Mario Lombardo – Più feroci della Gestapo 1 Parte
Pubblicato da toscano
Mario Lombardo
Più feroci della Gestapo
Prima Parte
Le forze di polizia della repubblica, quelle che ben presto saranno comunemente conosciute come « bande di repressione », si costituiscono prima a Roma e a Firenze, poi nelle zone dell’ Italia settentrionale che risentono più direttamente della occupazione nazista. I compiti sono quelli di affiancare i tedeschi nelle operazioni di pubblica sicurezza, di combattere i partigiani e gli oppositori del fascismo. In pratica, anche se non in forma ufficiale, gli è attribuita facoltà di fermare i cittadini « sospetti », di perquisire, arrestare, interrogare, torturare, condannare a morte ed eseguire le sentenze.
Nonostante siano mutati compiti e uniformi, le loro origini possono essere fatte risalire alle « squadre di assalto » e a quegli Arditi degli Anni Venti, che avevano contribuito alla definitiva affermazione del regime nelle città e nelle campagne, sottomettendo gli avversari a colpi di manganello, o nel più benevolo dei casi con dosi adeguate di olio di ricino. Anche la violenza cui ricorrono sistematicamente è quella che il fascismo ha usato in tutte le battaglie politiche e sociali, sino a codificarla a livello di metodo abituale.
Suddivise in gruppi più o meno numerosi, ma sempre violenti e feroci, queste bande sono forti di alcune migliaia di uomini che nella maggior parte dei casi sono fascisti di antica data, « squadristi » tenutisi in disparte dopo il 25 luglio, e ora tornati alla ribalta perché sicuri della protezione offerta dai tedeschi. Molti sono semplicemente disperati pronti a tutto, che pensano di trarre qualche vantaggio dalla posizione e dai mezzi che la nuova uniforme mette a loro disposizione.
Alcuni, una minoranza, provengono da carceri e da penitenziari, e sono delinquenti comuni liberati perché entrino come « volontari » nella polizia della R.S.I.
Quali siano gli intenti e le attività di questi uomini, di questa polizia « fascista » che opera a fianco e al di là di quella ufficiale come esponente autorizzata del nuovo governo « repubblicano », è presto evidente.
Edmondo Cione, uno storico del periodo fascista, nella sua Storia della Repubblica Sociale Italiana scrive che: « Gli istinti belluini e predaci, feroci e sadici apertamente scatenati nel periodo sfrenato dell’anarchia han preso in un secondo tempo a agire apertamente insinuandosi nel corpo stesso dello Stato. Alcuni criminali, parecchi indegni, molti disonesti si sono subdolamente introdotti nell’ amministrazione governativa che si veniva lentamente riorganizzando e vi si sono annidati per continuare insidiosamente la loro opera nefasta, che in altri tempi dovevano svolgere per lo meno apertamente ».
La ferocia legalizzata messa in opera da queste forze di polizia è tale che spesso anche gli organi ufficiali del governo di Mussolini cercano di scindere la propria responsabilità da quella di queste « squadre di azione ». Gli uomini che le compongono sono odiati dagli italiani anche più di quanto non siano gli stessi nazisti. E Ferruccio Parri, che ne conosce da vicino i metodi brutali, li definisce « massacratori all’ingrosso », e anche « bande di assassini ».
La prima di queste bande, quella che ha data di nascita più antica e anche vita più breve, perché viene posta sotto inchiesta e giudicata dagli stessi fascisti, è la « Guardia Armata di Palazzo Braschi », nota anche come « Fascio Romano ». A Roma infatti una decina di fascisti, accompagnati da elementi tedeschi, prende possesso della precedente sede del partito a Palazzo Braschi, e ricostituisce la « Federazione dell’Urbe » approfittando della situazione confusa venutasi a creare dopo la fuga a Pescara del Re e del suo governo. Pochi giorni dopo, il 16 o 17 settembre, gli squadristi, romani eleggono « Commissario Federale dell’Urbe » Gino Bardi, che fino al 31 luglio 1943 è stato direttore della « Federazione nazionale fascista dei pubblici esercizi ».
Romano, quarantenne, Bardi è uno degli esponenti dell’ala più estremista e intransigente del regime. Chiama al sua fianco, in posizione di comando, il vecchio squadrista Guglielmo Pollastrini, ex-ufficiale dei carabinieri, altro elemento estremista cui affida la « Guardia Armata » o squadra di azione. I due dispongono di centoventi elementi, divisi in dieci squadre che hanno ricevuto il porto d’armi direttamente dal Comando Tedesco della capitale.
Dovrebbero provvedere a normali azioni di polizia, e invece si abbandonano a quelle che i fascisti definiscono « iniziative controproducenti », operando arresti arbitrari e senza alcuna garanzia di legge, seviziando gli arrestati durante gli interrogatori cui li sottopongono, sequestrando beni e proprietà, perquisendo e devastando negozi, abitazioni private, magazzini di merci pregiate.
I crimini perpetrati dalla banda, che hanno suscitato l’immediata ribellione dei romani, non passano inosservati neanche agli occhi delle autorità nazifasciste. Su disposizione del generale tedesco Rainer Stahel, il 25 ottobre 1943 una lettera del Capo della Polizia invita Bardi e i suoi uomini a cessare ogni attività, a consegnare coloro che hanno arrestato alle autorità del carcere di Regina Coeli, nonché a rendere ‘conto di quanto di illegale hanno compiuto fino a quel giorno.
La diffida viene rinnovata il 2 novembre seguente, mentre la « Guardia Armata » continua tranquillamente a procedere come nel periodo precedente. Finalmente la sera del 26 novembre il questore di Roma, protetto da agenti di Pubblica Sicurezza e della P.A.I. (Polizia Africa Italiana), irrompe in corso Vittorio Emanuele, a Palazzo Braschi, arrestando Bardi e i suoi uomini. Nelle celle, che sono state improvvisate all’ interno dell’edificio, ci sono ventiquattro detenuti, che mostrano chiaramente i segni delle sevizie che hanno subito.
E nelle cantine, nelle stanze, sono immagazzinate grandi quantità di tessuti, armi, generi di abbigliamento e di lusso. I cortili del palazzo sono pieni di automobili, di moto e di biciclette sequestrate in tutta Roma dagli uomini del « Fascio Romano », che portano gli stivali e i calzoni alla cavallerizza, la camicia nera, e una lunga giacca, di tessuto impermeabile, che arriva fin quasi al ginocchio.
E inutile dire che l’arresto di Gino Bardi e dei suoi complici si risolve in una pura e semplice formalità, perché pochi giorni dopo tutta la banda che compone la « Guardia Armata » torna libera, anche se le viene impedito di proseguire le sue imprese.
Solo dopo la Liberazione, nell’estate 1947, Bardi, Pollastrini e altri cinquantaquattro della banda sono sottoposti a processo regolare. E Bardi sarà condannato a 22 anni e 6 mesi di carcere; Pollastrini a 28 anni; Carlo Franquinet, che ha diretto l’ufficio stampa, a 23 anni; Giulio Cesare Milano, capitano di complemento dell’artiglieria, a 21 anni; Benito Pollastrini, figlio di Guglielmo, a 14 anni e 8 mesi.
A molti altri imputati toccheranno varie pene detentive, a tutti la condanna al risarcimento dei danni nei confronti delle vittime delle estorsioni, dei furti, delle violenze che il « Fascio Romano » ha compiuto.
Contemporaneamente a quella di Palazzo Braschi a Roma, un’altra banda agisce a Firenze, agli ordini del milanese Mario Carità, un confidente politico della questura che dopo l’8 settembre si è presentato ai tedeschi entrando ai loro ordini come ufficiale di collegamento.
In ottobre Carità affida però l’incarico al tenente Giovanni Castaldelli (un prete di Bergantino che ha gettato la tonaca per la divisa), e con il grado di maggiore assume il comando del « Reparto Servizi Speciali », dipendente dalla XCII Legione della Milizia.
Gli sgherri di Carità, dopo varie sedi provvisorie, ne trovano una definitiva nel gennaio 1944, al numero 67 di via Bolognese, che assume presto una trista fama come luogo di torture. Altri uffici della banda sono, sempre in Firenze, presso l’Hotel Excelsior e l’Hotel Savoia. Il maggiore Carità non vive con i suoi uomini in una delle prime razzie effettuate si è impadronito di un lussuoso appartamento in via Giusti, proprietà di un ebreo fiorentino, e vi si è installato con la famiglia. Passa dall’una all’altra delle sedi del Reparto spostandosi in automobile. Segue ogni volta itinerari diversi, cambia spesso macchina, a volte usa come copertura un’ autoambulanza. E sempre accompagnato da Antonio Corradeschi, sua guardia del corpo e autista, e da due militi armati di mitra.
Torvo, pallido, tarchiato – così lo descrive una delle sue vittime – Carità scatena i suoi uomini per Firenze, arresta, tortura, uccide. la banda ha per obiettivo principale le forze della Resistenza che stanno costituendosi ma non trascura gli antifascisti, gli ebrei, i giovani accusati di renitenza alla leva e quelli che hanno abbandonato l’esercito dopo l’armistizio. Forte di circa duecento uomini, la banda prende il nome di Ufficio di polizia Investigativa e al fianco delle SS esaspera la lotta contro i partigiani con atti di sadismo, Poi mentre gli Alleati sfondano la linea difensiva tedesca, Carità e i suoi uomini abbandonano Firenze, rapinando 55 milioni alla sede della Banca d’Italia della città, impadronendosi del tesoro della Sinagoga, di quadri strappati a una galleria d’arte, di mobili e preziosi appartenuti a famiglie ebree. E dopo un breve periodo trascorso in provincia di Rovigo, raggiungono Padova.
In via San Francesco, a Palazzo Giusti, la banda si ricostituisce, con la denominazione questa volta di « Comando Supremo Pubblica Sicurezza e Servizio Segreto in Italia -Reparto Speciale Italiano » e alle dipendenze del comando delle SS. A Padova riprende a usare i metodi di sempre nella lotta anti-partigiana, sevizie, percosse con sbarre di ferro, calci, pugni, torture con la corrente elettrica, uccisioni brutali.
Il professor Egidio Meneghetti, capo della Resistenza veneta, è catturato e « interrogato ». Ferocemente picchiato riesce tuttavia a sopravvivere, dipingendo Carità come « un violento, mediocremente intelligente, fanatico, avido di denaro, ma consapevole di giocare una partita mortale, coraggioso ».
Solo l’imminente sconfitta dei tedeschi pone fine agli orrori di Palazzo Giusti. Mentre la banda si sfalda, Mario Carità fugge sui monti, abbandonando tutti i suoi complici al loro destino. Verrà poi sorpreso nel sonno all’Alpe di Siusi da due soldati americani, che lo uccidono mentre cerca di afferrare la pistola che tiene a portata di mano. Quattro dei suoi accoliti sono giustiziati a Padova nell’inverno 1945, dopo un processo che vede due condanne all’ergastolo, due a 30 anni di reclusione, Franca Carità, la prima figlia del maggiore, condannata a 16 anni, e Isa, sua sorella, assolta.
Uno dei primi sicari di Carità, l’ex-sottotenente dei granatieri Pietro Koch, dopo aver operato a Firenze alle dipendenze del « maggiore », ha creato anch’egli una banda, a cui ha dato il proprio nome. Alto, elegante e distaccato, Koch va a Roma, eleggendo a sua sede prima la « Pensione Oltremare », poi la « Pensione Jaccarino ». Tortura le sue vittime, prima di ucciderle, segue i tedeschi al Nord, ancora a Firenze, poi a Milano, rendendo sinistramente famosa la Villa Triste di via Paolo Uccello, insanguinata da decine di vittime innocenti.
Ma le bande di Bardi, di Carità, di Koch, non sono che una piccola parte di quelle che, negli stessi giorni, terrorizzano gli italiani. Giorgio Pini e Duilio Susmel, nella loro biografia Mussolini. L’ uomo e l’opera affermano: « All’inizio di ottobre (del 1943), il capo della polizia repubblicana, Cerutti, fu sostituito a sua domanda col generale Renzo Montagna, al quale si presentò l’arduo compito di unificare le varie polizie e disciplinarne l’azione sovrapposta, congestionata, opprimente: tale divenuta non senza responsabilità del ministro Buffarini, il quale finanziava reparti speciali autonomi, che usavano procedure spregiudicate e sbrigative. Esistevano vari gruppi dai loro capi denominati: Koch, Pollastrini, Pennacchio, Carità, Finizio, « Colonnello David » De Sanctis, Bernasconi, Fiorentini, Panfi, taluni operanti in collegamento coi tedeschi. Faceva della polizia anche la Legione Muti: la facevano la Guardia, le Brigate nere, le Federazioni ».
Dal lungo elenco citato, del resto soltanto parziale, è evidente l’impossibilità di descrivere le azioni, atrocemente eguali, di tutte le bande. Ma due, la « Muti » e la « Fiorentini » meritano un cenno più ampio perché, come suggerisce Luigi Pestalozza, rappresentano « i limiti estremi cui è giunto il fascismo, nel dare crisma di legalità ad associazioni a delinquere ».
Fine 1 Parte
Tratto da “Storia Illustrata”
Arnoldo Mondadori Editore
N° 200 – Luglio 1974
Informazioni su toscano
Io Nato Io fui nel secolo passato, circa ventinovemilacinquecentosettantacinque giorni o giù di li Città tu se’ la Venere Firenze Patria dell’Allighier, salve, e mia Patria Allor che a salutar venni col pianto La valle de lo giglio, ed alla vita De ‘l sole i raggi ailluminar lo mondoPubblicato il 19 aprile 2017, in La Repubblica di Salò con tag feroci, gestapo, lombardo, salò. Aggiungi il permalink ai segnalibri. Lascia un commento.
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