Le stragi nascoste – Quattro casi di ordinaria violenza, insabbiati
Le stragi nascoste
Quattro casi di ordinaria violenza, insabbiati
(4) Vicenza
La particolare tipologia delle stragi che tra la fine dell’aprile e l’inizio del maggio 1945 si accompagnarono all’estrema ritirata dei tedeschi e dei fascisti dalle vallate dell’Italia settentrionale è esemplificata da quanto avvenne a Lonigo (Vicenza) il 26 aprile. Una colonna di carristi tedeschi (Btg. Fallschirmjàger Rgt. 10) catturò cinque persone di età compresa tra i 16 e i 25 anni, armate di fucile modello 1891; si trattava di giovani improvvisatisi guerriglieri sull’onda dell’entusiasmo per l’imminente liberazione dell’Italia. Diffusasi la notizia della cattura, l’arciprete del luogo e un comandante partigiano si recarono dal maggiore Alfred Grundmann, cui richiesero di risparmiare le vite dei prigionieri, ottenendone ampie rassicurazioni: li si considerava quali ostaggi, trattenuti a garanzia della tranquillità della ritirata. Le cose andarono in modo diverso: «Nonostante il maggiore Grundmann avesse data a mons. Caldana la sua parola di ufficiale che, in ogni caso, non avrebbe fatto fucilare i cinque, questi venivano il giorno successivo trovati uccisi in un fossato di via Marona». Nel dicembre 1945 i carabinieri di Lonigo denunziarono al comando militare alleato e alla questura di Vicenza il maggiore Grundmann, del quale si forni Fidentikit: «statura m 1,78 circa, corporatura robusta, colorito roseo pallido, capelli biondi ondulati, età anni 36-38». Nei mesi successivi il maresciallo dei carabinieri raccolse le dichiarazioni di alcuni testimoni. Ecco la deposizione del partigiano che aveva parlamentato con Grundmann:
Mi disse che i giovani non li lasciava liberi ma li avrebbe trattenuti in ostaggio e nel contempo mi incaricò di far conoscere alla popolazione ch’egli avrebbe ordinato rappresaglia contro la cittadinanza qualora questa avesse arrecato dei danni ai soldati tedeschi. Continuò con l’affermare che avrebbe provveduto ad inviare i giovani a Montebello Vicentino, ove aveva sede altro comando germanico, ma assicurò nuovamente che gli stessi non avrebbero subito alcun danno fisico.
Verso le ore 20 dello stesso giorno [26 aprile 1945] i cinque fermati, scortati da due soldati tedeschi, partirono a piedi per Montebello Vicentino. Provvidi ad informare il comando della divisione partigiana ed il giorno successivo mi fu fatto sapere che i giovani non risultavano essere giunti a Montebello.
L’indomani fui avvertito che in Via Marona, in un fossato laterale alla strada, si trovava il corpo di cinque giovani fucilati. Erano i cinque partiti da Lonigo, sul conto dei quali era stata data la assicurazione sulla loro incolumità. Essi sono: Burattini Pietro, Fasolin Dino, Zigiotto Alberto, Zigiotto Angelo e certo Mussopapa, siciliano. Presentavano scariche di mitra alla testa ed al petto.
La stessa mattina del rinvenimento dei giovani, il maggiore Grundmann si era allontanato da Lonigo.
La parte conclusiva della verbalizzazione della donna austriaca utilizzata dai tedeschi quale interprete nelle trattative con le autorità locali evidenzia quali fossero le reali intenzioni dell’ufficiale germanico, dietro la parvenza rassicurante e le dichiarazioni bonarie:
Prima di allontanarmi ebbi ancora modo di parlare col maggiore Grundmann, al quale rinnovai preghiera di lasciar liberi i giovani, poiché ritenevo che essi si trovavano chiusi in qualche luogo quali prigionieri. Ottenni sempre dal maggiore le stesse affermazioni ed assicurazioni.
Il Grundmann in compagnia del tenente si allontanò dall’albergo uno o due giorni dopo, di buon mattino. Prima di partire il tenente si rivolse ai 1, suoi due soldati e disse: «Meglio sarà fucilare anche la donna austriaca». Io intesi la proposta, feci una svolta fra i corridoi e mi nascosi in un’abitazione vicina, sino a che i militari non si allontanarono definitivamente.
Non conosco il nome del tenente, né quello dei soldati. Il maggiore Grundmann, a quanto appresi da un soldato, è nativo di un paese della Prussia occidentale o nei pressi di Berlino. Egli parlava bene, con accento berlinese che io conosco bene.
Nel maggio 1946 il maresciallo dei carabinieri di Lonigo concluse le sue indagini, rammaricato che non gli fossero «pervenute richieste di alcun genere, relative all’episodio in questione, da parte di autorità alleate». Era questa una delle situazioni ricorrenti di impulso iniziale all’individuazione dei responsabili che, forte a livello locale, non trovava riscontri ai livelli superiori. L’Ufficio procedimenti contro i criminali di guerra tedeschi stabilì peraltro che «la responsabilità dell’imputato appariva evidente, dato che nella sua qualità di
comandante di battaglione poteva egli soltanto decidere sulla sorte dei 5 partigiani fatti prigionieri, della cui incolumità personale si era, anzi, in un primo tempo fatto garante, come da assicurazione data alle varie personalità che si erano recate da lui per ottenere addirittura il rilascio dei catturati». Si valutò dunque che «dalle prove acquisite agli atti risultano sufficienti elementi di responsabilità a carico dell’imputato, motivi per cui l’istruttoria può ritenersi ultimata». Il fascicolo contro il maggiore Grundmann rimase celato per
mezzo secolo nell’inaccessibile sede della Procura generale militare. Riaperte le indagini, nel 1997 il giudice per le indagini preliminari del Tribunale militare di Padova, ritenuto «che la fucilazione di 5 uomini catturati con armi e in atteggiamento ostile alle FFAA germaniche non appare essere atto contrario ai principi di diritto bellico» archiviò il procedimento.
Tratto da
Le stragi nascoste
Di Mimmo Franzinelli
Editore Le Scie Mondadori 2002
Giulio Stocchi Se ne stava così triste
Giulio Stocchi
Se ne stava così triste
il gran re
che l’ospite lacero
ne ebbe pietà
e degli inferi scese
gli infiniti gradini…
Ma la favola di Alcesti
può essere oggi
raccontata così:
Se ne stava così lacero l’ospite
che il gran re ne ebbe fastidio
e agli inferi ordinò che fosse condotto
degli infiniti gradini
Giulio Stocchi L’amico mio caro si chiede se “per far guarir l’Italia”
Giulio Stocchi
L’amico mio caro si chiede se “per far guarir l’Italia”
occorra “spaccar la testa ai sciur”
come dice l’antica canzone
La mia risposta è inequivocabilmente: “Sì”
Senza corpi contundenti però
bensì sconfiggendo
le loro vetrine la loro televisione le loro idee
Perché ciò avvenga occorre che “i non sciur”
comincino a pensare
o quantomeno a pensare diversamente
da come “i sciur” hanno loro insegnato
con le loro vetrine la loro televisione le loro idee
Il difficile è appunto
questo
Chiara Ferrari . Lassù sulle colline del Piemonte
Cantavano i partigiani
Breve rassegna (e breve storia) di alcune famose canzoni della Resistenza,
dei loro testi e dei luoghi dove sono nate
Lassù sulle colline del Piemonte è la trasformazione della canzonetta Laggiù nel paradiso delle Haway da parte di alcuni studenti partigiani milanesi che ne riprendono la melodia. Esiste anche una versione dei partigiani dell’Appennino Emiliano: Lassù sulle colline di Bologna
Per ascoltare
La canzone
Lassù sulle colline del Piemonte
ci stanno i partigiani a guerreggiar
guardando la pianura all’orizzonte
aspettano il momento di calar,
ma un dì pure tu laggiù ritornerai
la mamma e la bella abbraccerai,
ma un dì pure tu laggiù ritornerai
la mamma e la bella bacerai.
Lassù in un lontano casolare
la mamma con le mani giunte sta
pregando per il figlio che combatte
per dare all’Italia libertà
ma un dì pure tu laggiù ritornerai
la mamma e la bella bacerai,
ma un dì pure tu laggiù ritornerai
la mamma e la bella abbraccerai.
Chiara Ferrari – La su quei monti
Patria Indipendente
Cantavano i partigiani
Chiara Ferrari
Breve rassegna (e breve storia) di alcune famose canzoni della Resistenza,
dei loro testi e dei luoghi dove sono nate
Là su quei monti, scritto sull’aria di Là su quei monti c’è un’osteria o Vinassa vinassa, è il canto delle Brigate Giustizia e Libertà attive nella pianura cuneese
Per ascoltare
La Canzone
https://youtu.be/Fa3JFbnx0nU
Là su quei monti fuma la grangia,
dove s’arrangia, dove s’arrangia…
là su quei monti fuma la grangia
dove s’arrangia il partigian.
Il partigiano, l’arma alla mano
guarda lontano, guarda lontano,
con la certezza che porterà
giustizia, giustizia e libertà.
Là su quei monti stanno sparando,
là c’è il comando, là c’è il comando…
là su quei monti stanno sparando,
là c’è il comando dei partigian.
Il partigiano, l’arma alla mano…
Là su quei monti le stelle alpine
crescon vicine, crescon vicine…
là su quei monti le stelle alpine
crescon vicine ai partigian.
Il partigiano, l’arma alla mano…
Là su quei monti, sotto quei fiori,
stanno i migliori, stanno i migliori…
là su quei monti, sotto quei fiori
/stanno i migliori dei partigian.
Il partigiano, l’arma alla mano…
Trilussa – L’editto
Trilussa
L’editto
Dicheno che una vorta
un Prete nun entrò ner Paradiso
perché trovò ‘st’avviso su la porta:
«D’ordm’e de Dio Padre onnipotente
è permesso l’ingresso solamente
a queli preti ch’hanno messo in pratica
la castità, la carità, l’amore
che predicò Gesù nostro Signore.
Se quarchiduno ha fatto a l’incontrario
sarà mannaro subbito a l’inferno.
Firmato: Er Padre Eterno.
San Pietro, segretario. »
Povero me! So’ fritto!
disse er Prete fra sé — Tra tanti mali
ciamancava l’affare de ‘st’editto!
Chi diavolo sarà che ie l’ha scritto?
Naturarmente, l’anticlericali…
Trilussa – (Er Sorcio de città e er Sorcio de campagna
Trilussa
(Er Sorcio de città e er Sorcio de campagna
Un Sorcio ricco de la capitale
invitò a pranzo un sorcio de campagna.
Vedrai che bel locale,
vedrai come se magna…
je disse er Sorcio ricco. – Sentirai!
Antro che le caciotte de montagna!
Pasticci dórci, gnocchi,
timballi fatti apposta,
un pranzo co’ li fiocchi! una cuccagna! –
L’istessa sera, er Sorcio de campagna,
ner traversà le sale
intravidde una trappola anniscosta:
Collega, – disse – cominciamo male:
nun ce sarà pericolo che poi…?
Macché, nun c’è paura:
j’arispose l’amico – qui da noi
ce l’hanno messe pe’ cojonatura.
In campagna, capisco, nun se scappa,
ché se piji un pochetto de farina
ciai la tajola pronta che t’acchiappa;
ma qui, si rubbi, nun avrai rimproveri:
le trappole so’ fatte pe’ li micchi:
ce vanno drento li sorcetti poveri,
mica ce vanno li sorcetti ricchi!
Trilussa – Er congresso de li cavalli
Trilussa
Er congresso de li cavalli
Un giorno li Cavalli,
stufi de fa’ er Servizzio,
tennero un gran comizzio de protesta.
Prima parlò er Cavallo d’un caretto:
Compagni! Si ve séte messi in testa
de mijorà la classe,
bisogna arivortasse a li padroni.
Finora semo stati troppo boni
sotto le stanghe de la borghesia!
Famo un complotto! Questo qui è er momento
d’arubbaje la mano e fasse sotto!
Morte ar cocchiere! Evviva l’anarchia! –
Colleghi, annate piano: –
strillò un polledro giovane
d’un principe romano –
ché se scoppiasse la rivoluzzione
io resterebbe in mezzo a un vicoletto
perché m’ammazzerebbero er padrone.
Sarà mejo, piuttosto,
de presentà un proggetto ne la quale…-
Odia micchi, gras tibbi, è naturale!
disse un morello che da ventun’anno
stracinava el landò d’un cardinale. –
Ma se ce fusse un po’ de religgione
e Sant’Antonio nostro c’esaudisse…-
L’Omo, che intese, disse: – Va benone!
Fintanto che ‘sti poveri Cavalli
vanno così d’accordo
io faccio er sordo e seguito a frustalli!
27 Gennaio 1945 Giornata della Memoria Olocausto
Dachau
«Io, superstite di Dachau Ho giurato di raccontare l’orrore dei morti viventi»
Parla Parete, ex finanziere scampato allo sterminio
«Un inferno tra puzza di carne bruciata e suicidi»
27 gennaio 2011
GIORNATA DELLA MEMORIA OLOCAUSTO
«Il ginocchio nudo di una donna, fino a 20 anni, non l’avevo mai visto: le ragazze si coprivano con le gonne lunghe e le calze nere di cotone. La prima volta che l’ho visto è stato nel campo di concentramento di Dachau quando le Ss ci hanno fatto spogliare tutti insieme: uomini, donne e bambini. Eravamo appena arrivati dopo un viaggio di tre giorni e tre notti ammassati in carri bestiame». Ermando Parete, 88 anni, è un ex finanziere scampato all’orrore nazista: «Ho il dovere di parlare, l’ho giurato», dice nel giorno della Memoria. La sua testimonianza di sopravvissuto è affidata anche a un video su Youtube.
Ermando Parete è riuscito a resistere ai nazisti: nella sua casa di Pescara custodisce gli attestati dei presidenti della Repubblica, a cominciare da un documento di Sandro Pertini, controfirmato dal ministro dell’Interno Giovanni Spadolini. Parete, ricorda il primo giorno a Dachau?
«Dopo un rastrellamento a Udine, siamo stati buttati in carri bestiame e ci sono voluti tre giorni e tre notti per arrivare a Dachau: sempre in piedi, ammassati come animali. Non sapevamo dove stavamo andando: nessuno sapeva niente. Quando siamo arrivati, ci hanno fatto scendere dal treno e abbiamo sentito un odore forte di carne bruciata: pensavamo che i tedeschi stessero facendo la carne arrosto. Poi, abbiamo capito che era carne umana: non era odore, quella era puzza. C’erano sette forni crematori, accesi 24 ore al giorno. È incredibile quello che è successo dopo: ci hanno radunato in uno stanzone e ci hanno costretto a spogliarci tutti insieme, uomini, donne e bambini. Tutti nudi: vedere intere famiglie senza vestiti è stato indecente. Lì ho visto per la prima volta il ginocchio nudo di una donna: prima le donne portavano le gonne lunghe e indossavano calze nere di cotone. Il nylon non esisteva: è arrivato negli anni Cinquanta con gli americani».
Per lei Dachau è stato l’apice dell’orrore. Prima del 1944 cosa le è successo?
«L’armistizio dell’8 settembre 1943 l’abbiamo saputo quattro giorni dopo da un prete slavo: non c’erano i telefonini. Mi sono arruolato a 20 anni nella guardia di finanza e sono stato mandato a combattere in Jugoslavia. Dopo l’armistizio, mi sono unito ai partigiani per tornare in Abruzzo ma a Cimadolmo (Treviso) sono stato catturato e tenuto in una cella buia nei sotterranei del carcere di Udine. Da Udine, la partenza del viaggio verso l’orrore di Dachau. A Dachau sono stati deportati 10.362 italiani. Di questi 9.958 sono stati fucilati e bruciati nei forni crematori. I sopravvissuti sono stati 404 e tra questi ci sono anch’io».
Dopo l’arrivo a Dachau cosa è accaduto?
«Dopo lo spettacolo indecente dei corpi nudi, i tedeschi ci hanno diviso: gli uomini da una parte e le donne dall’altra. I bambini? Li hanno strappati dalle loro madri e quelle che hanno provato a tenerli legati a loro sono state uccise a pistolettate. In queste condizioni, siamo rimasti seminudi per giorni fino a quando ci hanno consegnato un pigiama. La nostra divisa: una casacca zebrata. Poi ci hanno preso i documenti e li hanno bruciati».
Ha perso il suo nome ed è diventato un numero?
«Io ero l’uomo numero 142.192, me l’hanno scritto su un braccio. Un marchio che una volta tornato a casa ho deciso di rimuovere. Ma a Dachau non si perdeva solo il nome: i tedeschi creavano dei morti viventi senza lasciare niente al caso. Lo sfinimento dei lavori forzati, la paura di andare ancora vivi nelle bocche dei forni crematori, l’arroganza dei kapò, l’ombra inquietante delle belve Ss: tutto ciò che rende l’uomo un semplice numero da aggiungere o da sottrarre al tabellone della morte. Ci sputavano in faccia: non capivamo i numeri gridati in tedesco dai soldati e se la prendevano con noi. Poi, sono cominciati i lavori forzati: io ero addetto ad aggiustare la ferrovia, togliere le campate di ferro danneggiate dalle bombe e mettere quelle nuove. Lavoravamo con gli zoccoli di legno ai piedi, anche con la neve e chi scivolava e non si rialzava veniva ucciso a bruciapelo: si ammazzava una persona per niente e non ho mai capito perché. Per noi italiani era peggio: eravamo considerati “It”, italiani traditori».
Le giornate erano tutte uguali e terribili?
«Sveglia tutti i giorni alle 4 e mangiavamo della brodaglia con le mani, una volta la mattina e un’altra la sera. La prendevamo direttamente dai bidoni della nafta: tutto quello che riuscivi a prendere con le mani, lo mettevi in bocca. Durante i lavori forzati, mangiavo l’erba che cresceva lungo i binari: era lattiginosa. Però, dovevo farlo di nascosto altrimenti mi avrebbero ucciso. Ai megafoni i tedeschi dicevano: “Non uscirete vivi da qui, passerete dai forni crematori”, “Nessuno di voi riuscirà a liberarsi”. Gli italiani della provincia di Bolzano ci traducevano le voci. Così molti si andavano ad ammazzare gettandosi sul filo spinato con l’alta tensione: non ce la facevano più. Altri si infornavano vivi. Non ho mai capito perché quando una persona non ce la faceva più a stare in piedi veniva picchiata a morte: ma a che serviva? Una volta, durante i lavori forzati, eravano tutti incatenati e la persona accanto a me è scivolata e non si rialzava: gli hanno sparato. Mi ricordo che la materia organica del suo corpo mi è finita addosso».
Lei è stato sottoposto a esperimenti scientifici?
«Sono entrato in una camera e ho visto una persona, non so se viva o morta. Non si poteva neanche chiedere. Mi hanno immerso in una vasca con ghiaccio. Era un test per verificare fino a che temperatura il corpo può resistere. Quando mi sono svegliato ero nudo, per terra, e non ce la facevo neanche a rivestirmi. Ero ghiacciato. In quel momento ho detto basta: mi vado a menare pure io».
Ha pensato di uccidersi?
«Mi sono messo a camminare con quegli stracci in mano e pensavo solo a come farla finita: se gettarmi sul filo spinato o andare verso i forni crematori. Poi, ho ripensato a mio padre, a una lite quando non mi voleva mandare a fare il soldato perché diceva che così sarei andato a morire. Ho riflettuto e mi sono detto: ma perché mi devo uccidere, morirò quando devo morire. E ho rinunciato: la gente buttata per terra mi chiedeva di resistere per raccontare tutto».
Lei si è trovato davanti a un plotone di esecuzione. Cosa ha pensato quando stavano per fucilarla?
«Erano le sei di sera del 29 aprile 1945 quando mi hanno portato alla fucilazione. Sentivo le scosse da tutte le parti del corpo e le sento ancora oggi: pensavo se avrei sentito dolore, chissà dove mi avrebbero colpito, se in fronte o al petto, se sarei morto subito oppure no. C’era anche lo scolatoio del sangue: quante volte ho dovuto pulire il sangue ghiacciato. Invece, non è arrivato nemmeno un colpo. Poi ecco una camionetta con i soldati americani. Io sono scappato e mi sono nascosto: avevo paura che, dalle torrette, i tedeschi avrebbero aperto il fuoco con i mitra. Invece, non è partito neanche un proiettile: i tedeschi si sono arresi e si sono lasciati uccidere. A terra c’erano cataste di cadaveri: un piazzale di morti e vivi, tutti insieme».
Ha pensato a un fatto miracoloso?
«Il 30 aprile è arrivato il cardinale Montini, il futuro papa Paolo VI, che ci disse che per noi italiani non c’era possibilità di rimpatrio e che dovevamo restare a Dachau ad aspettare. Fu Montini a mandare un telegramma alla mia famiglia ad Abbateggio per informare che ero ancora vivo: quel telegramma lo conservo ancora».
Decise di tornare a casa a piedi?
«Il primo maggio mi misi in cammino senza sapere quale direzione prendere. Un cammino di 37 giorni e 36 notti dormendo appoggiato agli alberi. Al confine gli americani mi diedero pane, cioccolata, gomme da masticare. Poi in Italia, più niente: nessuno ha voluto aiutarmi, la gente ti cacciava via. Mi ricordo che quando sono arrivato a Pescara, era giugno: ho visto il mare ma non c’era nessuno sulla spiaggia. Mi mancava solo una notte di cammino, sembrava incredibile: mi sono addormentato e mi sono svegliato bruciato dal sole. Quando sono arrivato ad Abbateggio pesavo 29 chili e settecento grammi: avevo i capelli tagliati a metà, la barba lunga, le unghie tagliate con i denti. Mi hanno fatto anche delle foto in quello stato ma mia madre le ha bruciate perché erano orrende: oggi vorrei riaverle, pagherei chissà quanto per mostrarle ai giovani. Appena tornato, non mi diedero da mangiare: due medici mi dissero che se avessi mangiato sarei morto. Misero un paio d’uova nell’alcol e, quando il guscio si sciolse, mi fecero bere quel liquido».
E il giorno dopo si è riposato?
«Il giorno dopo, da Abbateggio, mi sono rimesso in cammino: mia madre aveva fatto un voto e così sono andato con lei, a piedi, al santuario del Volto Santo di Manoppello. Nel 1985 sono
tornato a Dachau con mia moglie Assunta, da poco scomparsa, e con mio figlio Donato».
Da allora lei racconta l’orrore. Perché?
«L’ho giurato ai miei amici di Dachau: mi dicevano “tu sei giovane, devi resistere. Salvati e racconta a tutti l’inferno di qui dentro”. E così faccio: è una missione, il dovere della memoria. Quando vado nelle scuole, i ragazzi quasi si arrabbiano con i professori: mi dicono che studiano Giulio Cesare ma che non sanno quasi niente di quello è successo durante la Seconda guerra mondiale. È commovente parlare con i ragazzi e abbracciarli».
L’orrore non l’ha abbandonata, vero?
«Sono passati più di sessanta anni ma devo dormire con una luce accesa e, a volte, anche un aereo che sfreccia nel cielo mi fa svegliare di soprassalto e pensare che qualcuno mi voglia sparare
Ringrazio “Il Centro Pescara”
Giuseppe Ungaretti – Pellegrinaggio
Giuseppe Ungaretti
Pellegrinaggio
In agguato
in queste budella
di macerie
ore e ore
ho strascicato
la mia carcassa
usata dal fango
come una suola
o come un seme
di spinalba
Ungaretti
uomo di pena
ti basta l’illusione
per farti coraggio.
Un riflettore