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La Campana del Bargello

LA CAMPANA DEL BARGELLO

da giorni e giorni, sei per la storia, ma sembravano mesi, le strade vi erano fatte deserte, la città sembrava vuota, piena di sole, di caldo, di puzzo.

Le persiane tutte chiuse, i portoni sprangati, le saracinesche dei negozi abbassate. Il sole d’agosto batteva spietato sopra le pietre, sopra l’asfalto che sembrava liquefarsi e sopra grossi mucchi di spazzatura che sorgevano qua e là per le strade e che ogni giorno crescevano insieme all’odore terribile di marcio, di cadavere, di fogna. Si cercava di passare più lontano possibile da questi mucchi tanto era violento ed insopportabile l’odore che appestava intorno, ma anche da lontano l’aria ne era impregnata, sembrava che tutta la città, ne fosse piena o che addirittura fosse dentro di noi.

Sole, caldo, puzzo, non c’era dunque più nulla, Firenze sembrava vuota, ma ogni tanto in qualche strada, accanto al marciapiede dov’erano le bocchette dell’acqua potabile (poiché le tubature erano state fatte saltare, un gruppetto di donne che rapido si scioglieva per ricomporsi poco dopo, dimostrava chiaramente che non tutti erano andati via e che dietro quei portoni sprangati, dietro quelle persiane chiuse la, gente viveva silenziosa e spaurita, tutta tesa nella speranza di finire presto quell’incubo terribile. Gli uomini che giravano, pochi, radi, guardinghi, e tutti forniti di bracciali della Croce-Rossa, erano quasi tutti partigiani, così come lo erano tutte le donne che non si dedicavano al solo rifornimento dell’acqua.

Anche se non ci si conosceva, anche se non si apparteneva allo stesso partito o alla stessa brigata, mentre ci s’incrociava rasentando i muri ci guardavamo con simpatia, quasi con affetto, sicuri che anche l’altro era uno dei nostri.

Ma che pena camminare da un Comando ad un distaccamento, dal C.L.N. in Via Condotta al Comando Militare in piazza Strozzi, ,dal Comando di Città in Via Roma, alle Gap di, Piazza D’Azeglio. Per quelle strade deserte rasentavamo il più rapidamente possibile i muri caldi di sole, i portoni chiusi, desiderosi di un nascondiglio, ma certi che non un portone si sarebbe schiuso, non una saracinesca sarebbe stata alzata per noi…. Ogni tanto una pattuglia tedesca o un piccolo bivacco; ce n’erano un po’ dappertutto formati in genere da soldati armati, o con i mitra appoggiati accanto, il giorno erano spesso incuranti di tutto, ormai avviliti e stanchi anche, loro. La notte invece non facevano che sparare forse per farci stare fermi e zitti, per tenere tutta la città calma e morta, forse per coraggio.

La notte non passava mai, ma ogni mattina risorgeva la speranza nella giornata si sarebbe avuto l’ordine d’insorgere: gli americani avrebbero attaccato, i tedeschi se ne sarebbero andati; ma ogni sera c’invadeva lo sconforto di un’altra notte da passare.

La notte del 10 agosto, dopo aver dato insieme alla Lea l’ultima occhiata da una terrazza su via Tosinghi, al piccolo bivacco dei cinque o sei tedeschi che si era accampato con pentole e scatolame ed armi dentro il portone dell’UPIM e che noi vedevamo d’infilata attraverso Via dei Medici, ci sdraiammo per terra su di un logoro tappeto (dalla prima sera dell’emergenza non ci spogliavamo più).

_Lea, domani è il mio compleanno, vedrai che domani se ne andranno ».

«-Speriamolo, non ne posso più ».

E il suo viso grassoccio ed infantile ebbe una smorfia di pianto.

Nel profondo sonno qualcuno ci destò. Era Alfio, aveva una voce strana, quasi un falsetto:

– Ragazze i tedeschi sono andati via ».

« Come, davvero’? » fatemi vedere dal terrazzo ». Ci affacciammo tutti e tre, il portone dell’UPIM era vuoto. Mentre Lea svegliava tutto il Comando, io ed Alfio ci precipitammo fuori in ispezione; era ormai giorno chiaro ma l’aria era ancora fresca e la luce rosata dell’alba.

Non sentii più il puzzo, mi sembrò che anche quello fosse sparito con i tedeschi.

Ed Alfio si avviò lungo l’Arcivescovado mentre io correvo lungo la facciata del Duomo. Mi ricordai che in Piazza San Lorenzo la sera prima c’erano tanti tedeschi ma Alfio non vedeva più. Corsi lungo Via Martelli, nessuno all’altezza di Via dei Pucci sull’angolo di Piazza San Lorenzo, Alfio mi fece cenno di proseguire per Via Cavour, lo ritrovai sull’angolo di Via degli Alfani, ci .abbracciammo commossi mormorando:

« Liberi, liberi ».

Si tornò correndo insieme fino in Via Roma al Comando di Città,  Albertoni mi mandò al Comando Militare in Piazza Strozzi, dal Colonnello Niccoli. Da lui ebbi gli ordini da portare in Palazzo Vecchio, di nuovo mi misi a correre: Piazza Strozzi, Via Monalda, Via Porta Rossa, Via Calzaiuoli, Piazza Signoria, Via della Ninna… per le strade deserte tutto era fermo, vuoto, silenzioso; i miei passi, mal¬grado i sandali sottili, risuonavano sul selciato suscitando echi da città morta che mi davano uno strano senso di paura.

In Via della Ninna la porta mi fu subito aperta: finalmente una divisa non tedesca, quasi caddi addosso ad una guardia di città che Mi portò da Stagni ancora mezzo addormentato.

«-La campana del Bargello si deve far suonare subito, si deve alzare il tricolore su Palazzo Vecchio ».

Io dovevo correre ancora ad avvertire il Comitato di Liberazione in Via Condotta erano già passate le cinque. Di nuovo spiccai la corsa, ma non ce la facevo più il mio cuore sembrava volesse scoppiare mi sentivo disperata e felice, affranta e piena di energia. Davanti alla saracinesca abbassata della Farmacia Bizzarri mi arrestai smarrita la campana del Bargello, ferma da quattro anni, aveva dato un rintocco che in quel silenzio sembrava magico, ecco… il secondo, alzai gli occhi verso l’alto ed un altro miracolo mi apparve: lentamente sulla torre di Palazzo Vecchio si alzava il tricolore. M’inginocchiai piangendo sul marciapiede mentre ad una ad una le persiane della piazza si spalancavano, una donna da una finestra bassa mi chiese urlando:

Se ne sono andati? ».

« Siamo liberi, liberi », risposi singhiozzando ed allargando le braccia… un rumore di chiavistelli, un portone si apre, ed un altro ancora, una donna esce correndo da una porta mi si butta tra le braccia gridando: « Sono andati via, sono andati via! ». Lo grido anch’io senza quasi rendermi conto di abbracciarla piangendo. È commovente, meraviglioso, sublime, ma io non posso godere più a lungo della gioia di questa gente che ha finito di aver paura della morte, che crede di novella gioia e nella libertà, io devo correre al C.L.N. Devo andare a dire che facciano presto che si facciano tutti belli che vadano subito a Palazzo Riccardi.

Poi potrò guardare, ridere, cantare, dormire; no, poi ci sono ancora tante cose da fare!

Il CTLN va ad occupare la Prefettura

Ma che confusione tra i membri importanti del C.L.N.! La notizia della liberazione era giunta ancor prima di me, infatti rapidissima da Piazza Signoria si era propagata per mille rivoli insieme all’onda sonora della campana del Bargello. Al mio ingresso mi si parò davanti l’onorevole Martini, così buffo e simpatico che scoppiai a ridere, girava per le stanze del piccolo appartamento, sbracato, con le bretelle ciondoloni dietro, cercando come farsi la barba e stringendosi sul cuore una catinella. L’Adina, la loro bravissima staffetta, era già pronta, elegante, fresca, fresca, pettinata, pulita. Era stata sempre per me fonte di continua ammirazione ed anche d’invidia per come riusciva ad essere sempre fresca ed elegante malgrado quella maledetta vita che si faceva e con tutta la strada che anche lei ogni giorno era costretta a percorrere.

Enzo era il più calmo. Uno del Comitato forse a causa di quella irriverente e risata in faccia a Martini, mi disse con una nota di disappunto nella voce: « Lei, signorina, ora dovrebbe mettersi il bracciale ». Fu la nota stonata di quella giornata (ma presto ne seguirono altre per via di quel benedetto bracciale m’impedirono di entrare in Palazzo Riccardi. Ne avevo confezionati tanti di quei bracciali, nei momenti d’ozio, che proprio non avevo pensato a tenerne uno per me.

Albertoni me ne dette uno e con gesto un po’ melodrammatico, me lo mise al braccio scesa così in istrada notai che la gente mi guardava; erano ancora pochi ad adornarsi del bracciale con il "Cavallino" e suscitava ammirazione e curiosità.

Una ragazza mi fermò per chiedermi come avrebbe fatto d averne uno anche lei: «Bisognava guadagnarselo prima » le risposi asciutta, poi mi vergognai, mi tolsi il bracciale, lo riposi i tasca tasca e non lo misi più.

lnfatti poche ore dopo ero di nuovo dove erano ancora i tedeschi; tornai in centro dopo parecchi giorni il bracciale con il cavallino era giù passato di moda.

Nella stessa mattinata mi trovai a Palazzo Vecchio quando tornava Carlo Ludovico Ragghianti da oltrarno dove era andato a prendere accordi con il Comando alleato, insieme a due ufficiali del Comando inglese. Ragghianti mi presentò loro, ed il più giovane mi disse: « Guaita, proprio Guaita? Allora tanti saluti da suo fratello ».

Mio fratello!… Sei mesi prima, Nino, passando le linee, ci aveva portato una sua fotografia con la moglie ed il bambino nato in quei mesi; da allora non avevamo saputo più nulla, e questa notizia così inaspettata mi rese ancora più sensibile e più scoperta a tutte le emozioni di quella meravigliosa giornata. Erano troppe per sopportarle da sola, dovevo, volevo, vedere mia madre che, pur malata di cuore, aveva in quei lunghi mesi divise con me e per me molte ansie e paure.

Albertoni, il comandante delle squadre di città, doveva darmi il permesso di andare a casa, così tornai in Via Roma. Le strade formicolavano di folla; folla anche sul portone di Via Roma. Mi scontrai in Adriano che traversava di corsa il marciapiede per salire su una macchina insieme a Gigi e ad altri partigiani armati fino ai denti. « Andiamo a fare un’azione sul Mugnone » mi gridò eccitatissimo, già dall’auto in moto. Dio mio, pensai, purchè, non muoiano proprio ora, alla fine!…

Ecco Alfio:" Abbiamo preso tre spie, vuoi vederle? ».

Mi accompagnò al portone accanto, lì nel cortile si fermò davanti ad un grosso canile: accucciato al posto del cane, con l’aria anche lui di un cane rabbioso, c’era un giovanotto biondo con occhi chiarissimi pieni di odio e paura, aveva, stretto ad una coscia, un collare da cane, rinforzato da una catena con lucchetto. Dalla camicia aperta fino alla cintura si vedeva un petto bianco, molliccio, quasi femminile, sul quale luccicava, appesa ad una catena d’oro, una grossa croce, che ogni tanto con gesto nervoso si toccava quasi ad assicurarsi che ci fosse ancora.

« Ma Alfio, che strana idea! ».

« Oh, non vorrai mica che si sprechi un partigiano combattente per stare a guardia di questo qui. E poi in serata verrà la polizia inglese a prenderseli. Le altre sono due ragazze, vuoi vederle? ».

"No, basta così ».

La stanza d’Albertoni era piena di staffette e di comandanti, Albertoni, serio, davanti ad una gran carta di Firenze piena di croci rosse e blù, sembrava quasi un generale vero.

Tutte le staffette chiedevano la stessa cosa, munizioni e rinforzi alla, periferia di Firenze, sul Mugnone e sull’Africo si stava combattendo e le munizioni erano poche.

Albertoni aveva per tutti la solita risposta " Gli inglesi hanno promesso di darci le munizioni e di entrare in azione anche loro ».

Alberto qui non ho più nulla da fare, posso andare a casa? Non c’è più niente da fare? E pari come ci vai? Sulla ferrovia; sia alle Cure che al Campo di Marta, si combatte

Passerò dal Ponte del Pino ». Uhm, hanno ferito anche il dott. Horloch molto

gravemente, pare sia morto. Anche Baratti è stato ferito ». Come arrivavano presto le notizie "Ho bisogno di sapere cosa è successo a mia madre, non posso resistere più ».

Albertoni si tolse la pipa di bocca, mi guardò con quella sua aria assente:

« Va bene, al Ponte del Pino c’è la squadra di Gigi Belli, appena verrà la sua staffetta andrai con lui, ti farà passare ».

« Va bene, grazie, addio ».

Ma non ebbi pazienza di aspettare. Col cuore un po’ peso, ma con un enorme desiderio di abbracciare stretta mia mamma, mi recai al giardino dei Semplici,

Giardino dei Semplici diventato il cimitero della città, sicura di trovare lì qualcuno con cui passare il famoso Ponte del Pino, sul quale i tedeschi sparavano di continuo.

Non mi ero sbagliata, potei subito accodarmi ad una carovana capitaata da Don Poggi, il bravo prete di S.Gervasio che malgrado il suo graan buzzo fu in quel periodo instancabile e coraggiosissimo.

Gran stendardo bianco, due crocerossine, il sagrestano di S. Gervasio un altro vecchio, sei, sette donne. Fu un vero viaggio, a fare mezz’ora di strada ci si mise due ore, ero esasperata ed affranta, le mitragliatrici di Piazza Savonarola e quelle dei Molini Biondi mi facevano più paura di tutti i bombardamenti passati.

Il gruppo di Don Poggi

Trovai mia madre in Via Marconi, era ferma con altre donne ad una di quelle bocchette dalle strade a prendere acqua. Mi vide da lontano, io cominciai a cor¬rere e lei pure, sembrava una ragazzina, ma poi stretta contro di me non 1e riuscì parlare tanto il cuore, povera vecchina, le batteva forte in gola. Divisi la cena con mio padre e mia madre: come tanta altra gente in quei giorni non avevamo che un po’ di piselli secchi lessati nell’acqua.

Anche noi in Via Roma non avevamo molto di più da mangiare, e qualche volta anche meno, all’infuori del giorno nel quale Olìviero (l’oste della Ceviosa la cui cucina dava sul nostro stesso cortile) ci offrì a caro prezzo una testa di vitello. Non contrattammo neppure tanto eravamo preoccupati di dar qualche cosa da mangiare ai partigiani di Didon che erano arrivati, passando diversi blocchi tedeschi,da Monte Giovi per partecipare all’insurrezione di Firenze, e si erano accampati nel cortile dello stabile con grande paura e preoccupazione dei diversi inquilini. La testa di vitello risultò formicolante di vermi, io quasi mi sentii male al solo vederla; la brava Noemi, con la forza della disperazione, aiutata dalla portinaia, la lavò a lungo nell’aceto e la, cucinò … Ma Alberto era furioso di essere stato giuocato e, quale capo responsabile della Sussistenza, decise di far man bassa nottetempo, nella cantina dell’oste. Non c’erano vettovaglie, ma casse e casse di vini pregiati e di liquori di marca. Fu preso tutto e fu tutto distribuito. Furono date delle bottiglie anche, agli inquilini dello stabile che per l’occasione smisero di avere paura. L’indomani ogni staffetta che– arrivava, ripartiva ben provvista di liquori, ritornava dove era par¬tita più contenta, non c’era da mangiare, ma almeno si sarebbero scaldati il cuore per i momenti della lotta con qualche cosa di forte. Anche noi si seguiva così, grazie alla cantina d’Oliviero, la tradizione degli eserciti regolari.

Ora, davanti a quei disgustosi piselli secchi, pensavo che anche a loro, poveri vecchi, una bottiglia di vino vecchio avrebbe fatto tanto bene…..

Finalmente ero nel mio letto: come ci si stava!…

Ma ecco da Fiesole cominciò a sparare il cannone, o forse aveva già cominciato, pur io nell’emozione di quei primi momenti non avevo avuto il avuto il modo di sentirlo. Il colpo partiva con un sibilo ed arrivava con un tonfo, si sentiva partire non si sapeva dove arrivava.

Non so come avvenne, qualcosa crollò dentro di me, forse fu il sen¬tire ehe ormai non ero più con quelli che perdevano sempre perché erano troppo pochi, e con i quali bisognava resistere fino alla fine. Ormai tutti noi, quelli che erano rimasti di noi, erano uniti a quelli che vincevano perciò io non avevo più niente da fare, io mi potevo per¬mettere di avere paura.

Ed ebbi paura, tanta paura, tutta la paura arretrata di mesi e mesi, restai per giorni sdraiata a letto, non, riuscivo né a mangiare né, a bere e neppure a dormire, ero lì intenta ad ascoltare le bombe che arriva¬vano da Fiesole, la partenza e l’arrivo, incapace di pensare e di die altro, altro che:

«E’ partita… è arrivata… è partita… è arrivata… ».