Il Morto

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Il Morto
(12 luglio 1944)
Nella zona fra Como e Intelvi la primavera del 1944 vide una vivace ripresa delle ostilità fra le forze della Resistenza e quelle nazifasciste: le prime tendevano ad organizzarsi per difendersí e passare all’offensiva, le seconde cercavano di ottenere il completo controllo della zona. In questo clima prese l’avvio l’iniziativa dell’ufficiale dell’esercito in congedo maggiore Cavalie­ri di stilare una lista di persone ritenute disponibili per parte­cipare a qualche azione antifascista. Fra questi nomi c’era anche quello di Mario Fasoli, senza peraltro che questi fosse a cono­scenza dell’iniziativa del maggiore.
Mario Fasoli era nato a Como nel 1906 e lí aveva vissuto col padre agricoltore tutta la sua giovinezza. Emigrato in Svizzera nel 1930, mantenne sempre i rapporti con gli operai e gli antifascisti di Intelvi finché tornò in patria. Il 20 marzo 1944 Ma­rio Fasoli venne a sapere che i fascisti, probabilmente venuti a conoscenza della lista del maggiore Cavalieri, volevano arrestare anche lui, nel quadro di una serie di arresti per stroncare la crescente attività dei partigiani nel comasco. Per puro caso riuscí a fuggire e darsi alla macchia. Da quel momento vagò per le montagne di Blessagno, di Ossuccio Bofalcora e di Laino e for­se fu quello il momento critico della sua avventura poiché, pur essendo ostile alla guerra fascista, Mario non aveva potuto o sa­puto entrare nelle fila della Resistenza e si trovava del tutto iso­lato.
Dopo oltre un mese di vita alla macchia Mario, informato che i suoi compagni e conoscenti erano stati rilasciati, ritornò a casa, ma qui venne arrestato, il 22 aprile, e avviato al carcere di S. Donnino. I tedeschi lo percossero duramente, a dosi misura­te ma crescenti, per estorcergli informazioni circa i rapporti che lo univano agli altri "congiurati"; poi lo trasferirono al carcere di S. Vittore a Milano e infine al campo di Fossoli.
Il campo di Fossoli, situato a pochi chilometri da Carpi, una cittadina che dista diciotto chilometri da Modena, originaria­mente era un campo di concentramento per prigionieri politici, ma dopo il settembre del 1943 vi confluirono prigionieri di ogni nazionalità, partito e fede.
Il 21 giugno 1944 i tedeschi fanno partire da Fossoli per i lager della Germania 500 prigionieri. di ogni nazionalità, partito e fede Il 22
dello stesso mese due SS assassinano con raffiche di mitra Poldo Gasparotto, figlio dell’uomo politico libe­rale. Il 25 i tedeschi fucilano a Carpi lungo la linea ferroviaria sei giovani rastrellati. Buffarini Guidi com­pie una visita al lager, forse per sottolineare l’impor­tanza che la Repubblica di Salò e Mussolini stesso attri­buiscono a questa sinistra istituzione. Il 3 luglio i pri­gionieri intuiscono che qualcosa di piú tragico sta per accadere. Le strade di accesso vengono sbarrate, la sor­veglianza si fa piú severa, i familiari degli internati vengono brutalmente allontanati, il viavai di auto della Gestapo rivela uno stato d’allarme insolito. Verso il tramonto dell’11 luglio è dato, come di consueto, l’ordine di schierarsi nel cortile per l’appello del numero di matricola: il sergente maggiore Haage legge come un automa un elenco di settantuno italiani ai quali viene dato l’ordine di cambiare camerata per essere pronti a partire al mattino per la Germania. Tutti, con i loro bagagli, vengono adunati nella baracca N. 17. La notizia provoca subito allarme e agitazione in tutto il campo, ma particolarmente inquieti sono i candidati al­la partenza.
Durante la notte qualche prigioniero tenta di fug­gire, ma il suo proposito è frustrato dalla stretta vi­gilanza. La notte trascorre lentamente e l’agitazione si diffonde fra i destinati alla partenza, anche se la rea­zione non è certo uguale in tutti: c’è chi pensa ad un normale trasferimento a Gries, e chi teme la fucilazio­ne. Un fatto da poco accaduto non tranquillizza certo gli uomini. All’alba dieci ebrei erano stati prelevati, muniti di picconi e badili e condotti fuori con un au­tocarro. Non erano ancora rientrati e Fergnani, che ha interrogato l’interprete svizzero Fritz, si è convinto che li hanno adibiti ad una fosca missione. Avvicinandosi l’alba e l’ora della partenza l’agitazione aumenta. E colonnello Ferrighi e il comandante Kulczjeki sono i piú espliciti. Quest’ultimo, rivolto agli amici, afferma Non so con precisione a quale viaggio io sia chiamato. Se non ci rivedremo, coraggio a chi resta e viva l’Italia."
Fasoli ha pensato per tutta la notte alla fuga. Questo è stato il suo pensiero fisso, anche durante il viaggio da Milano, perché sull’esito finale del trasferimento non si era fatto illusioni. Ora piú che mai è convinto che li avrebbero uccisi tutti. Durante la notte non ha chiuso occhio, mantenendosi calmo ma non rassegnato. Il pensiero della moglie e dei figli lo tormentava poiché era certo che non avevano di che mantenersi e che il loro futuro sarebbe stato ancora piú duro se lui fosse morto in quel luogo. Sono le 5 del mattino del 12: arri­va un camion militare e un maresciallo tedesco, ben piantato sui 45 anni, si fa avanti con la lista dei nomi in mano. Legge venticinque nomi fra i settanta già scelti per la partenza e ordina ai prigionieri di prendere i bagagli per partire verso la stazione di Carpi. Il ca­mion col primo carico parte. Il sole è già alzato e la campagna circostante si sveglia.
Fasoli, che non è fra i partenti, osserva il disordine fuori della baracca: fagotti, vecchie valigie, indumenti laceri. I prigionieri sono vestiti con gli abiti civili, vec­chie giacche, camicie lacere, senza cravatta, con le scar­pe rotte. Il miraggio della rivolta e della fuga in lui si fa piú incalzante. Si rivolge ai compagni piú vicini e propone di reagire: lui avrebbe aggredito il marescial­lo mentre gli altri avrebbero dovuto attaccare i soldati e strappare il telefono provocando la rivolta generale del campo. Ma l’idea è respinta perché pericolosa, mentre — dicono — vi è la probabilità di essere condotti in un altro campo. L’esortazione alla calma viene particolarmente da un generale, da un ammiraglio e da due colonnelli, anch’essi prigionieri. Se almeno due o tre fossero d’accordo Fasoli agirebbe e trascinerebbe il gruppo. Dopo venti minuti dalla partenza del primo camion ne arriva un secondo e un altro gruppo di veri
ticinque internati, fra i quali c’è anche Fasoli, viene chiamato all’appello. Ai prigionieri ordinano di salire sul camion, 5 alla volta, mentre quattro militari tede­schi sono di scorta, piú due russi ex prigionieri, anch’ essi armati. L’automezzo incomincia la corsa traballando. I tedeschi — giovani reclute — sono impenetrabili, vogliono evitare ogni contatto umano e tengono le ar­mi sempre puntate; i prigionieri sono inerti e rasse­gnati. Quando il camion arriva vicino alla stazione di Carpi anziché fermarsi aumenta la velocità. Fasoli si convince definitivamente della sorte che li attende. Vi­cino alla chiesa di Cibeno c’è un piccolo ponte che at­traversa un torrente. Data la velocità dell’automezzo Fasoli ritiene che non ce l’avrebbero fatta a passare e perciò prevede uno sbandamento e un attimo di con­fusione. Forse era l’occasione per scappare. Il camion difatti urta la spalletta, asportandone un pezzo, ma rientra subito nella strada e prosegue velocemente senza conseguenze. Percorsi tre chilometri circa il ca­mion si ferma e tutti si rendono conto di essere giunti al poligono di tiro a segno militare.
Qui i dieci ebrei prelevati il giorno prima erano sta­ti costretti a scavare una fossa profonda, proprio ai piedi della collina artificiale. La località è completa­mente deserta, nessuno può vedere quello che accade, né tanto meno è possibile intervenire, anche perché il poligono è recintato con filo spinato. La fossa è lunga quaranta metri e larga tre. In questo luogo hanno già trovato la morte i venticinque prigionieri prelevati col primo camion. I tedeschi li avevano fatti avanzare in ri­ga fino al ciglio della fossa e lí ognuno era stato costret­to ad inginocchiarsi, con la fronte rivolta verso la buca. Un colpo di pistola alla testa faceva ruzzolare il corpo nella fossa, secondo un procedimento improntato alla massima razionalità. Il vescovo, accorso per sommini­strare la benedizione, era stato minacciato e costretto ad allontanarsi.
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I tedeschi ordinano ora a quelli del secondo camion di scendere e mettersi in fila a due per due, uno dietro l’altro.
"Mi resi conto," spiega Fasoli, "che ci disponevano in modo da non farci vedere i soldati armati che avreb­bero costituito il plotone di esecuzione. Erano circa le sei del mattino e speravo in qualche fatto esterno che turbasse l’operazione, ma mi resi angosciosamente conto che era impossibile. Intorno vi erano reticolati e piú lontano qualche casa. Si ergeva, alto e fosco, il grande schermo di legno grigio con le sagome e i centri per il tiro. Il terreno era pianeggiante con lievi avvallamenti e infrattuosità, con arbusti bassi, quindi non propizi al­la fuga. Soltanto piú lontano qualche pioppo.
"L’interprete ripeté l’appello scandendo uno per uno i nomi dei condannati. Poi lesse un documento che do­veva avere la parvenza di sentenza di morte, motivata con l’ordine supremo del comando tedesco di fucilare 70 persone per rappresaglia all’uccisione di 7 ufficiali tedeschi avvenuta a Genova. Alla lettura della sentenza, che ebbe l’effetto di abbattere ancor piú i prigionieri, nessuno reagí. Furono minuti spasmodici, attimi su­premi. Il sangue mi bolliva nelle vene e nella fronte. In pochi secondi, forse frazioni di secondi, tanti pen­sieri premevano. Nel fondo dell’animo vi erano i miei figli, mia moglie, mia madre. L’odio per gli aguzzini era enorme. Sentivo che la vita era appesa ad un filo, in­tuivo la sorte toccata ai miei compagni, anche se non potevo vedere le loro salme perché già ricoperte. La morsa si chiudeva, la fuga sembrava impossibile, e tuttavia mai un istante cessai di pensarci. Mai avrei voluto morire docile e rassegnato come una pecora: meglio morire lottando, pensavo. Intanto, il tenente che comandava il plotone ci fece avanzare due per due e i prigionieri si sedettero sul ciglio della fossa. Perfettamente lucido e cosciente io osservavo ora i míei compagni ora il plotone di esecuzione. Avevo notato che il plotone era composto di 12 uomini e siccome sapevo che ognuno di essi avrebbe dovuto sparare su due con­dannati, quando l’ufficiale estrasse la rivoltella pensai che lui avrebbe sparato sul venticinquesimo condanna­to. Il movimento delle armi, i volti induriti dei soldati lasciavano capire che la vicenda si avviava alla sua fa­tale conclusione: l’ordine di sparare era nell’aria. Anch’ io feci un movimento come per sedermi, ma invece mi misi chinato, come raccolto per uno scatto, pronto ad agire. Soltanto il capitano Jemina intuí la mia mossa e si predispose ad assecondarmi. Mi sentivo le energie moltiplicate. L’ufficiale tedesco comandò il fuoco; Je­mina saltò addosso al comandante tedesco e lo colpi con un pugno, io affrontai il russo che stava per sparare su Jemina. Lo colpii al mento e lo gettai a terra, afferrai il suo mitra per la canna e lo colpii alla testa. Dopo af­frontai l’interprete, un tipo piccolo e magrolino che im­mobilizzai con facilità. Imbracciai il mitra per sparare sul plotone di esecuzione dal quale mi attendevo una scarica, ma esso rimase interdetto, annichilito dalla ful­mineità e dalla violenza della nostra reazione. Atten­devo anche la ribellione degli altri prigionieri trascina­ti dal nostro esempio. Vi erano uomini giovani e forti e potevamo attenderci da loro un’azione. Invece anch’essi rimasero inspiegabilmente e incredibilmente passivi. Evidentemente è inimmaginabile la reazione che la prospettiva della morte provoca su ogni individuo. Io e Jemina rimanemmo i soli protagonisti su una scena terrificante. Pensai in un baleno che era inutile affron­tare lo scontro poiché i militari tedeschi si sarebbero ri­presi. Difatti incominciò la sparatoria e fui colpito piú volte all’anca e alla coscia. Per un momento pensai che fosse finita. Ma la molla della fuga e della soprav­vivenza agiva sempre. Gettai il mitra e il cappello che avevo sempre in testa e con un balzo uscii dal bersa­glio. Riuscii a superare insieme a Jemina il filo spinato, a evadere dal poligono e inoltrarmi nella campagna,verso S. Croce, al Mulino ed oltre. Una corsa pazza, malgrado la ferita. Mi sentivo come riesumato, ma co­munque vivo."
Il Fasoli, con questa fuga, si avvia verso una zona nella quale operano i partigiani della brigata Aristide. Alle 13,30 dello stesso giorno, come risulta dagli atti della deposizione rilasciata dal partigiano Mileno Bellotti, successivamente fucilato dai nazifascisti nei pressi di Fossoli, un uomo ferito, cioè il Fasoli, viene raccolto e trasportato in una casa, recapito dei partigiani della brigata Scarpone. Il ferito viene accompagnato in un campo di granoturco di proprietà del dottor Cesare Nannini. Alle ore 19 lo stesso dottor Nannini, che è medico dell’ambulatorio di Carpi, visita il fuggitivo, che presenta ferite d’arma da fuoco, oltre a varie graf­fiature alle mani e al volto.
Le circostanze di questa fuga sembrano inverosimili, ma risultano avallate da elementi probanti. I coman­di partigiani, attraverso testimonianze fra le quali quel­la del Fergnani, confermano che il tenente Tito, co­mandante il plotone, tornò al campo con la giubba tutta infangata e due uomini delle SS avevano le mani fasciate confermando che avevano sostenuto una col­luttazione. Alcuni indizi hanno fatto anche supporre che dopo la reazione di Fasoli e Jemina altri prigio­nieri si siano ribellati e quindi abbiano impedito ai mi­litari tedeschi di sparare subito, consentendo ai fuggi­tivi di mettersi in salvo. È accertato, comunque, che tutti gli altri prigionieri furono uccisi, anche quelli trasportati col terzo camion, che per prudenza furono ammanettati. Dopo venti giorni di cure il Fasoli mi­gliora e, riacquistate le forze, si mette in contatto coi partigiani. Quando i partigiani gli propongono di entrare nella loro formazione Fasoli accetta con entusiasmo da quel momento sarà chiamato "il Morto." 1I Morto prese parte a molti combattimenti presso Carpi e Montefiorino, anche con incarichi di comando.
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