagnola. Siamo alloggiati in quello che sembra essere un enorme magazzino situato al primo piano. Vi si sale da un doppio scalone esterno le cui rampe contrapposte si congiungono sul pianerottolo davanti alla porta d’ingresso. Il paese é presidiato dai tedeschi che hanno il comando nel grande palazzo davanti al quale hanno fatto costruire un robusto rifugio in cemento armato.

Piuttosto sorpresi per questa destinazione “campagnola”, ci interroghiamo su quali possano essere le intenzioni dei loro comandi nei nostri confronti. Viste le notizie che giungono sull’andamento della guerra cominciamo ad essere seriamente preoccupati.

Tutti i giorni due soldati tedeschi che hanno in consegna il nostro reparto ci fanno marciare su e giù per il paese e nelle strade adiacenti.

Ci sentiamo come un gregge di pecore sorvegliati dai cani da pastore. Ci pare che la gente, forse credendoci al servizio dei nazisti, ci guardi con aria di odio e con disprezzo. Questo ci fa ancora più male per cui ci diamo da fare per allacciare rapporti con i paesani. Non é facile perché di giovani nostri coetanei non se ne vedono in giro e le ragazze non ci danno molta relazione.

Le inutili marce e la diffidenza dei paesani ci pesano e ci umiliano. Bisogna far qualcosa per dimostrare che non siamo fascisti e per far capire alla popolazione che la pensiamo proprio all’opposto. Così un giorno, di ritorno dalla consueta marcia, entriamo in paese al canto di Bandiera Rossa, nella totale indifferenza dei due tedeschi. Ancora mi chiedo se i “crucchi” non capivano ciò che si cantava o se fingevano, dato che erano solo in due e noi eravamo ìn tanti. La cosa non sfuggì al comando che reagì inasprendo il trattamento nei nostri confronti, per fortuna senza spargimento di sangue. D’altronde anche loro, con l’esercito tedesco in ritirata e gli americani che avanzavano verso il nord, forse avevano più voglia di farla finita che di guerreggiare.

L’episodio ci fece riflettere sul senso del nostro trasferimento in quel piccolo paese dell’entroterra. Le notizie sui rastrellamenti di uomini validi e sulledeportazioni in massa verso la Germania ci convincevano sempre di più che il nostro prossimo trasferimento avrebbe potuto avere quella destinazione.

Capimmo che era necessario e urgente farla finita con quella situazione. Per nostra fortuna quella marcia e quel canto avevano segnato l’inizio di una svolta nel rapporto con la popolazione di Fornacette. Ora molte persone ci guardavano con simpatia. Quelli di noi apertamente più scontenti

e disposti a disertare furono spinti dalla gente a gettare la divisa e aiutati a rivestire vecchi abiti borghesi per tornarsene a casa.

Alcuni di noi entrarono addirittura in confidenza con gli antifascisti di Fornacette che organizzavano clandestinamente la Resistenza contro i nazifascisti dandosi da fare per raccogliere armi destinate alla lotta partigiana. Per merito loro buona parte dei nostri fucili prese così la via della montagna. Con la

scusa di un compenso per il nostro fucile, quelli di noi che dovevano fare un viaggio più lungo, oltre al vestito borghese ricevevano anche qualche lira.

Ovviamente non vi furono soldi per quelli come me che abitavano abbastanza vicino. Infatti io me ne rientrai a Firenze a bordo di un camioncino carico di verdure destinate al mercato ortofrutticolo.

Tornato nel mio quartiere, entrai subito in clandestinità e con i partigiani fiorentini partecipai attivamente alla lotta armata contro i nazifascisti e alla battaglia per la liberazione della mia città.

Signorini Valerio, 23.01.1924, nel 1940 condannato a 6 mesi con la condizionale per non aver frequentato i corsi premilitari.

Ferito a Firenze in combattimento il 28.08.1944, in località Careggi.

Il rastrellamento del lunedì di Pasqua

Il rastrellamento del Lunedì di Pasqua

di Giovanni Baldini,

L’alba del 10 aprile 1944 partì da Firenze un vasto rastrellamento ordinato da Kesselring per testare l’efficacia delle nuove unità antiguerriglia con lo scopo di "bonificare" dai partigiani le pendici orientali di Monte Morello e di mandare un chiaro messaggio agli abitanti delle cascine che spalleggiavano la Resistenza.
Difatti le attività partigiane in zona si erano fatte sempre più intense, ad esempio con l’attacco alla stazione di Montorsoli, e i contadini offrivano riparo ai partigiani come già avevano fatto per i prigionieri di guerra fuggiti dai campi di prigionia, organizzando un vero e proprio campo di raccolta nei pressi di Cerreto Maggio: due famiglie di contadini, i Biancalani e i Sarti che abitavano in località Morlione, e un guardiacaccia, Gabriello Mannini di Cerreto Maggio, si occuparono per tutto l’inverno ’43 – ’44 di sostenere gli ex-prigionieri.

Per il rastrellamento ai 450 soldati specializzati alla guerra contro i partigiani si aggiungevano parte della divisione Goering, 50 soldati repubblicani e 755 militi della Guardia Nazionale Repubblicana che salivano da più direttrici per accerchiare la zona.

In mattinata i soldati arrivarono a Cercina dove arrestarono gli uomini che assistevano alla messa del Lunedì di Pasqua e subito dopo, seguendo una delazione del pievano della canonica, irruppero in casa del dottor Brunetto Fanelli e arrestarono il dottore e sei giovani.
Verranno immediatamente portati nei campi poco lontano e passati per le armi.

I soldati semineranno morte anche poche centinaia di metri più sopra uccidendo un boscaiolo, Silvio Rossi originario di Cerreto Maggio, falciandolo mentre era dentro al proprio capanno non lontano da Ceppeto.

Contemporaneamente il rastrellamento veniva condotto anche sull’altro versante della montagna, a Morlione, con tutta probabilità seguendo precise indicazioni di qualche spia: Gabriello Mannini venne ucciso davanti ai suoi familiari e gli uomini di casa Sarti (Aurelio e Fortunato) e Biancalani (Giovanni e Savino) subirono la stessa sorte. Le case delle tre famiglie vennero poi date alle fiamme.
Sempre a seguito di questi fatti viene ucciso a Cerreto Maggio anche Cesare Paoli.

Il rastrellamento portò inoltre più di trecento innocenti alle galere fasciste della Fortezza da Basso, in attesa della deportazione.
I parenti dei giovani uccisi verranno ingannati per giorni dai secondini della Fortezza, che continueranno a farli credere vivi e imprigionati per ricevere "regali" in cambio di informazioni false sui congiunti.
Al quinto giorno, insospettita, la madre di Renzo Lamporesi cominciò a cercare nei pressi di Cercina trovando il figlio e i suoi compagni sbrigativamente mal sepolti sotto un fine strato di terra e sassi.

Il giorno 30 maggio quattro gappisti fiorentini salgono a Cercina e uccidono a colpi di pistola il pievano responsabile della delazione.

L’agguato alla stazione di Montorsoli

L’agguato alla Stazione di Montorsoli

di David Irdani,

Il pomeriggio del 4 Aprile ’44 una trentina di partigiani, passati da Cerreto Maggio, quasi a coppia, con le bandiere rosse, armati di bombe a mano e di fucili cantando… – come testimonia Don Mario Martinuzzi – si diresse verso la stazione di Montorsoli con il chiaro proposito di assaltare il treno 2328 che, secondo l’orario sarebbe dovuto arrivare alle 19.20.
Il treno era formato da una ventina di vagoni, che trasportavano molti pendolari, studenti e lavoratori che tornavano da Firenze direzione Mugello.

Le testimonianze raccolte su questo avvenimento sono molto discordanti: sicuro è che ci fu una sparatoria infernale che durò più di un quarto d’ora. Altrettanto sicuro è che l’assalto non passò "inosservato".

I partigiani che parteciparono all’azione erano molto giovani ed esuberanti. Infatti la segretezza dell’attacco non fu osservata: tutta Cercina seppe dei ragazzi "con il fazzoletto rosso al collo, dirigersi alla stazione, occuparla, isolarla telefonicamente e rinchiudere il capostazione e famiglia in una stanza". Alcune testimonianze raccontano addirittura che alcuni giovanissimi del paese seguirono i partigiani per assistere in diretta all’azione.
L’attacco fu ordinato dal CTLN, perché sul treno si trovavano molti ufficiali tedeschi che si recavano nel Mugello per preparare i rastrellamenti nella zona.

Occupata la stazione e appostatisi i partigiani attesero l’arrivo del treno.
Le cose però non si svolsero come previsto. Sembra che alcuni tedeschi sul treno notarono i partigiani nascosti sul ciglio dei binari ed ebbero il tempo di armarsi e difendersi. Sul treno era presente una staffetta partigiana (Cremonini Carlo) che aveva il compito di aiutare i civili a sgomberare il treno al momento dell’assalto. Il Cremonini fu ucciso subito. Ne seguì una violenta sparatoria, con i civili a terra a cercare riparo: i fascisti usarono gli stessi come scudo e riuscirono ad impossessarsi militarmente della stazione, lasciata inspiegabilmente sguarnita. I fascisti spararono alle finestre del primo piano uccidendo due partigiani e ferendone quattro. I partigiani riuscirono comunque a sparare raffiche di mitraglia e bombe a mano (tipo ananas) sui vagoni fermi. Il treno poi ripartì sotto le raffiche di mitraglia e si fermò alla stazione successiva di Fontebuona, dove furono soccorsi i numerosi feriti. La formazione partigiana fugacemente riprese la strada per Monte Morello aiutati da un contadino del luogo che mise a disposizione dei partigiani un carro con mulo per trasportare il partigiano "Lupo" rimasto gravemente ferito. Sul campo di battaglia rimasero uccisi tre partigiani, i cui corpi furono oltraggiati da militi fascisti accorsi da Firenze saputo dell’avvenimento.

L’assalto al treno ebbe una considerevole risonanza "sociale", in quanto molti giovani incerti e dubbiosi sull’esperienza partigiana, si convinsero della necessità di cacciare l’invasore fascista ed entrarono nelle fila della resistenza.
La Brigata Fanciullacci fu una Brigata di riferimento per questi giovani.