La battaglia di Pian d Albero

LA BATTAGLIA DI PIAN D’ALBERO

L’alba del 20 giugno arrivò presto, e sembrò annunciare una buona giornata; la pioggia da qualche ora era cessata, ma la nebbia e i vapori acquei coprivano con il loro manto, uomini e cose, rendendo scarsissima la visibilità.

Dalla casa di Pian d’Albero, quel martedì 20 giugno, verso le ore sei e dieci, uscì per primo Paolo Cavicchi, che attaccati i buoi al carro, si avviò verso la fattoria di Badia Monte Scalari, per portare il formaggio.

Il padre Norberto Cavicchi, di anni cinquantadue, che tutti i martedì, pioggia, vento o neve andava al “mercato” di Figline Valdarno, quella mattina, erano le sei e trenta, si mise a lavorare nella stalla. Il nonno Giuseppe Cavicchi, di settantanove anni, che di solito si alzava verso le dieci, quella mattina alle sei e trenta era già alzato e gironzolava intorno alla casa.

Mamma Cavicchi, non erano ancora le sei e trentacinque, era già andata a prendere l’acqua al pozzo, che si trovava circa cinquanta metri di distanza dalla casa.

Aronne, alle sei e trenta aveva già riportato le pecore nei pressi del fienile.

La figlia, Giuseppina Cavicchi, di undici anni, sorella di Aronne, alle ore sei e trentacinque uscì di casa con un’amica, per andare al Poggio alla Croce. La nonna e tutte le donne, sfollate da Figline e da altri luoghi, rimasero in casa. Quel centinaio di giovani ospitati nel fienile dormiva ancora.

Alle primissime ore dell’alba di quel martedì 20 giugno 1944, reparti tedeschi della I Divisione paracadutisti, una delle più agguerrite e decorate divisioni di tutto l’esercito nazista, partirono dalla Fattoria del Palagio, che si trovava qualche centinaio di metri a nord di Sant’Andrea a Campiglia; protetti dalle basse nebbie, che li occultavano anche a brevissima distanza, si incamminarono sulla strada carreggiabile, quasi a passo di corsa, la nebbia ovattava il rumore dei loro passi, passarono sulla destra della piccola frazione di S. Lucia e da qui puntarono sulla sinistra di Carpignano.

Giunti lì, si divisero in due reparti: uno, il più grosso, andò a trovare la mulattiera che passava alla sinistra di Casa Carpignano e alla destra di Casa Calvetta e di Poggio alla Parrina e che conduceva proprio sul crinale, al lato destro della casa di Pian d’Albero; l’altro reparto, che nei pressi di Casa Carpignano si era diviso dal grosso, seguì il primo reparto sulla stessa mulattiera con la sola differenza che invece di fermarsi sulla strada di Pian d’Albero, là dove la mulattiera faceva quella curva, continuò sulla mulattiera stessa e si fermò a sinistra di Pian d’Albero, lì dove la mulattiera finiva.

Le SS germaniche si misero in moto un po’ più tardi dei paras. Un grosso reparto di queste, partito su dodici camion, da Villa Palagina, dove c’era un loro comando, risalì la strada che passava da Sant’Andrea a Campiglia, Casa Borghetta, alla sinistra di Casa la Bifolca e passò così dal Brollo, e sul fianco sinistro di S. Piero al Tirreno, poi sotto Casa la Leccia e abbandonati i loro mezzi motorizzati, sul fianco della strada, nei pressi di Casa gli Appinni, passò sul terreno di questa casa colonica, per andare a ritrovare più giù, a sud di questa, il sentiero che passava giù, nel mezzo tra Poggio Mezzo Tondo e si congiungeva all’ultimo tratto della carreggiabile:

Si addentrarono così nella zona boscosa, con passo sicuro, certi di tagliare fuori le posizioni da noi controllate, e facilitate anche dalle basse nebbie, riuscirono a piombare alla sinistra della casa di Pian d’Albero lì dove era giunto uno dei due reparti dei paras.

Erano le ore sei e trentacinque e tutti i reparti nazisti avevano raggiunto gli obiettivi prestabiliti dal loro piano d’operazione.

La casa ed il fienile di Pian d’Albero si trovavano praticamente in mezzo ai tre reparti d’assalto nazisti, che avevano scansato alla perfezione tutto il sistema difensivo partigiano, andando a colpire il punto più debole.

Qualcuno in seguito sostenne che fu un caso, io non ci ho mai creduto! Sono passati cinquantaquattro anni, e non ci credo ancora! In un’azione militare che ha il carattere di un ardito colpo di mano, non a caso si riescono a neutralizzare tutte le misure difensive dell’avversario.

Se si riesce, è perché si conoscono!

In questa mia modesta testimonianza, mi sono soffermato sulla dislocazione dei reparti partigiani e sul loro armamento, per comprendere come quei tedeschi evitassero tutto il sistema difensivo partigiano, come conoscessero a menadito tutte le nostre posizioni, in quanto piazzarono quattro mitragliatrici pesanti, due a sinistra e due a destra su in alto, guardando dalla casa di Pian d’Albero; una mitraglia posizionata a sinistra, batteva non sulla casa o sul fienile di Pian d’Albero, ma sulla carreggiata che dalle postazioni di noi partigiani portava a Pian d’Albero.

Quindi i nazisti sapevano che l’aiuto partigiano sarebbe venuto da lì, e quindi isolavano subito Pian d’Albero battendo quella carreggiata.

Ma poi, come facevano a sapere i nazisti, che dentro quel fienile e parte anche in casa, c’erano i partigiani?

Non piazzarono le loro armi contro un fienile di tutte le altre case contadine, dove i partigiani non c’erano, ma sull’unico fienile dove i partigiani disarmati erano presenti.

Era il 20 giugno 1944. Erano le ore sei e quarantacinque a tutti gli orologi tedeschi ed italiani, e a quell’ora precisa i nazisti stavano per aprire improvvisamente il fuoco con le loro mitragliatrici ed i bipiedi Skoda sulla casa di Pian d’Albero e sulla porta del fienile, dove gran parte dei giovani, che erano arrivati o la sera prima, o da due o tre giorni al massimo, dormivano ancora.

Alcuni, i più mattinieri, si erano già alzati, ed erano già fuori dal fienile.

Il fatto è che poco prima era passato di lì Marco che aveva detto: “Ragazzi, siete ancora qui, forza, venite via, non piove più, venite su in Brigata”, e così dicendo era andato su al suo distaccamento.

Pantera che era lì, perché aveva fatto il suo turno di guardia, entrò dentro al fienile a sollecitare quei ragazzi, dicendo che bisognava andare su al Comando. Così, mezzi intontiti dal sonno, si alzarono e cominciarono ad uscire.

Ne erano usciti cinque o sei ed erano lì fuori ad aspettare gli altri, quando uno, che era a sedere su uno scalino del fienile a legarsi i lacci delle scarpe, tutto ad un tratto disse: “Ragazzi rientra una nostra pattuglia!” Pantera, che era lì, guardò chi poteva essere: venivano avanti giù dal poggio, di corsa, sparpagliati… si accorse che erano tedeschi, tedeschi senza elmetto ma tedeschi.

“Ragazzi ci sono i tedeschi”, ma non fece a tempo a dir altro, una sparatoria infernale coprì la sua voce. Erano le sei e quarantacinque e Pantera con quei ragazzi, si buttò subito dalla parte della catasta di legna, e purtroppo si trovò di fianco ai tedeschi del primo assalto, che protetti dal fuoco delle loro mitragliatrici erano giunti fin lì. Allora Pantera e gli altri, entrarono nel Borro di Scandolaia, di lì al Borro della Paggina, proseguirono poi nella zona di Dudda; quando sentirono che il combattimento era finito, ritornarono in Brigata.

Fin dalle prime raffiche, Vecchio e Truciolo, che insieme ad altri due partigiani erano dentro la casa di Pian d’Albero per fare il pane, tentarono la fuga. Vecchio e gli altri due, saltarono la rete metallica che c’era dalla parte delle cataste di legna, e riuscirono dopo varie peripezie a raggiungerci sani e salvi.

Truciolo invece non fece a tempo, sparò alcuni colpi di fucile contro i tedeschi, e rientrato nella casa di Pian d’Albero si nascose dentro la cappa del camino. Marco, che era tornato a Poggio Sughero, che guardava Pian d’Albero, dove era dislocato il suo distaccamento, il II della II Compagnia, montato a cavallo stava scendendo giù a Pian d’Albero, per eseguire l’ordine ricevuto da Gino, durante la notte: “Domattina porta via quei ragazzi dal fienile.” Marco era già a mezza costa, quando sentì improvvisamente quell’uragano di fuoco provenire  a Pian d’Albero. Subito si gettò giù da cavallo e corse più avanti a vedere la Casa di Pian d’Albero, si girò e vide calar giù dall’altro sentiero i tedeschi che correvano verso il fienile.

Marco corse verso i suoi uomini, trovò Falchetto che piazzato alla mitragliatrice sparava tranquillo con attenzione sui tedeschi in corsa. Marco vide davanti alla mitragliatrice alzarsi il terriccio, comprese che con un’altra mitragliatrice i tedeschi sparavano su Falchetto, guardò dove poteva esser piazzata e vide che era situata sul crinale da dove i tedeschi scendevano verso la casa ed il fienile: comandò dei compagni fucilieri, per neutralizzare quella mitraglia. Poi rivolgendosi a Falchetto disse: “Prendi un bipiede Brent, e piazzati di fianco a me ad una distanza di quattro metri e spara senza pietà su quei cani. Alla mitraglia con due serventi rimango io.”

Nonostante tutto ciò, sotto la protezione delle loro mitragliatrici e dei bipiedi Skoda, paracadutisti ed SS germaniche si gettarono avanti di corsa, verso la casa ed il fienile di Pian d’Albero, e dietro le due costruzioni, accerchiandole. Erano le ore sei e cinquanta, mamma Cavicchi che era al pozzo a prendere l’acqua sentì, tutto d’un tratto, una tremenda sparatoria che veniva da più parti, vide due sentinelle partigiane che conosceva, che ritirandosi  verso la casa ed il fienile, spararono all’impazzata contro i tedeschi, che sparando a loro volta venivano avanti di corsa.

Svegliati del tutto da quella tremenda sparatoria i partigiani rinchiusi nel fienile tentarono d’uscir fuori, e si trovarono sotto un fuoco incrociato mortale, perciò furono costretti a rientrare dentro al fienile. Erano le sei e quarantacinque e Giuseppina Cavicchi, che era uscita di casa con la sua amica, per andare al Poggio alla Croce, sentì sparare le prime raffiche tedesche, e immediatamente sentì il fuoco delle mitragliatrici dei partigiani che rispondevano, pensò lei, dalla parte di Casa al Monte. Insieme alla sua amica riuscì a malapena a rientrare in casa. Dentro trovò la nonna, e tutte le donne sfollate.

La mamma era rimasta al pozzo, sotto la minaccia di un paras nazista. Erano le sei e quarantacinque e Paolo Cavicchi, che con il carro tirato dai buoi aveva raggiunto la Fattoria di Badia Monte Scalari, sentì la sparatoria sempre più violenta, tornò verso casa, ma al Borro Grande, sotto Casa al Monte, trovò un posto di blocco partigiano, comandato da Bafforado, che non lo fece passare, dicendogli: “Pian d’Albero è un campo di battaglia, si spara da tutte le parti!”

Erano le sei e quarantacinque, il nonno Giuseppe Cavicchi si trovava nello stalletto dei maiali per accudirli; il primo SS che arrivò lì lo ammazzo con una raffica di mitra dal basso all’alto. Quest’uomo, nonno, babbo, il patriarca, il “capoccia”, il capo insomma, attorno al quale era nata e sviluppata la famiglia, attorno al quale si sono potuti organizzare e sviluppare i partigiani, non era più, era morto per sempre! Non sembrava neanche vero, tanto era forte la sua personalità!

Aronne Cavicchi era nei pressi della casa, dove le pallottole gli fischiavano e miagolavano tutte intorno; i paras nazisti lo fecero prigioniero, insieme a suo padre e a tutti gli altri partigiani che erano nel fienile. Pugno di Ferro, che si trovava ancora dentro al fienile, con un gruppo di partigiani, tentò di aprirsi un varco, per uscire attraverso la finestra in fondo (dirimpetto alla porta), che aveva per sbarre grossi tronchi d’albero.

Avevano appena mosso un tronco, quando si trovarono sotto il fuoco delle SS, che dal lato sinistro di Pian d’Albero avevano raggiunto con manovra avvolgente il dietro della casa e del fienile. Carabiniere, sottufficiale dei Carabinieri, insieme a Fregio, dai due lati della porta del fienile sparò sui tedeschi, per far uscire i compagni affinché corressero in direzione delle postazioni partigiane. Venne colpito da una raffica di machine–pistol, e i suoi polmoni schizzarono fuori dalle costole. Anche Fregio, all’altro stipite della porta, venne ferito piuttosto gravemente. Fregio, constatato che non ce la faceva a muoversi e visto che i nazisti davano il colpo di grazia a tutti i feriti, infilò la mano nelle sue ferite, e si spalmò il sangue su un orecchio, come se fosse stato colpito alla testa, si sdraiò vicino allo stalletto dei maiali.

Quando passarono i tedeschi per dare il colpo di grazia, lo credettero morto, gli presero lo Sten, il portafoglio, le scarpe, e lo lasciarono lì. Pugno di Ferro, che aveva preso il posto dei due compagni feriti, sparando col suo Sten contro i nazisti tutt’intorno, venne colpito al basso ventre e rotolò a terra, usando grumi del suo stesso sangue, così come aveva fatto Fregio, poté evitare il colpo di grazia. A Carabiniere i nazisti non tirarono il colpo di grazia; poiché le sue ferite erano mortali, preferirono lasciarlo morire tra atroci sofferenze.

Bistecchino e Gian Paolo Granisi sfondarono il tetto del fienile e salirono  sopra; dapprima il fumo delle bombe tedesche li occultò al nemico, poi quando si diradò, si trovarono sotto il fuoco dei nazisti. Bistecchino era uno dei partigiani addetti alla difesa delle giovani reclute partigiane, e perciò, pensò che morire era ormai necessario e fatale, ma con lui dovevano morire altri nazisti. Alcune scariche di mitraglia passarono vicino alla sua testa e a quella del suo compagno Granisi, scheggiando gli embrici del tetto, alcune bombe lanciate dal basso esplosero vicino a lui, sfondando larghi pezzi del tetto, che caddero sotto con fragore tra l’urlio delle giovani reclute, mentre Bistecchino, col suo Sten, sparava raffiche su raffiche, cercando di fermare i tedeschi, che si avvicinavano sempre di più alla porta del fienile, protetti da quelle tre mitragliatrici, che vomitavano fuoco sulla porta, sulle scale, sul tetto. Bistecchino sparò ancora, poi Gian Paolo Granisi, che gli era accanto, lo sentì sussultare, lo toccò con una mano e se la trovò bagnata di sangue, lo chiamò più volte, ma Bistecchino non rispose, non poteva rispondere: era morto! Una raffica di mitraglia lo aveva colpito in pieno, parte del suo sangue era schizzato addosso al suo amico Gian Paolo.

Un paras tedesco armato di machine–pistol, ordinò a Gian Paolo di scendere giù. Gian Paolo scese, e quando fu a terra, i tedeschi a calci di fucile nella schiena, lo allinearono sotto il muro della casa, insieme ad altre decine di compagni fatti prigionieri; lì furono tutti perquisiti e derubati d’ogni avere, poi un ufficiale delle SS, a monosillabi domandò loro se sapevano niente di un Capitano delle SS, fatto prigioniero la sera prima; al loro diniego, l’ufficiale lasciò andare un manrovescio al più vicino e andò via bestemmiando.

Ad uno ad uno, i difensori partigiani cadevano colpiti a morte o feriti gravemente, mentre il fuoco delle mitragliatrici partigiane cercava d’inquadrare i nazisti. La mitragliatrice tedesca piazzata alla Quercia di Pratoreggi continuò a battere il vano della porta del fienile, mentre le altre due battevano l’aia e tutto il resto. I nazisti arrivati fulmineamente fin lì, continuarono a lanciare sul fienile bombe dirompenti e bombe incendiarie. Il fienile era in fiamme, ed i poveri ragazzi che uscirono vennero fatti prigionieri. I nazisti frugarono tutta la casa di Pian d’Albero, ma fortunatamente Truciolo con la sua arma si nascose dentro la cappa del camino, le sette donne, insieme a Giuseppina Cavicchi, si nascosero in una specie di sottoscala, in una stanza buia, dove mettevano a seccare le castagne; non furono viste.

I nazisti avevano estrema fretta, temevano l’intervento degli altri reparti partigiani che non poteva tardare, così facevano tutto di corsa. Un paras appoggiò il suo fucile Mauser con cannocchiale alla cassapanca della cucina, che era vicino alla cappa del camino, e si mise a frugare dappertutto, guardando dentro i cassetti, aprendo sportelli, in cerca di roba da rubare. Truciolo, mentre quello era intento ai fatti suoi e gli voltava le spalle, si calò giù, prese quel bel fucile col cannocchiale, che aveva sempre desiderato e risparì dentro la cappa del camino. Il tedesco, terminata l’ispezione, ritornò lì a riprendere il fucile e non lo trovò più. Si guardò intorno, ma non c’era nessuno; allora cominciò a bestemmiare e urlare come un ossesso, girò per la casa, ma non trovò più l’arma. Di fuori i suoi lo chiamavano, ma lui non aveva il coraggio di uscire fuori disarmato, tirava pedate ai mobili e sfasciava le sedie contro le pareti della cucina.

Per Truciolo, fu indubbiamente un gran dramma amletico: ricalarlo giù quel fucile o non ricalarlo? Ma ad interrompere il suo dubbio, venne un sottufficiale dei paras, che ordinò a quel tedesco di uscire, perché si ritiravano precipitosamente, dato che arrivavano i partigiani. Quel paras andò via di corsa, correndo dietro al suo sottufficiale, senza l’arma. Quella casa per lui era stregata ed era contento di allontanarsene. Nella tragedia di quella giornata, ci fu anche questa nota comica.

Sul dietro della casa di Pian d’Albero, abitava la famiglia di Gino Garavaglia, il CM della nostra Brigata, i nazisti arrivati fulmineamente anche lì, presero Gina, moglie di Gino, il figlio Carlo, che era un bambino, e Angiolina, che era un’operaia fiascaia, amica della moglie di Gino, portarono tutti al pozzo, dove c’era mamma Cavicchi, sorvegliati da un truce nazista. Un ufficiale urlò alcuni ordini, e il gruppo di queste prigioniere fu lasciato libero.

L’azione dei nazisti, con il loro primo assalto, era stata rapidissima, un vero e proprio colpo di mano; quindici minuti in tutto. In quei quindici minuti, avevano fatto tanti morti, tanti feriti e più di cento prigionieri. È chiaro che agì in pieno il fattore sorpresa, agevolato dalle condizioni atmosferiche che riducevano la visibilità ed il controllo delle vie di accesso solo a pochi metri. Unita al fattore sorpresa agì la superiorità schiacciante del numero e del volume di fuoco, concentrato in un sol punto, che era poi il punto più debole e vulnerabile!

Forse il colpo di mano nazista ebbe l’obiettivo di creare in tutti noi uno shock psicologico, terrorizzante, di farci credere che si trattava di un grosso rastrellamento, e che a minuti saremmo stati attaccati, anche su altre posizioni, per non farci intervenire con prontezza su Pian d’Albero. Ovviamente, il colpo di mano non era avvenuto senza una lunga e attesa preparazione. Fu troppo preciso in ogni suo aspetto generale e particolare, evitò tutte le postazioni e i posti di blocco partigiani, arrivò lì all’improvviso. Loro sapevano che quello era il punto più debole, che lì c’era un centinaio di partigiani, e che solo una minoranza era armata!

Qualcuno che crede sempre di poter salare il sale, nei tempi passati, ha detto che quei poveri ragazzi armati potevano resistere un po’, per dar tempo agli altri reparti partigiani di arrivare. Ma cosa potevano fare, inesperti, giunti da poco dalla città, sorpresi nel sonno da quella furia selvaggia che si gettò loro addosso alla disperata, decisa a tutto? si trattava di lottare col fior fiore delle truppe germaniche, paracadutisti della I Divisione e SS, truppe sperimentate da Hitler sui fronti più vari e diversi, dalle battaglie d’Africa a quelle in Europa, in Norvegia, Olanda, Francia, Jugoslavia, nei ghiacciai della sterminata Russia.

La squadra composta da quattordici partigiani era addetta alla loro difesa e alla sorveglianza della zona: nei primi dieci minuti di fuoco era stata massacrata al 100%. Quattordici corpi dei suoi componenti erano attorno al fienile, alla casa, sul tetto, nel campo di grano, colpiti a morte, a testimonianza del loro assolto dovere! La squadra partigiana dei sovietici (ex prigionieri di guerra dei nazisti) fu la prima a gettarsi su Pian d’Albero, e contrattaccare i tedeschi, nel tentativo di spezzare il cerchio nazista sulla sinistra, e porre così in salvo il maggior numero di giovani partigiani catturati. Ma venne fermata a poche decine di metri dal fienile sulla stradicciola che dalle nostre posizioni porta a Pian d’Albero, dal fuoco della quarta mitraglia tedesca piazzata a sinistra.

Lì cadde eroicamente il CM della squadra, Giovanni, ex tenente dell’aviazione sovietica, colpito alla testa da una pallottola esplosiva, e rimase gravemente ferito, ad una gamba, il CP Ivan, insieme ad altri della squadra. Le altre compagnie, distaccamenti, plotoni, squadre, erano sulle rispettive posizioni, e gli uomini ai posti di combattimento. Non ci si doveva ancora muovere, perché secondo quanto ci aveva mandato a dire Gino e Giobbe, e ce lo aveva detto anche Gracco prima di precipitarsi sul luogo da dove veniva la sparatoria: “Ci dovevamo aspettare d’essere attaccati da più parti!” Finché loro non avessero mandato disposizioni diverse, dovevamo rimanere lì a difesa delle posizioni.

Così lì, al Comando della Brigata, rimasi soltanto io, senza sapere dov’erano e si trovavano gli altri componenti. In guerra avevamo sempre urgente bisogno di un buon funzionamento delle comunicazioni, che erano soltanto a mezzo di staffetta, che dovevano correre da un posto all’altro per comunicare situazioni, ordini, ecc., e quindi anche con tutta la buona volontà, la staffetta impiegava del tempo; non avevamo radio, né il radiotelefono.

Lì al Comando, non ricevetti da nessuno, alcuna notizia. Lì non arrivò nessuna staffetta. Né potevo mandarle agli altri componenti del Comando per chiedere delucidazioni, perché non sapevo dove si trovassero. Così, per mancanza di collegamenti, nessuno del Comando seppe cosa faceva l’altro. Giobbe era da una parte, Gracco da un’altra, Gino un po’ ovunque, ed introvabile nello stesso tempo. Quando scoppiò l’attacco la vita della Brigata era già iniziata: una squadra era stata mandata a prendere l’acqua, un’altra a prendere un camion di farina era partita nella nottata al Comando di Otto come CM ed Aldo come CP. Altri partigiani erano andati a fare il pane, altri a dare il cambio alle sentinelle. Non sapevamo nessuna notizia neppure di loro.

Perdemmo la battaglia per via della mancanza di comunicazioni, che ci tenevano all’oscuro di tutto e mantenevano forti reparti fuori della battaglia. Ero l’unico del Comando lasciato lì sul Poggio di Scani, con la compagnia Comando, ad aspettare l’attacco nemico che non veniva. Gli uomini erano ai loro posti di combattimento. Da dietro le mitragliatrici pesanti, che controllavano e potevano battere le provenienze da S. Polo, da Pian della Vite, dal sentiero che passa alla sinistra di Poggio alla Beccheria, e alla destra del nostro Poggio, scrutavamo per vedere il nemico, pronte ad aprire il fuoco; ma il nemico non arrivava. “Rimani a difendere il campo”, mi aveva detto Gracco, quando era corso in direzione della sparatoria. Ma il nemico non si faceva vedere, era affaccendato in tutt’altra parte.

Non convinto che ci trovassimo di fronte ad un grosso e generale rastrellamento, mi sentii impotente di fronte a ciò che stava succedendo, e intuivo che era cosa grave. Mi sentivo inutilizzato, nel momento in cui avrei potuto dare tutta la mia iniziativa. Ero arrabbiato con i miei compagni del Comando, che si erano così divisi e non facevano saper nulla. Ebbi la sensazione che il Comando non    avesse più la situazione in mano.

Mi domandavo: “Ma se ci hanno attaccato in un sol punto, cosa aspettiamo a far intervenire in profondità il grosso delle nostre forze per schiacciarli e non farne tornare nemmeno uno indietro?”

Parlai con Nonno e Raspa, poi mandai subito il CP addetto al Comando,Vittorio, che era anche l’alfiere della Brigata, a vedere cosa succedeva sul luogo del combattimento, che ancora continuava, ma dal rumore e dalla rapidità del tiro, mi sembrava di capire che la maggior pressione di fuoco veniva esercitata dalle mitraglie pesanti tedesche, e dall’inconfondibile gracidio dei bipiedi Skoda, che i tedeschi adoperavano così efficacemente sui luoghi di combattimento.

“Tieni i binocoli”, dissi a Vittorio, “corri come il vento, guarda cosa succede, e torna qui a riferirmi!”

Vittorio andò via come se fosse una palla di fucile e tornò abbastanza presto, riferendomi tutto.

“Mio Dio”, dissi, “ma se non si interviene in profondità è un macello!

Ma com’è, che non si è ancora preso Pian d’Albero?”

Gli lasciai il Comando, e di corsa, con il cuore in gola, andai da Bastiano, Gigi e Lella, CM e CP e VCP della II Compagnia Faliero Pucci detta Stella Rossa, il mio vecchio distaccamento che sentivo una creatura mia.Trovai la formazione che si stava muovendo a passo di corsa, raggiunsi Bastiano che era il primo in testa, e gli dissi sicuro del risultato: “Compagni pigliate Pian d’Albero! Salvate quei giovani e vecchi a sinistra,lì vicino alle cataste di legna, li stanno raggruppando lì per portarli via…”

Bastiano mi disse che un attimo prima, a mezzo staffetta, aveva ricevuto un bigliettino mandatogli da Gracco, che gli ordinava anche lui di prendere Pian d’Albero, perché bisognava salvare il salvabile.

“In bocca al lupo”, gli dissi, “non ti fare ammazzare!”

La Stella Rossa, appoggiata dai superstiti sovietici, si precipitò giù verso Pian d’Albero. Prima di arrivare nella zona battuta dalla mitraglia tedesca, incontrarono Gino, che disse loro: “Ma dove andate? Laggiù è pieno di tedeschi, è successa una carneficina, sono morti quasi tutti, tornate via, cercate di scappare…”

Bastiano e Lella risposero: “Noi abbiamo avuto l’ordine di occupare Pian d’Albero e andiamo avanti!” E andarono giù di corsa. Pochi metri dopo incontrarono un partigiano (era uno di quelli venuti col 113° Battaglione del Genio) che fuggiva impaurito portandosi dietro un Bren. Jan e Nick gli presero il Bren e con quello spararono contro i tedeschi che sparavano addosso a loro.

I giovani partigiani fatti prigionieri e tenuti dai tedeschi ammucchiati vicino alla catasta di legna, quando sentirono le grida: “Compagni, siamo la Stella Rossa, venite bassi verso di noi, siamo venuti a salvarvi!”, vedendo che la mitragliatrice tedesca piazzata alla sinistra, batteva inesorabilmente quella stradicciola sulla quale la Stella Rossa doveva passare, chiusero gli occhi. Il capitano medico mormorò: “Dio mio che macello, ora li ammazzano tutti. Neanche uno riuscirà a passare da quell’inferno!”

Fu una cosa eroica che rasentò la pazzia, eppure quei ragazzi della Stella Rossa passarono da quell’inferno incolumi. Non a caso su quel sentiero c’erano i russi: Giovanni deceduto e Ivan ferito ad una gamba, col muscolo scoperto. Il primo assalto venne arrestato, non lì ma a circa trenta metri dalla casa dal fuoco incrociato delle mitragliatrici tedesche.

Da lì risposero al fuoco nazista e al secondo assalto, gridando: “Siamo la Stella Rossa, abbassatevi e fuggite lontano dai tedeschi.”

Un gruppo della Stella Rossa, insieme ai sovietici, arrivò fino alla porta della casa di Pian d’Albero, un altro gruppo, superato il fienile, si portò oltre le cataste di legna, e di lì fece fuoco sui tedeschi, che si portavano via i prigionieri, gridando: “Compagni abbassatevi e venite verso di noi.”

Nella confusione alcune decine di giovani partigiani scapparono e si misero in salvo.

La porta della casa di Pian d’Albero era stata sbarrata dal di dentro, Bastiano la fece sfondare, e lì trovarono il partigiano  Truciolo, tutto sudicio di fuliggine, che andati via i tedeschi, aveva sbarrato la porta per proteggere le donne. Bastiano, Gigi, Lella e Zuppa, con i loro partigiani, trovarono la giovane Giuseppina Cavicchi e le sette donne sfollate nella stanza più buia. Prima di portarle fuori, spostarono alcuni morti e alcuni feriti per non impressionarle.

Mentre le portavano verso di noi, i nazisti aprirono un fuoco d’inferno. Giove, la macchietta della Brigata rimase ferito alle cosce da varie pallottole di mitraglia, quasi all’altezza delle ginocchia. Giuseppina Cavicchi ricordava tanti anni dopo, che mentre veniva condotta via da due partigiani sovietici, Surien e Nikita, più volte questi la coprivano, facendo scudo con i loro corpi, per salvarla dalle pallottole che piovevano tutt’intorno.

Anche i feriti come Ivan, Pugno di Ferro, Fregio, Giove, Carabiniere ed altri ancora, furono portati via dalla Stella Rossa a braccia, o con improvvisate barelle fatte da Stalino, Zambo, Triglia, Zuppa, Topo, Rombo, Baraccone, Sugo, Truciolo, Vladimiro, Picche, Saturno, Nick, Leopardo.

Quando Picche e Truciolo presero Ivan ferito, per portarlo al sicuro, lo trovarono prostrato e disperato, si voleva uccidere, per non cadere vivo in mano ai tedeschi. In un primo momento, i feriti furono portati a Casa al Monte, poi di lì, nelle ore successive, furono trasportati insieme ad altri feriti, nella casa e nella chiesa di S. Cerbone, dove il parroco, Don Gino Bartolucci, li ospitò ed improvvisò le prime cure con tanto amore.

I portantini furono Giorgio di Figline, Franco, Giulio, Zio, Vladimiro, Fino, Zuppa, Topo, Romola, Truciolo, Picche, Triglia, Garibaldi ed altri ancora.

Al compagno Garibaldi, che gli raccomandò quei feriti, l’anziano sacerdote rispose: “Non abbiate paura, sono nella casa di Dio!”

I dottori Ventura e Dottore si comportarono in modo meraviglioso. Furono aiutati dal medico di S. Polo, dr. Giulio Boschi, che aveva un fratello che militava nelle SAP di Firenze. Purtroppo questo fratello cadrà durante la battaglia per la Liberazione di Firenze, in via Carlo Bini.

Anche il trasporto dei feriti fino a S. Cerbone, non fu facile, né agevole. Avevamo costruito delle barelle tagliando il fusto di giovani alberi; i due legni erano collegati da teli di tenda abbottonati, sopra c’era una coperta sulla quale adagiammo i feriti, veniva portata da due partigiani, che accanto al ferito deponevano le loro armi, per essere pronti ad adoperarle, nel caso di brutti incontri. Ci inoltrammo verso la mulattiera che da dietro la casa di Pian d’Albero, verso nord, sul lato destro di Poggio Tondo porta alle case di Poggio alla Croce, lì dove qualche ora prima avevano stazionato un autoblindo ed un gruppo di tedeschi appiedati. Si doveva attraversare quella pericolosa rotabile, che passa sulla sinistra del basso Poggio Citerna (589 m), raggiungere la piccola frazione di S. Cerbone, dove si trovava la chiesa.

Un reparto di paras nazisti, appoggiato da un autoblindo, era ancora fermo, come per costituire un posto di blocco o di pronto intervento, tra Poggio alla Croce e S. Polo di Rubbiana. Una mezz’ora prima al Poggio alla Croce avevano portato via il cavallo al babbo di Bistecchino, che abitava lì con tutta la famiglia. Sulla rotabile stazionavano o si muovevano avanti e indietro autoblinde e tedeschi appiedati per togliere qualsiasi via a reparti o singoli sbandati.

Secondo noi, S. Cerbone era un luogo sicuro per i nostri feriti più gravi, perché fuori dal dispositivo difensivo, controllato dai partigiani, che i tedeschi avevano dimostrato con i fatti di conoscere bene. Avevamo portato un ferito grave nella villa del marchese Lapo Viviani della Robbia, il quale ci aveva confidato che i tedeschi avevano detto che il giorno dopo avrebbero fatto un grosso rastrellamento.

Da parte nostra, era più che doveroso portar fuori dal luogo di una futura battaglia, o di un grosso rastrellamento, almeno i feriti più gravi.

Ritornando a parlare di Pian d’Albero, il compagno Triglia montò sul tetto insieme a Truciolo, per portar giù il corpo di Bistecchino, che aveva ancora il suo Sten sotto di sé, ma non riuscirono nell’impresa, perché le mitraglie tedesche riaprirono il fuoco, e quindi dovettero mettersi al riparo.

Più tardi provò Giaguaro, ma anche in quell’occasione i nazisti aprirono il fuoco, senza venire avanti. La Stella Rossa si ritirò da Pian d’Albero solo dopo aver portato via tutti i feriti, lasciando sul posto un nucleo di provati partigiani, per impedire il ritorno dei nazisti. Il nucleo era formato da Nick, Jan, Giaguaro, Valerio, Vladimiro, Bologna, Zuppa, Sugo, Triglia, Leopardo ed altri che non ricordo; ma i nazisti non tornarono più all’attacco, così anche questi compagni furono poi usati per spostare i feriti da un luogo all’altro, in modo di metterli al sicuro sempre sotto il controllo dei nostri medici: Ventura, Dottore ed il dr. Giulio Boschi di S. Polo, che ormai era diventato un altro nuovo medico della nostra Brigata.

Nella mattina fin dalle ore sei Bologna, ovvero Gino Nicoletti, sottufficiale al Comando e responsabile per la panificazione fece il pane per la Brigata, come se fuori di lì non succedesse nulla. Mentre succedeva tutto questo, il distaccamento comandato dal CM Moro e CP Ciccio, che era accampato tra Casa al Monte e Poggio Tondo, sentì le prime raffiche delle mitragliatrici, i primi spari, i primi boati delle bombe a mano. Sentirono che quegli spari erano vicini a loro, ma non si erano ancora resi conto che cosa stesse succedendo, finché non giunse una staffetta che gridò: “Hanno attaccato Pian d’Albero, i tedeschi sono tanti, molti, non ce la facciamo a reggere, stanno catturando quei ragazzi disarmati!”

Come reazione a quell’annuncio, una parte degli ultimi arrivati, organizzati nel distaccamento di Moro, impauriti (la paura non fa ragionare), scapparono buttando via le armi. Moro e Ciccio, con gli uomini che rimasero disciplinatamente ai loro ordini, si spostarono sul costone di Poggio Mezzo Tondo, per essere in grado di controllare tutta la zona a nord–nord ovest della casa di Pian d’Albero. Strada facendo raccolsero diversi partigiani sbandati, che non sapevano cosa fare, e alcuni di quei giovani provenienti dal 113° Battaglione del Genio.

Lì sul Poggio Mezzo Tondo, arrivò da Moro e Ciccio un ex ufficiale del Battaglione del Genio, su un cavallo bianco, che li informò che i tedeschi non erano tanti come si credeva in un primo tempo e che bisognava attaccarli a Pian d’Albero. Moro e Ciccio con i loro partigiani si spostarono più al centro, dominando Pian d’Albero; aprirono il fuoco sui tedeschi con un Bren e con la fucileria. Alcuni tedeschi caddero colpiti, non si aspettavano quella reazione da quel lato, poi una parte fuggì in direzione nord ovest di Poggio Mezzo

Tondo, e l’altra parte, quella con i nostri prigionieri, si portò dietro la casa di Pian d’Albero, rimanendo così coperti, e fuori tiro dalle armi dei nostri partigiani. Allora Moro, Ciccio e Peko lo slavo, decisero di scendere verso Pian d’Albero, risalendo poi un po’ Poggio Mezzo Tondo a mezza costa per andare a trovare ad est di Pian d’Albero quella mulattiera che poi porta alla rotabile e che va alla Fattoria del Palagio dove c’era il comando dei paras.

Su quella mulattiera avrebbero atteso i tedeschi che con i prigionieri si ritiravano da Pian d’Albero. Per far riuscire meglio la sorpresa e quell’attacco diversivo, si divisero in due gruppi: uno comandato da Ciccio e Peko e l’altro da Moro. Il gruppo di Moro andò più avanti e quello di Ciccio rimase più dietro, così avrebbero attaccato i tedeschi in due diversi punti di quella mulattiera. L’attesa non fu delusa, dopo poco i tedeschi, che si trascinavano dietro i nostri partigiani e contadini, furono all’altezza del gruppo di Ciccio e Peko che improvvisamente aprirono il fuoco sui tedeschi, gridando: “Partigiani abbassatevi e correte verso di noi!”

I tedeschi furono veramente sorpresi da quell’imboscata e diversi partigiani corsero in direzione di Ciccio e Peko. Ciccio e Peko continuarono ad attaccare inseguendo i tedeschi su quella mulattiera, altri ragazzi riuscirono a liberarsi, ma purtroppo c’era ancora chi rimaneva lì imbambolato da una tremenda paura, che bloccava loro le gambe.

Moro con i suoi partigiani attese i tedeschi in ritirata su quella mulattiera dove c’era una gola all’altezza di Casa Calvetta e Casa Carpignano. Quando i tedeschi con i nostri compagni fatti prigionieri arrivarono lì, Moro gridò ai nostri di scappare e mettersi in salvo, e subito aprì il fuoco. Altri nostri compagni fuggirono, tra questi ricordo Gian Paolo Granisi. I tedeschi però, dotati di un armamento superiore a quello dei partigiani, riorganizzarono le proprie file e riuscirono a sferzare violenti contrattacchi, per aprirsi la via della ritirata. Cosicché, benché Moro e Ciccio continuassero ad attaccarli, i tedeschi, con un violentissimo fuoco delle loro armi automatiche, riuscirono a ritirarsi passo passo, trascinandosi sempre dietro i prigionieri rimastigli.

I partigiani si trovarono in inferiorità davanti al nemico. I tedeschi, con le loro mitragliatrici ed i loro Skoda, le machine–pistol, potevano sparare producendo un volume di fuoco infernale, i partigiani non potevano sparare con efficacia contro il nemico, nel timore di colpire i compagni. Cercarono quindi di avvicinarsi molto ai tedeschi, sfidando le loro micidiali scariche, per tirare con i loro moschetti e i loro pochi Sten, soltanto a colpo sicuro. I tedeschi non smentendo i loro metodi bestiali, ad un certo punto, si fecero scudo con i corpi dei prigionieri, costringendo i nostri quasi a sospendere il fuoco. Intanto altri reparti di tedeschi vennero ad aggiungersi ai primi, riuscendo così a proteggere la ritirata degli altri che, con i prigionieri che gli erano rimasti, riuscirono a fuggire. In quest’ultima battaglia, Moro che era  alla testa dei suoi uomini, rimase ferito da una pallottola alla spalla. Con il loro comandante ferito, i partigiani di Moro non si sentirono di prendere più nessuna iniziativa, e così l’attacco ebbe fine.

Credo che se anche si fosse fatto qualche altro attacco, non saremmo riusciti a far fuggire più nessuno, in quanto quei diciotto partigiani ed i tre contadini rimasti prigionieri dei tedeschi, erano ora in condizioni di non poter più fuggire. Moro con i suoi ripiegò sul nostro comando. Prima di arrivare al Comando si incontrò con la moglie di Gino, con il figlioletto Carlo e con Angiolina, dopo trovò uno dei primi compagni sovietici che gli fece la prima medicazione provvisoria.

I nazisti in ritirata, che avevano ricevuto considerevoli rinforzi, facendosi sempre scudo con i partigiani prigionieri proseguirono per S. Lucia, puntando sulla Fattoria del Palagio, dove c’era il comando dei paras, e di qui andarono a Sant’Andrea a Campiglia. Anche un altro distaccamento, quello della I Compagnia al Comando di Chimico, impegnò più volte i nazisti in ritirata, allo scopo di far fuggire i partigiani catturati. I nazisti però, nel frattempo, avevano fatto affluire rinforzi di paracadutisti ed SS, per meglio sganciarsi dalla zona di combattimento, che si era sempre più allargata.

Dopo svariate ore di attacchi e contrattacchi, quattordici nostri compagni erano caduti, e decine e decine erano i feriti; molto grave il compagno Carabiniere, che morirà tra sofferenze inaudite. Una quindicina di soldati tedeschi più un ufficiale erano caduti durante i cruenti scontri. Alcune decine di feriti nazisti furono portati via con automezzi e trasportati d’urgenza a Firenze e nei loro ospedali da campo.

Il sole era alto, bruciava forte, e aveva spazzato via anche l’ultimo residuo di nebbia! La sua luce ora, che sembrava fredda e spettrale, illuminava anche i luoghi più oscuri e coperti, i borri e i sentieri più inaccessibili; metteva tragicamente in rilievo la morte, il sangue, tanto sangue ovunque. Rosso di sangue nel verde dei prati, chiazze rosse di sangue sulla scura terra. Adesso era caduto quello strano silenzio, che arrivava sempre, dopo una battaglia, quando gli uomini, sorpresi dalla rapidità degli avvenimenti, cercavano di comprendere come facevano ad essere ancora vivi, e si chiedevano quanti altri fossero sopravvissuti.

Quando giunsi lì a Pian d’Albero, mi trovai immerso in un silenzio agghiacciante, un acre odore di fieno tagliato, che si mescolava, pesante,  all’odore di cordite.E lì, disseminati nell’aia contadina, intorno alla casa ed al fienile, nel grano alto, i corpi dei nostri giovani compagni e quello del vecchio capoccia Giuseppe Cavicchi.

Rimasi annientato, disperato, di fronte a tale massacro. La vita aveva lasciato quelle giovani mani, ormai rigide e fredde. Quegli occhi, ora, erano chiusi, grandi, per sempre. La voce, la parola, il pensiero, avevano lasciato quei corpi… ma quelle loro voci, erano dentro di noi, e rimbombavano insieme al battito delle nostre tempie, del nostro cuore, e dicevano: “Resistete, resistete anche per noi!”

In terra, sparsi in qua e in là, berretti militari tedeschi, elmetti germanici di paracadutisti e SS.  Anche i tedeschi avevano avuto i loro morti, ma li avevano portati via, ritirandosi. Ovunque c’era chi piangeva, chi singhiozzava per l’amico, il compagno perduto. C’erano tanti occhi spauriti, tanto dolore in quei volti, tanta rabbia repressa, timore e paura. Come sarebbe stato bello poter dare libero sfogo al pianto e al dolore.

Mi resi conto di essere uno dei maggiori capi della Brigata, che avevo delle responsabilità, e che i partigiani guardavano a me, non potevo lasciarmi andare. Loro osservavano ogni mio movimento, soppesavano ogni mia parola anche se non sembrava, osservavano ogni mio gesto. Allora ci volle tutta la mia forza di volontà, per far tacere i sentimenti. Dovevo farmi forza, stringere i denti, pensare al domani.

Eppure, anche se partigiano e comandante partigiano, non ero fatto di nessuna pasta speciale. Eravamo fatti di carne ed ossa, di sangue e di nervi, di cervello e di acqua, di pensieri e riflessioni, di sensibilità, di ansie, di paure, di angosce. Allora era con la fede nei grandi ideali che dovevo superare certi stati d’animo, vincere e dominare il dolore. Dovevo autocontrollarmi, non lasciarmi andare. Avevo un compito davanti a me da svolgere: salvare questi ragazzi superstiti, riorganizzarli, riportarli alla lotta e al combattimento; far di loro dei combattenti vincenti!

Davanti a me avevo un preciso dovere: salvare la Brigata, farla più forte, più combattiva, darle fiducia nella vittoria! Così rimasi apparentemente tranquillo, calmo, senza far trapelare nessuna ansia. Terminata la breve riunione del Comando di Brigata, andai di corsa a Casa al Monte, che praticamente era diventata la località di smistamento dei nostri feriti, per controllare di persona e rendermi conto della situazione.

Ovviamente trovai i nostri feriti, anche quelli meno gravi, molto demoralizzate angosciati. Avevano tutte le ragioni di esserlo. Ognuno avrà pensato: “Chi mi curerà? Come farò ora a sgusciar fuori dalle maglie del nemico? Ormai sono finito, speriamo che venga presto la morte!”

Cominciai a parlare con il primo, e subito mi disse che ormai era un uomo morto, sperava solo di morire presto, per non cadere nelle mani dei tedeschi, e per non soffrire troppo . Anche gli altri mi fecero più o meno lo stesso discorso. Allora mi feci forza, ricominciai dal primo, strinsi la sua testa a me e gridai forte: “Vuoi vivere o morire? Tu vuoi vivere, lo so e fai bene, e allora stringi i pugni, raccogli il fiato e grida forte insieme a me: ‘Voglio vivere! Non voglio morire! Voglio vivere e ce la farò!’ “Su anche tu grida insieme: ‘Voglio vivere, tengo duro e ce la farò! “Tu grida con noi: ‘Voglio vivere! Voglio vivere e vivrò, perché sono un partigiano della Sinigaglia!’”

Quando arrivai ad abbracciare l’ultimo ero madido di sudore e commosso, con le lacrime che mi scendevano lungo le guance. L’ultimo era Giove, la mascotte della Brigata del distaccamento Stella Rossa, erano tanti mesi che eravamo insieme in montagna, aveva la coscia trapassata da una sventagliata di mitragliatrice. Lo strinsi al petto: “Devi vivere Giove, devi farcela, abbiamo bisogno di te, devi tenerci allegri…” Giove mi interruppe: “Sei il più bravo CP del mondo, come farò a lasciarti! Ti aspetto a Firenze, mettimi da parte lo Sten e me lo riconsegnerai là!”

Dissi a tutti quei feriti: “Voi tutti guarirete! Vi nasconderanno a Firenze. Quando la Brigata entrerà da sud in città, rientrerete nei ranghi, io conserverò le vostre armi e faremo vedere a quei pezzenti di nazisti, come si fa a liberare la propria città!” Quando li lasciai per ritornare al Comando erano tutti euforici: “Gianni, ti aspettiamo, ti verremo incontro, ci rivedremo!”

Ero molto commosso, volevo molto bene ai miei compagni, mi sembrava di avere addosso tutte le loro ferite. Ritornai dal sottufficiale dei Carabinieri Ezio Baccetti al quale dissi:

“Cosa posso fare per te?”

“Prima di morire vorrei rivedere la mia fidanzata, è di un paese qui vicino…”

“Va bene, dimmi come si chiama e dove abita, mando una nostra compagna in bicicletta a chiamarla e portarla qui.”

La nostra compagna andò a chiamarla, lei prese una bicicletta e venne su insieme alla staffetta: lui ebbe la gioia di morire fra le braccia della sua amata.

Finalmente, verso le ore dodici, noi del Comando ci incontrammo per pochi minuti, durante i quali decidemmo di mettere al sicuro i feriti, prendere i contatti con i nostri collaboratori, per portarli un po’ alla volta in posti sicuri a Firenze. Intanto questi feriti furono portati nella zona di S. Cerbone, non solo nella casa e nella chiesa del parroco, ma anche in case contadine della zona. I meno gravi li facemmo portare a Casa al Monte e addirittura nella casa di Giulio al Poggio alla Croce, dove c’era Berto sofferente.

I nostri medici sarebbero rimasti vicino a loro per curarli.Sempre in quell’incontro, noi del Comando, tenendo conto del morale e della situazione psicologica nella quale i nostri partigiani si erano venuti a trovare, ci preoccupammo che, se il giorno dopo ci avessero attaccato in forze, non avremmo avuto lo spirito di resistere, contrattaccare e poi sganciarci. Decidemmo perciò di dar subito l’ordine che ogni partigiano, reparto, distaccamento, compagnia, alle diciassette si facesse trovare nella piana davanti a Pian della Vite, perché ci saremmo spostati da lì per qualche giorno. Fino alle diciassette ogni reparto doveva rimanere sul posto da tempo assegnato.

Tenendo pure conto che, al Ponte a Ema, avevamo mandato una squadra di partigiani agli ordini del CM Otto e del CP Aldo per requisire un altro camion di farina, mandammo una staffetta ad Otto e Aldo perché fossero informati della situazione. Inoltre, per meglio prevenire sorprese durante la fase del nostro sganciamento, fu deciso di costituire un posto di blocco sulla strada che dalla Fattoria di Badia Monte Scalari, scende giù verso la Panca. Per questo posto di blocco Gracco e Chimico dettero ordini a Tito, che lo costituì con Ricciolo, Chitarra ed Istrice. Erano armati di Bren e Breda 37. Fu detto loro di non muoversi fino a nuovo ordine del Comando.

Intanto dovevo sistemare Berto; era un impegno che mi ero volontariamente preso e che avrei assolto. Così mandai a chiamare il partigiano Monti. Era questi un vecchio compagno di partito, aveva avuto una bottega artigiana in via della Pergola al n° 2. La sua vita era sempre stata dura, perché perseguitato dal fascismo, più volte arrestato e confinato. Monti venne verso di me tutto agitato; era alto, snello, camminava veloce come un giovane. Ricordo che non lo feci neanche parlare, perché tutto d’un fiato gli dissi: “Monti sei stato a trovare Berto ieri sera?”

“Sì, ma sta sempre male…”

“Monti, fra tutti i compagni della Brigata, ho scelto te per una missione difficile e di fiducia; so che riuscirai, perché hai tutti i requisiti.”

“Cosa devo fare Gianni?”

“Devi salvare Berto! Lo devi portare a Firenze, e lì prendere contatti con Segrè e con il fratello di Berto, che con documenti falsi e l’appoggio del partito lo farà operare. Ti darò tutti i collegamenti e le parole d’ordine.”

“Come devo fare?”

“Noi nel pomeriggio ci spostiamo, vedrai che con il nostro spostamento anche la sorveglianza tedesca e fascista si rallenterà sulle strade…

“Per un paio di giorni sorveglia la strada che va a Firenze, guarda dove ci sono eventuali posti di blocco, e studia come fare per superarli.

“Romero che ha quella villa a Poggio alla Croce, fornirà a te e a Berto abiti quasi nuovi, ed una bicicletta, quando ti senti sicuro, prendi in canna Berto e lo porti giù. Magari fermati dai compagni del Ponte a Ema o all’Antella.

“Non ho altri mezzi da fornirti. Se pensi a qualcosa di meglio dimmelo.”

Monti mi rispose che era d’accordo, anche perché Gino gli aveva raccontato che l’ostetrica di S. Polo aveva tentato di venire al Poggio alla Croce con un’autoambulanza, dicendo che veniva a prendere una partoriente in grave stato, ma il blocco tedesco a S. Polo aveva rimandato indietro l’autoambulanza dopo averla perquisita.

“Con i mezzi motorizzati non ce la facciamo, con la bicicletta penso di sì, perché poi Berto, eventualmente, dovrà far solo qualche deviazione nel bosco per superare i posti di blocco, poi lo porto sempre io sulla canna.”

“Monti hai bisogno di soldi? Se non ce l’hai te li faccio dare da Vladimiro.”

“No, grazie, quelli che ho bastano.”

“Ricordati che noi tra due o tre giorni saremo nuovamente qui, informa di ciò Ricciolo e Segrè.

“Ti scrivo due righe per Berto, digli che una volta lette le bruci!”

“Caro Berto, guarisci presto perché sentiamo tutti la tua mancanza. Ho parecchie difficoltà da superare, ma di una cosa sono sicuro: arriveremo per primi a Firenze, guarderemo l’Arno e sui Lungarni ci incontreremo. Un forte abbraccio dal tuo  Gianni.”

Abbracciai Monti che con molta circospezione andò giù verso Poggio alla Croce. Monti portò a buon termine la sua missione e riuscì a portarlo sulla canna della bicicletta fino al Ponte a Ema in una casa dove c’era il partigiano Saetta; era lì perché ferito ad una gamba. Grazie a Gino Pallanti e Segrè fu avvertito Guerriero che veniva aprendere suo fratello con quei documenti falsi che erano rimasti in mano sua.

Guerriero andò a prenderlo e col tram lo portò dal dr. Vaselli che aveva un gabinetto medico in via Tornabuoni; il dottore gli trovò un ascesso appendicolare, ma la parte era così infiammata che non si poteva operare, bisognava tenerlo sotto ghiaccio.

 

 

Guerriero portò Berto a Villa Letizia in via Scipione Ammirato, che era una clinica diretta da una svizzera. Lì, dopo un periodo durante il quale Berto fu tenuto col ghiaccio sulla pancia, venne operato felicemente dal prof. Bartoli.

Chiusa questa parentesi, in quelle poche ore che avevamo dinanzi a noi prima di fare lo spostamento, ricordo che lasciammo andar via, ovviamente disarmato, chi non se la sentiva più di rimanere con noi. Verso altri, invece, che conoscevamo come buoni combattenti, ma che momentaneamente erano caduti in crisi di scoraggiamento, facemmo opera di convincimento affinché rimanessero. Avevamo avuto una tremenda sconfitta, di proporzioni tali da rimanere viva dentro di noi per tutta la vita, ma  questo non voleva dire che ci dovevamo arrendere e smettere di combattere.

Non c’erano scuse, né scusanti: Pian d’Albero è stata una grossa sconfitta, che non poteva essere ridimensionata, ridotta, mimetizzata, né tanto meno addolcita da belle parole, ma questo non voleva dire che bisognava tornare a casa, farla finita con la vita del partigiano. Anzi, dalla sconfitta dovevamo ricercare tutti i nostri errori, le nostre debolezze, per essere in grado di apportare tutte le necessarie correzioni.

Correggersi, modificarsi, per essere in grado di riorganizzare la Brigata, per farne uno strumento di guerra, forte, agile, disciplinato. Capace di vincere, di essere sempre all’attacco, con una mentalità vincente!

Un compagno come Moro, ufficiale addetto al Comando, seppe dare un ottimo esempio a tutti: benché ferito alla spalla, fattosi medicare, ritornò alla testa dei suoi uomini per fare lo spostamento. “Tra andare e tornare”, dissi io, “saranno quasi sessanta chilometri, ti vuoi ammazzare?”

“No Gianni, stai tranquillo, ce la farò!”

Lo lasciai complimentandomi con lui e mi inoltrai nel bosco, alla ricerca di compagni rimasti isolati o sbandati, e che si potevano recuperare alla lotta.

Fui raggiunto subito dai due sovietici Vassili e Nikita i quali, in tono di rimprovero, mi dissero: “Commissario, non puoi andare da solo, è troppo pericoloso, veniamo anche noi.”

“Grazie”, risposi.

Fatte alcune decine di metri giungemmo di fronte ad una grossa “prunaia” e sentimmo un fruscio, come se un grosso animale attraversasse quella grande massa di rovi. Ad un tratto vedemmo uscire un partigiano, detto il Siciliano: i suoi pantaloni erano ridotti ad una rete di ragno, e dalle gambe martoriate usciva abbondante sangue. Alla nostra vista si fermò, rimase un po’ perplesso, cercando di dire qualcosa, infine disse:

“Ho sentito sparare là dietro di me, allora sono corso qua.”

“Sì, sì, hai fatto bene”, risposi io.

“Non sono affatto scappato”, ribatté lui, “credevo che i miei compagni fossero qua.”

“Certamente”, confermai, “e chi ti ha detto che sei scappato?”

“Ero rimasto solo… credevo che i miei compagni fossero qua, allora sono corso in questa direzione.”

“Hai fatto bene”, gli dissi, “infatti siamo qua.”

“Sì, signore.”

“Senti, abbi pazienza, perché ‘Sì signore’? Io sono Gianni, non mi riconosci più?”

“Sì, signor Gianni!”

“Senti giovanotto, mettiamoci d’accordo: tutti mi chiamano Gianni, ed io do del ‘tu’ a tutti. E se, invece di Gianni, vuoi chiamarmi Commissario, devi chiamarmi Commissario e non signor Commissario.”

“Ma Lei”, chiese timoroso il Siciliano, “è il Commissario dei Commissari?”

“Vedi Siciliano”, risposi nel modo più tranquillo, “da noi ci si saluta, ci si chiama non stando sull’attenti  e dandoci del lei, noi siamo legati dal rispetto reciproco e dalla fiducia nei principi, che è autodisciplina, perché voluta e approvata da tutti.”

“Ma come fa Lei”, insisté il Siciliano, “a dire che io non sono scappato?”

“Lo vedo perché non hai buttato via il fucile, ma anzi lo tieni in pugno con la pallottola in canna, ed hai tutti i caricatori nelle tasche, se tu fossi scappato  avresti buttato via la bomba che tieni nella tasca sinistra e il pugnale che hai dietro la schiena. E poi, ti ho detto di darmi del tu.”

“Sì, signor Gianni.”

Visto che questo colloquio andava per le lunghe gli dissi: “Lo sai dove è la Compagnia Comando?”

“Sì, signor Commissario.”

“Allora vai lassù, cerca di Vladimiro e a nome mio digli di farti disinfettare gambe e braccia, di darti un paio di pantaloni e un giubbotto inglese e di prenderti in forza alla Compagnia Comando.

“Vai ora, vai lassù, più tardi vengo anch’io.”

Lasciato il Siciliano, proseguimmo nella ricerca di eventuali altri compagni che avessero perduto il collegamento con noi.

Ad un certo punto, in uno spiazzo del bosco, trovammo sei o sette partigiani, tra i quali Cassaio, che conoscevo da diversi anni per ragioni di lavoro.

Quando si era aggregato a noi, Cassaio, proveniente da Firenze, come un vecchio cospiratore ebbe l’intelligenza e la maturità di comportarsi come se non mi avesse mai conosciuto; io, a mia volta gli proposi lo pseudonimo di Cassaio, per ricordare suo padre che come operaio falegname, costruiva casse da morto ed era stato sempre un antifascista.

In terra, nel bosco, avevano gettato fucili, bombe a mano, munizioni ed uno Sten, arma che ogni partigiano avrebbe voluto avere.

Questi erano veramente un gruppo di sbandati che avevano già deciso di tornare alle proprie case. Compresi subito che se volevo convincere questo gruppo a riprendere le armi e rimanere inquadrati nella Brigata lo potevo fare soltanto attraverso Cassaio, utilizzando l’affetto e la stima che si erano creati nei diversi anni di comune conoscenza.

“Cassaio, che fai?”, gli chiesi.

“Vedi i tedeschi erano tanti… molti dei nostri sono scappati… alcuni sono stati catturati…”

“E allora, quale sarebbe la soluzione, secondo te? Quella di scappare anche voi?”

“Sì, quella di andare via”, rispose Cassaio.

“Quella di andare via?”, ripetei io con aria stupefatta, “ma Cassaio, mica si vince tutti i giorni! “Oggi abbiamo avuto una sconfitta, è vero, ma sono tanti i giorni nei quali abbiamo fatto tre o quattro azioni di guerriglia tutte vincenti.

“Ti pare poco quella di avere sciolto il centotredicesimo battaglione? “Tieni conto che in questo attacco d’oggi, anche loro hanno avuto i loro morti.

“Abbiamo trovato giacche tedesche inzuppate di sangue, una camicia di un alto ufficiale insanguinata e fatta a brandelli. “Anche loro hanno pagato il prezzo di questo attacco che ci voleva distruggere tutti.”

“Lo so”, rispose Cassaio, “ma noi non abbiamo il coraggio per fare questa vita, e allora ce ne andiamo.”

“Senti Cassaio”, replicai, “torni a casa e ti presenti davanti a tuo padre, che nel ‘ventennio’ ne ha subite di tutti i colori e gli dici: ‘Sai, c’è stata una battaglia, abbiamo avuto trentanove morti, e una quarantina di feriti ed io sono venuto via.’

“Tuo padre, che io conosco bene, ti guarderà negli occhi e ti dirà: ‘Perché non sei rimasto a sotterrare i morti, a curare e nascondere i feriti? Ma che figlio di puttana sei?’”

“Sì, lo so, mi dirà così, e mi picchierà anche…”

“Lo so”, replicai, “che ti picchierà e farà bene, perché ha subito vent’anni di prepotenze fasciste e contava tanto su di te.

“No Cassaio, proprio per il bene che ti voglio e per la stima che ho verso tuo padre, non ti posso permettere la fuga. Tu rimani qui, te lo dico io.”

“Come faccio a rimanere? Sono anche malato.”

“Malato? Anche ieri eri malato? E perché non l’hai detto a Vladimiro o ai due medici che fortunatamente abbiamo?”

“Mi vergognavo”, rispose Cassaio.

“Ho capito”, dissi, “tu hai bisogno di sulfamidici, vero?”

“Sì perché con lo sforzo che abbiamo fatto a camminare, mi è tornato lo ‘scolo’.”

“Beh, li faremo comprare domani, da Vladimiro o direttamente dal dottore. “Oggi, lo vedi, non è il caso. Ci saranno i posti di blocco nazisti su tutte le strade.”

“No”, disse Cassaio, “torno a casa. Mi picchierà, mi maltratterà, ma è sempre mio babbo.”

“Ma è il dolore che tu darai a questo babbo, non pensare ai ceffoni che ti darà, pensa a quest’uomo perseguitato dal fascismo, che ti crede in montagna a fare il suo dovere e invece ti vede tornare con la coda tra le gambe.

“No, Cassaio, questo io non te lo posso permettere, dovessi legarti qui con una catena lo farò.” Si mise a piangere.

“Allora cosa devo fare?”, chiese tra le lacrime.

“Raccogli e fai raccogliere queste armi gettate a terra. Prendi lo Sten e mettilo a tracolla, come lo teniamo noi, con la canna in avanti. Con i poteri che mi derivano dalle responsabilità che ho, ti nomino caposquadra di questi sette compagni.

“Presentati a Vittorio affinché ti prenda in forza.”

“Alla compagnia Comando ci prenderanno in giro perché loro sono tutti bravi e disciplinati”, protestò Cassaio.

“Alla compagnia Comando ci sono dei partigiani che sono dei combattenti duri, che avanzano quando bisogna avanzare, che si ritirano quando gli viene ordinato di ritirarsi, che resistono fino all’inverosimile.

“In questa compagnia troverete compagni che vi aiuteranno e non vi prenderanno in giro. Compagni che vi aiuteranno a diventare dei bravi combattenti.

“Sono in prima fila di questa compagnia e ci rivedremo sempre, vi aiuterò sempre.”

“Va bene”, disse Cassaio, “faremo così, va bene Gianni.”

L’esperimento dette ottimi risultati. Fino alla fine della lotta combatterono con onore e coraggio, facendo dimenticare la debolezza patita durante quella dura giornata.

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