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Carlo Della Corte – Di tetto in tetto per liberare Venezia ( Seconda Parte )

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Carlo Della Corte

Di tetto in tetto per liberare Venezia

( Seconda Parte )

Adesso questi « carri arma­ti acquei » sono ancorati davanti alla riva degli Schia­voni, alla Dogana, all’im­bocco del Canal Grande. La minaccia su Venezia è ancora grave, perché i tede­schi insistono: faranno sal­tare i ponti minati, le pol­veriere, il grande comples­so dell’Arsenale, le navi che sono rimaste in porto. Non vogliono arrendersi, chie­dono un lasciapassare.

L’incubo è spaventoso: lo sarebbe per qualsiasi altra città, ma a Venezia esplo­sioni di questo tipo, con le case a ridosso l’una dell’al­tra, potrebbero cancellare l’intera faccia della città. In compenso, Chioggia è già stata liberata. Oltre ai tele­foni e alle poste, i partigia­ni hanno già in mano la

radio e la stazione ferro­viaria. Anche l’isola di Pel­lestrina, poco lontana dal Lido, è insorta con successo. Sempre il 28, prosegue la liberazione delle isole lagu­nari: a Murano vengono catturati da partigiani e pa­trioti gli equipaggi tedeschi delle petroliere Mantova I e Mantova II.

Anche la Decima Mas, as­serragliata nel collegio na­vale di Sant’Elena, finalmen­te si arrende: senza condi­zioni. Se si calcola che a Venezia, durante l’occupa­zione, esistevano ben quat­tordici tipi diversi di poli­zie politiche e militari tedesche e fasciste, ci si rende conto come l’azione parti­giana abbia dovuto contem­poraneamente fare i conti con forze molteplici, ciascu­na delle quali, in quei gior­ni di emergenza, tendeva a comportarsi come un picco­lo esercito autonomo: do­ve uno cedeva, l’altro, per l’ottusa tenacia o ferocia di un comandante, continuava a rimanere in armi, a osta­colare seriamente e dram­maticamente il setacciamento della città, opponen­do improvvise sacche di re­sistenza, con rapide ma non per questo meno pericolo­se fiammate di estrema bel­licosità.

Il distaccamento del batta­glione partigiano Vivian e­spugna assieme agli uomini di punta del P battaglione un distaccamento di polizia tedesca rimasto alle Zatte­re, nella pensione « Calci­na ». Intanto i prigionieri nazifascisti vengono con­dotti nelle aule dell’Acca­demia di Belle Arti.

Sono queste, anche a Vene­zia, giornate plumbee, gri­gi, come in quasi tutto il Veneto: piove sovente, la città è battuta da un’acque­rugiola fastidiosa, che in­tralcia le operazioni milita­ri. Ogni tanto il cielo sca­tena acquazzoni torrenziali: la primavera bella e soleg­giata può sembrare lontana, anche se siamo alle soglie di maggio. E in questa città tetra e aggrondata si gioca una delle ultime partite con il nazifascismo.

All’albergo Regina conti­nuano intanto frenetiche le trattative tra il Comitato di Liberazione Nazionale e i tedeschi. Dicono le crona­che che fu un incontro spossante, con punte di al­ta drammaticità. Quando già pareva che i tedeschi fossero disposti a cedere, eccoli opporsi alla consegna della mappa sulla quale e­rano segnalate punto per punto le mine del porto. Ciò rischia di far ricadere Venezia in quella zona o­scura in cui era vissuta per un anno e mezzo, con le calli trasformate in budelli` micidiali, luoghi da agguati, dove si sparava e moriva, mentre le fondamenta, sfer­zate dall’acqua, erano tra­sformate in palcoscenici per la fucilazione di cittadini, e la popolazione veniva costretta dai mitra degli a­guzzini, come una platea, ad assistere al massacro.

Eppure i fatti stavano roto­lando verso il loro più natu­rale epilogo, che se le for­ze della Liberazione paga­rono assai salato (non era­no soldati professionisti, ed erano anche male armati), i nemici pagarono più onero­samente. Nelle giornate in­surrezionali, le perdite del Corpo Volontari della Liber­tà dipendenti dal Comando di Piazza di Venezia assom­marono a 21 morti e 118 feriti. Per contro, i tedeschi, che si opposero più concre­tamente dei disperati cec­chini della repubblica di Sa­lò, ebbero 139 morti, 69 fe­riti e lasciarono 819 prigio­nieri, 57 dei quali erano uf­ficiali. Il numero dei fascisti caduti nella rete fu comun­que ancora più rilevante: 2930, a quanto risulta. Le fonti discordano lievemen­te: però le cifre rispon­dono sostanzialmente alla verità.

Ma prima della firma della resa tedesca, le scaramucce si susseguono: nella notte del tormentatissimo 28 apri­le, altri pontoni tedeschi vorrebbero impadronirsi di una nave, la Sergio Laghi. Tuttavia i partigiani li met­tono in fuga. Anche la na­ve Gradisca è nelle mani dei patrioti, ma uno di que­sti, nello scontro, perde la vita.

Poi le trattative dell’hotel Regina arrivano ad essere perfezionate: viene stabilito che sulla notte del 28 e nel­le prime ore del 29, a parte i prigionieri già lasciati sul campo, i nazisti leveranno le tende. Ma, mancando alla parola data, ancora essi dis­seminano di altre mine i punti strategici, continuan­do, nelle ore dell’esodo, a compiere selvagge anche se limitate distruzioni.

I partigiani sono ben deter­minati a non lasciare im­puniti questi ultimi crimini, e nelle prime ore del 29, quando ormai la svastica, che aveva sventolato per tanti mesi in piazza San Marco davanti alla Platz­kommandantur, è stata ri­mossa, quando l’ultimo pre­sidio tedesco su due moto­velieri armati con mitraglie­re da venti millimetri a can­na multipla e cannoncini, più due motobarche, tre grandi motoscafi e altre im­barcazioni, lascia definitiva­mente la zona dell’Arsena­le, i partigiani decidono di far pagare gli ultimi misfat­ti, sbarrando il passo ai fug­giaschi tra il Macello e il forte di San Secondo. Gli insorti sono pochi, con po­che armi, ma ormai anche il tedesco più fanatico si ren­de conto che è meglio ri­nunciare a resistere.

Venezia è veramente libera solo il mattino del 30 aprile,

anche se ancora qualche fa­scista ostinato, deciso a con­sumare fino in fondo il suo destino sbagliato, si nascon­de sui tetti per sparare al­la gente che si riversa nelle strade a festeggiare la fine del lungo incubo imposto dai persecutori. Il docu­mento della resa era stato firmato esattamente alle 4 del mattino dei 29, presente Il capo della missione mili­tare inglese. Il 30 entrano in città le forze alleate, pre­cedute nel pomeriggio dei giorno avanti da alcuni nu­clei neozelandesi, arrivati in una Venezia che tornava ad essere rallegrata, dopo tan­ta pioggia, dal sole. Era ter­minato l’incubo di quella Venezia trasformata dai fa­scisti e dai tedeschi in una città di faide e delazioni.

Qualche giorno dopo, un messaggio dei generale Mark Clark, destinato al po­polo veneziano, suggella questa lunga vicenda: « In­vio ai cittadini di Venezia le mie congratulazioni per l’insurrezione, coronata da pieno successo, che ha por­tato alla liberazione della loro città dalla morsa e dal controllo degli invasori. Possiamo dichiarare, per la verità, che la vostra città è stata liberata dall’interno, da forze armate del Corpo Volontari della Libertà, con l’aiuto e l’incoraggiamento dell’intera popolazione… ».

In realtà le forze del Quin­dicesimo Gruppo di Arma­te quando raggiunsero Ve­nezia, poterono passeggiare sul velluto. Un anno e mez­zo di lotta spesso miscono­sciuta, crudele, apparente­mente senza remunerazio­ne, permise agli alleati un ingresso incruento in una città che molti soldati vide­ro solo con gli occhi dei turisti. E fu in piazza San Marco che essi cominciaro­no a scattare le prime foto ai colombi e alle biondine.

Carlo della Corte

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Tratto da “Storia Illustrata”

Arnoldo Mondadori Editore

Marzo 1975

Gilberto Malvestuto – Brigata Maiella

“Come noi della Brigata Maiella liberammo Bologna

Gilberto Malvestuto

“La folla enormemente assiepata in via Rizzoli, in via Indipendenza ed altre parallele fino a piazza Re Enzo, piazza Maggiore e via Mazzini ed altre ancora, accolse le prime truppe liberatrici con un entusiasmo indescrivibile”

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Gilberto Malvestuto

Il 25 aprile 1945 mi colse a Castel San Pietro Terme, a circa 20 chilometri ad est di Bologna, dove dal 22 aprile la prima e la quarta Compagnia della Brigata Maiella – che avevano preso parte alla liberazione di Bologna – si erano ricongiunte al resto del gruppo. In attesa di ordini, la “Maiella” rimase concentrata nella località termale per i successivi mesi di maggio e giugno, venendo impiegata nella bonifica dei campi minati e mantenendo sempre costante la propria preparazione militare con esercitazioni a fuoco e anche ginniche. È alla liberazione di Bologna, però, che è legato maggiormente e indissolubilmente il mio ricordo di quei giorni cruciali per la storia del nostro Paese. Il nostro ingresso nel capoluogo emiliano ebbe inizio all’alba del 21 aprile, quando la prima Compagnia fucilieri e il mio plotone mitraglieri ad essa aggregato iniziarono l’attacco per l’occupazione della città. Con noi operava anche un plotone polacco della terza Divisione Carpazi.

Quel 21 aprile la quarta Compagnia avanzò dalle prime ore del mattino senza ostacoli e senza incontrare resistenza, procedendo parallelamente alla prima Compagnia e proteggendo il fianco di due Compagnie polacche, entrando anch’essa nel capoluogo emiliano tra le primissime truppe liberatrici. La folla enormemente assiepata in via Rizzoli, in via Indipendenza ed altre parallele fino a piazza Re Enzo, piazza Maggiore e via Mazzini ed altre ancora, accolse le prime truppe liberatrici con un entusiasmo indescrivibile. Dalle finestre e dai balconi migliaia di bandiere e drappi tricolori sventolavano al vento di primavera, mentre migliaia e migliaia di volantini che inneggiavano alla Resistenza e alla libertà coprivano il cielo nella loro corsa, volteggiando a lungo sulla moltitudine osannante ed impazzita per la gioia, travolta dall’entusiasmante momento che Bologna stava vivendo per la libertà riconquistata. Facevamo fatica a camminare, all’ombra delle maestose Torri – la Torre degli Asinelli e la Garisenda – cariche di storia antica e gloriosa, a fare da mute testimoni di quella meravigliosa accoglienza riservata a noi della “Maiella” che dal lontano nostro Abruzzo eravamo giunti per portare il dono della fratellanza, della giustizia, della pace universale fra i popoli.

La liberazione di Bologna (da http://www.avezzanoinforma.it/)

Gli uomini della Brigata Maiella transitarono davanti alla popolazione civile accorsa, che durante i lunghi mesi dell’occupazione nazifascista aveva appreso dalla stessa radio della Repubblica di Salò e dalle radio clandestine l’esistenza della nostra formazione partigiana. La gente piangeva, mentre una ragazza, fendendo la folla, mi raggiunse di corsa e mi strinse forte a sé e poi mi disse anche: «Grazie, Tenente». Mi baciò a lungo e poi scomparve, mentre suonava per la prima volta, dopo tanto tempo, il campanone della Torre del Capitano del Popolo, tra lo sferragliare dei mezzi cingolati che stavano sopraggiungendo su via Mazzini e su altre vie che immettono verso il centro storico. Purtroppo la cronica insufficienza di mezzi della “Maiella” impedì che l’unità fosse ulteriormente impiegata nell’inseguimento del nemico, che poteva essere effettuato soltanto da reparti celeri. Nella tarda mattinata del 21 aprile, prima di tornare ai reparti che avevano partecipato alla liberazione di Bologna, e in fase di riordino per concentrarci tutti a Castel San Pietro, fui invitato con premura da una famiglia abitante in un appartamento vicino alle due Torri per consumare un pasto leggero “compatibile” con la scarsità dei prodotti alimentari del tempo. Accettai perché avevo fame! Ero andato avanti smorzando i morsi della fame solo con barrette di cioccolata! Riassaporai il calore della famiglia, con la presenza dei due genitori e delle due loro figliole, mentre il terzo figlio – ufficiale pilota dell’Aeronautica militare del quale non si avevano notizie da tempo – doveva trovarsi nelle Puglie, con il Regio Esercito italiano. Mi accompagnarono, al termine della frugale colazione, fin verso la Garisenda. La mamma, il papà e le loro due ragazze mi abbracciarono affettuosamente e mi sussurrarono, commossi: «Buona fortuna ed auguri!». Questa è la gente emiliana, sempre gentile, ospitale e generosa. È la Bologna che ho sempre tenuto nel mio cuore, è la Bologna che mi aveva ospitato appena due anni prima quando, dal gennaio all’agosto del 1943, vi frequentai il corso Allievi Ufficiali presso il terzo Reggimento Carristi nella Caserma di San Ruffillo.

Spesso, forse perché ripercorro l’ultimo tratto della mia sofferta giovinezza e la nostalgia mi assale, torno all’album dei miei ricordi passati, con le tante foto ormai ingiallite dal tempo che scorre inesorabile, per riandare con la mente e con il cuore ai miei vent’anni, a quando, cioè, la mia seconda Compagnia Allievi Ufficiali di cui facevo parte si trasferiva per le esercitazioni a Rastignano, sul Savena, sul Reno, a Casal de’ Britti e in altre località del bolognese ancora vive nella mia memoria. Non avrei mai immaginato che dopo appena due soli anni quelle due strade le avrei ripercorse, in divisa di Tenente della Brigata Maiella, al comando di un plotone della Compagnia Pesante Mista, tra due ali di folla festante, nel giorno della liberazione di Bologna dall’occupazione nazifascista.

Gilberto Malvestuto, partigiano della Brigata “Maiella”

Pubblicato venerdì 22 aprile 2016

Patria Indipendente

Testimonianze – la liberazione di Firenze

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La liberazione di Firenze

Ancor prima dei due mesi che separano la liberazione di Roma da quella di Firenze, il Comitato Toscano di Liberazione Naziona­le (C.T.L.N.), sezione toscana del Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.), si applica affinché sia preparata un’azione politica e militare volta a cacciare dalla città l’occupante tedesco e ad insediarvi subito un governo provvisorio con pieni poteri amministrativi e costituito da uomini dell’antifascismo.

Nel Luglio del 1944, quando le truppe anglo-americane si avvici­nano a Firenze, il C.T.L.N dirama l’ordine alle formazioni partigiane di convergere verso la pianura e di tenersi pronte ad intervenire in cit­tà. Esse hanno operato nelle immediate vicinanze della città dove si sono distinte nell’azione di disturbo e di resistenza contro le forze tedesche e i gruppi di fascisti collaborazionisti. Sono circa 3000 uomi­ni a cui viene affidato il compito di dimostrare agli anglo-americani e alle città del Nord Italia, ancora occupate, che il popolo italiano è capace di liberarsi da solo e che, pertanto, gli spetta il diritto all’au­togoverno e all’amministrazione civile della cosa pubblica. Il compito non è facile, poiché sussiste sul territorio una temibile presenza mili­tare tedesca da contrastare e arginare, ed è necessario stabilire una concordanza tra strategia partigiana e strategia degli alleati anglo­americani.

Intanto, il 29 Luglio, il Comando Militare tedesco ordina che tutti i Fiorentini abitanti nei quartieri prospicienti l’Arno, abbandonino le loro abitazioni senza portarsi dietro masserizie che ingombrino le strade e ostacolino il facile scorrimento delle vie di comunicazione. Hanno ventiquattro ore di tempo per eseguire l’ordine; chi sarà tro­vato ancora sul posto sarà fucilato. Il 31 Luglio i genieri tedeschi ini­ziano a minare i ponti sull’Arno ad eccezione del Ponte Vecchio, alla cui salvezza sono sacrificate le strade dei quartieri medioevali sulla riva destra e su quella sinistra del fiume. Il 1° Agosto gli alleati varca­no il fiume Pesa, ma si fermano in vista della città.

Il 3 Agosto il Comando Tedesco dichiara lo stato d’emergenza su tutto il territorio fiorentino: significa che sono sospese tutte le garan­zie individuali e che entrano in vigore le leggi di guerra.

Il C.T.L.N. si riunisce in seduta permanente in attesa di dare l’ordine d’insurrezione.

Nella notte fra il 3 e il 4 Agosto i genieri tedeschi fanno brillare le cariche che hanno preparato: crolla il cuore antico della città. Il 4 Agosto, all’alba, le avanguardie dell’ VIII Armata Britannica penetrano in Oltrarno insieme ai partigiani. La città, divisa in due, diventa cam­po di battaglia.

Fino al 10 Agosto gli alleati e i partigiani combattono i nazisti e i franchi tiratori fascisti dalla riva sinistra dell’Arno. Nella notte tra il 10 e I’ 11 Agosto le truppe della Wehrmacht si ritirano dal centro storico per attestarsi sulla linea dei Viali di Circonvallazione e del corso del Mugnone, nella parte nord-ovest della città. L’11 Agosto alle 7 del mattino, la Martinella di Palazzo Vecchio e la campana del Bargello danno il segnale dell’ insurrezione. Il C.T.L.N. insedia i suoi uomini in Palazzo Medici Riccardi, nomina il Sindaco e il Presidente della Pro­vincia e le rispettive giunte.

Quando le truppe anglo-americane varcano l’Arno, trovano una città già in grado di governarsi, liberatasi da sola, anche se fino al 18 del mese i tedeschi continueranno a cannoneggiarla dalle alture di Fiesole, mirando ai monumenti storici e agli edifici privati. Tuttavia per la periferia ovest, né il 4, né I’11, né il 20 d’Agosto cessa il terrore della guerra, delle rappresaglie, dei rastrellamenti, né vengono meno le sofferenze per la fame e le privazioni. A tutto ciò si aggiungono i pericoli dell’essere sulla linea del fronte esposti al fuoco contrappo­sto dei soldati in lotta.

Anche qui le azioni di guerra sono cominciate la notte del 3 Ago­sto quando saltano in aria tutti i piccoli ponti che valicano il Fosso Macinante e quelli che attraversano il Mugnone; saltano i cavalcavia ferroviari, salta la storica Torre degli Agli perché le macerie facciano ostacolo all’avanzare degli alleati, è minato il Parco delle Cascine che diventa terra di nessuno. Al calare della notte cominciano a cade­re shrapnels, sorta di granate che scoppiano in aria e spandono una rosa di schegge anti-uomo; a queste seguono fino all’alba cannonate più pesanti che sfondano i tetti e sventrano le case.

Con il ritiro delle truppe tedesche dall’Arno al Mugnone, la zona che va da Porta al Prato al Ponte alle Mosse si trova ad essere in pri­ma linea. I paracadutisti tedeschi, attestati sulla sponda destra del torrente, controllano con facilità il quartiere che è sgombro degli alti palazzi costruiti nel dopoguerra. In Piazza San Jacopino, una squadra di partigiani cerca di contenere, con una sola mitragliatrice, le incur­sioni nemiche dal Ponte all’Asse verso i Viali di Circonvallazione.

Importante base strategica per i partigiani è il Casone dei Ferrovie­ri, un edificio singolare che occupa un intero isolato, tra le vie Merca­dante, Rinuccini, Petrella e Ponchielli, destinato, sin dalla sua costru­zione, alle abitazioni delle famiglie dei ferrovieri, spesso di tradizione antifascista. Grazie alla sua struttura, quasi fortificata, le vie d’accesso facilmente controllabili, le terrazze, ideali posti di guardia per avvista­re chiunque si avvicinasse, i pozzi artesiani, l’infermeria, la mensa, ma soprattutto grazie alla coesione e alla solidarietà dei suoi abitanti, il Casone diventa un rifugio sicuro sia per i partigiani delle SAP locali che per varie brigate che vi troveranno ospitalità.

Solo il 18 di Agosto i tedeschi lasciano il Mugnone e la Manifattura Tabacchi la cui torre viene occupata da un piccolo gruppo di parti­giani. Tuttavia il territorio oltre il Ponte alle Mosse non è ancora com­pletamente libero e di ciò ne fa le spese il partigiano Enrico Rigarci "Gogo" che cade in un’imboscata.

Ancora la notte del 28 Agosto i tedeschi fanno irruzione nella Ma­nifattura Tabacchi scontrandosi con i partigiani di guardia che riesco­no a respingerli grazie anche ai rinforzi accorsi dal Casone.

Contemporaneamente la popolazione di Peretola vive nelle cantine, nei rifugi scavati negli orti, nei sottoscala di casa, ritenuti più protetti e in un grande rifugio antiaereo nel giardino della ex Casa del Fascio. Nelle stanze di questo locale il Comitato di Liberazione, con l’aiuto dei cittadini, ha allestito un ospedale di fortuna con cinquanta letti. Lo ge­stiscono un pugno di compaesani infermieri della locale Società Vo­lontaria di Mutuo Soccorso, coadiuvati nell’azione di assistenza da un folto gruppo di donne e di ragazze improvvisatesi crocerossine che, a turno, raggiungono l’ospedale di Prato per procurare medicine e che, nel bisogno, diventano anche staffette partigiane.

L’emergenza dura quasi un mese e vi sono 56 morti civili a Peretola e un numero di poco inferiore a Brozzi. I feriti superano i 260, curati nel solo ospedaletto di Peretola.

Il 31 Agosto, mentre le brigate partigiane liberano l’ospedale di Ca­reggi, presidiato dai nazisti, cinque partigiani passano a guado l’Arno in località Pesciolino e raggiungono il Comando Alleato: lì espongo­no la situazione, i disagi della popolazione e riferiscono che i tede­schi sono ormai ridotti a una sparuta retroguardia. Quella sera stessa i partigiani locali escono allo scoperto e prendono l’iniziativa di slog­giarli dalle loro posizioni: vi riescono, ma tre di loro trovano la morte in luoghi diversi del quartiere. Il giorno seguente, l’ Settembre, dopo quasi un mese d’attesa, gli americani della V Armata guadano l’Arno anche nel punto antistante queste contrade e pongono fine alla lun­ga sofferenza.

Tutto il territorio del Comune di Firenze è finalmente libero.

Firenze 1944, il documentario EIAR sulla Liberazione dai nazifascisti – VIDEO

Firenze 1944, il documentario EIAR sulla Liberazione dai nazifascisti – VIDEO

Nell’agosto del 1944 Amerigo Gomez e Victor De Sanctis, due giornalisti dell’EIAR, registrarono con un’apparecchiatura di fortuna e a rischio della loro vita, suoni e testimonianze dei tragici e difficili

giorni della Liberazione di Firenze dai nazifascisti. Dieci anni dopo, dalle registrazioni su dischi in cera, fu tratto da Amerigo Gomez un documentario sonoro di circa 30 minuti, mandato in onda su Radio RAI nel 1954.

Alla versione integrale di questo eccezionale documento – accompagnato dal commento originale di Amerigo Gomez del 1954 – il film che proponiamo, realizzato dall’ –Istituto Storico della Resistenza della Toscana , associa per la prima volta immagini e filmati d’epoca, realizzati da civili italiani o da operatori inglesi, americani, neozelandesi e tedeschi, provenienti da archivi di tutto il mondo e in parte inediti.

Ecco il video a cura di Massimo Becattini e Renzo Martinelli. Per altri video sul tema scopri il canale

YouTube di Storia e Memoria del ’900

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http://altracitta.org/2014/08/09/firenze-il-documentario-eiar-sulla-liberazione-del-1944/

Firenze alla guerra – Giorgio Querci

 

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FIRENZE ALLA GUERRA

(LUGLIO-AGOSTO 1944)

I manifesti tedeschi che la mattina del 30 luglio ordinavano alla popolazione di Firenze di sgombrare in tre ore larghe zone della città a partire dalle due sponde dell’Arno, col paterno consiglio di indirizzarsi verso altri quartieri e magari nelle chiese, ridestarono ad un tratto la vita delle strade in un modo così tumultuoso e smarrito da far quasi dimenticare che quel segno stava a dimostrare che ormai, in un modo o in un altro, ce n’era davvero per poco, dopo tanto patire.

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Carretti a mano carichi di sacchi, di valige, di mobilio; roba bella trasportata da gente che aveva come l’aria di vergognarsene, poveri oggetti inutili tenuti col riguardo di chi non ha altro; frotte di bambini, vecchi sorretti a braccia, malati adagiati in cima al carico in pose tragiche; e tutto un correre, un aiutarsi a vicenda, ma senza parole, con un sordo trambusto da schiera in rotta infinitamente più impressionante del cannoneggiamento alleato che si faceva sempre più alto e dei proiettili tedeschi che passavano rigando il cielo di sibili.

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La fuga

Fino a quel giorno, chi avesse voluto rendersi conto del numero di persone che dalle campagne si erano riversate in città e specialmente nelle case del centro ritenute più sicure, moltiplicando la popolazione in misura incredibile, non avrebbe dovuto guardare per le strade o alle finestre, ché, anzi, le strade parevan quasi deserte e alle finestre pochi si affacciavano per dare un’occhiata e ritirarsi subito. Sui tetti, doveva salire, e guardarsi intorno. Era lassù, in quell’intrico di tegole, di terrazze, di aeree scalette, di abbaini, di strapiombi, su quel mare scomposto di un colore così morbido e nobile dal quale spuntavano i monumenti che non erano mai stati così nostri come allora, che avrebbe visto risorgere, come capovolta, la vita della città, che aspettava, senza riuscire ancora a capacitarsene, d’esser raggiunta dalla battaglia.

 

Gente a grappoli sui tegoli in pendio(un volto in ogni abbaino) si scambiavano incoraggiamenti e notizie.

-“Sono a quindici chilometri, ma u’un si movano”

-“O icchè fanno? Ma che guerra è questa?”

-“ La li lasci fare! Passan da Pontassieve e gli pigliano alle spalle”

-“Cominciano a scendere i partigiani “

– “Ohé! I tedeschi marcano le strade con le frecce rosse. Tagliano la corda… ».

« I ‘ccollo, maledetti!,».

 

Una mattina, sulla fine di luglio, da un tetto di Via dell’Oriuolo, sul quale bisognava camminare con cautela per una pioggerella che lo aveva reso scivoloso, si vide uno spettacolo curiosissimo.

Lontano, verso Santa Croce, un uomo scamiciato porgeva con misurato garbo, nel buio d’un abbaino, delle manciate di fieno. Aveva dei gesti pazienti come se imboccasse un bambino. Guardai a lungo per rendermi conto di quel che facesse e finalmente, dal buio, spuntò un muso marrone, enorme, e poi un largo collo proteso. Non c’eran dubbi: era un cavallo che per non correr rischi, era salito per chissà quali scale e scalucce, proprio come un uomo, e si era tranquillamente sistemato sotto il tetto, in attesa di tempi migliori.

* * *

 

Ma insieme a queste scenette che sollevavano improvvisamente lo spirito, passavano davanti agli occhi, in quei giorni, ben altri spettacoli e si sentivano delle cose sulla sorte della città che a ripensarle oggi sembrano incubi di sogno.

Voci ottimistiche, quasi tutte, per la verità, di assai dubbia provenienza, sussurravano che Firenze era città aperta perché si eran mossi certi signori che- si credevano ormai spariti per sempre e i cui nomi, invece, riapparivano, fra la gente disorientata, come se la salvezza dovesse dipendere soltanto da loro; voci di fonte onesta assicuravano invece l’imminente impiego delle divisioni partigiane prima che i tedeschi passassero l’Arno, in modo da impedire la distruzione dei ponti ma accendendo così la battaglia per le vie di Firenze, che era dominata dalle artiglierie tedesche piazzate sulle colline a nord della città.

E intanto, a tratti, salivano gli scrosci delle prime lontane distruzioni, le strade cominciavano a riempirsi di cumuli di spazzatura, le code ai negozi di pane, formate per lo più da donne, all’apparire di qualche tedesco col mitra imbracciato, si disperdevano in trafelati fuggi-fuggi, per ricomporsi poco- dopo, appena le tute mimetiche di quei predoni scomparivano dietro la cantonata.

E, ogni tanto, grida strazianti e mute scene d’orrore. Un ferito portato di corsa con un barroccino a mano e una donna che gli corre accanto come impazzita: un mare di sangue e urli da raggelare. Poi i morti, distesi sugli antichi cataletti scoperti come nei trasporti medievali; e su tutto l’afa di un luglio polveroso che faceva riguardare alle provviste di viveri, generalmente ormai scarsissime, come se quella po’ di roba fosse stata largamente sufficiente agli svogliati bisogni di ciascuno.

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Fratelli della misericordia

In un palazzo quattrocentesco di Borgo degli Albizi, in certe stanze immense, ciascuna delle quali potrebbe contenere comodamente una casetta Fanfani, i padroni di casa avevano dato generosa ospitalità, un po’ alla volta, ad una trentina di amici, arrivati con i loro bravi materassi e con qualche provvista.

La notte dal 3 al 4 agosto, quando tutti si erano già distesi sui loro giacigli e si intrecciavano discorsi fra stanza e stanza nell’oscurità più completa, la prima terrificante esplosione squassò paurosamente il palazzo.

Firenze era davvero città aperta, ma aperta alle distruzioni, corsa dal saccheggio, insidiata dai franchi tiratori che non si peritarono poi a sparare persino alle donne raccolte intorno alle fontanelle per far provvista d’acqua. Si sparava a chi si fosse affacciato alle finestre che dovevano restar chiuse, si sparava sempre, specialmente la notte. Agli uomini, proibizione assoluta di uscir di casa.

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Si prende un poca di acqua dalle tubazioni

Una notte Borgo degli Albizi fu rintronata da un cupo sferragliare di un carro armato che si fermò proprio sotto le nostre finestre.

Una voce gridò degli ordini. Una vampa illuminò la stanza, un colpo assordante, poi un altro ordine e il carro riprese a sferragliare verso via del Proconsolo.

Capimmo poi, la mattina dell’11 agosto, quando uscimmo tutti in strada piangendo di gioia mentre Palazzo Vecchio suonava certi solenni rintocchi da rivolta ma leggeri, senza rimbombo, come se le campane fossero state d’argento, capimmo perché era stata sparata la cannonata notturna. Il disco rotondo che indicava, sulla cantonata di Via del Proconsolo, il divieto di transito in Borgo degli Albizi, era stato centrato e penzolava dal suo braccio. Gli uomini del carro armato, alla luce delle stelle d’agosto, dovevano aver creduto che la strada, verso il centro della città, fosse difesa da chissà quale insidia partigiana, forse addirittura dalla bocca di un cannone, -e si erano gloriosamente aperti il passaggio.

* * *

Una mattina, all’alba, fummo sorpresi da un insolito scalpiccio che saliva dalla strada e da certi richiami fatti a bassa voce, con concitazione. Tre o quattro persone passarono di corsa, altre ne sopraggiunsero, sostarono un attimo come per decidere in fretta il da farsi e si sparpagliarono, anch’esse di corsa, in varie direzioni.

•-“Che succede? I tedeschi? dove? ».

•-“No! in Via dell’Anguillara (una stradetta lì prossima) ne hanno ammazzato uno ».

« È lì per terra in mezzo alla strada. Se se ne accorgono. salta tutto il quartiere, come hanno fatto al Campo di Marte ».

Un’ora di ansia, impiegata a studiare il modo di uscir di casa senza esser visti, dalla parte dei giardini (ma per rifugiarsi poi dove?) e finalmente, da un passante, la rassicurante notizia che un abitante di quella strada aveva salvato la situazione con un rimedio che era stato una vera e propria trovata: aveva trascinato in casa sua il’ cadavere del tedesco, l’aveva spogliato della divisa rivestendolo con una bella tuta da meccanico e l’aveva poi delicatamente riadagiato in mezzo di strada: dopo di che, fatti sparire la divisa, le armi e i documenti del paracadutista predone, era, andato personalmente ad avvertire la Misericordia che in Via dell’Anguillara, santo Dio, c’era uno dei soliti morti che ogni notte si trovavano per la città e al quale bisognava pur dare una sepoltura.

* * *

L’11 agosto, verso le 12, una pattuglia di tre canadesi si fermò sul portone del palazzo di Borgo degli Albini, più per sottrarsi alle manifestazioni di entusiasmo da parte della folla che per concedersi un po’ di riposo. Eran tre giovanottoni pieni di salute, attorniati da ansiosi volti disfatti e guidati da un borghese che agitava una pistola fuor di misura. Distribuivano intorno sorrisi, strette di mano, manate sulle spalle e sigarette ma, nello stesso tempo, giravano ininterrottamente lo sguardo sospettoso verso l’alto, alle finestre degli ultimi piani e tenevano le armi alla mano. Qualcuno arrivò con un miracoloso fiasco di vino che rimase vuoto in un attimo e la pattuglia, fattasi largo, s’incamminò verso il mercatino di S. Piero, a ridosso del marciapiede, in fila indiana, con i mitra imbracciati, in un atteggiamento che in quel momento in cui tutti credevano alla riacquistata libertà e all’ormai avvenuta liberazione di Firenze, parve proprio di inutile circospezione.

« Alla grazia, come fanno perbenino ».

* 0 di che gli hanno paura con que’ po’ po’ di tromboni fra le mani? ».

Fu proprio allora, nell’aria di questi commenti, quando la gente, sbucata nel sole dai nascondigli, credeva d’averla scampata definitivamente e andava’ ritrovando l’arguto, bonario motteggio, che si sentirono fischiare dei proiettili senza rendersi conto di ciò che stesse accadendo. Si sparava fitto, questo era certo, ma da chi e da dove e con che animo su quei soldati che combattevano per noi, su quella folla inerme e festosa, nessuno poteva riuscire a capirlo. I proiettili rimbalzavano sul lastrico.

« I fascisti! Sparano da una finestra di Via Pietrapiana! ».

I canadesi, stesi a terra, rispondevano al fuoco, ma improvvisamente furono affiancati da tre partigiani i quali, in piedi, rasentando il muro lungo il marciapiede fra gli urli furibondi dei presenti, si portarono di corsa sotto un caseggiato e si diedero a sparare, verso le finestre, sventagliate di mitra.

Il franco tiratore non fu scovato che il giorno dopo, all’ultimo piano di quella casa e fu fucilato in piazzetta.

Da un gruppo di partigiani che sostavano sul luogo, dopo la sommaria esecuzione del franco tiratore, seppi di un episodio accaduto la mattina in quella stessa strada. Da una casa ben individuata eran partiti vari colpi che avevano ferito dei passanti e i partigiani erano saliti a perquisire tutti i quartieri, piano per piano, senza risultato. I primi quattro piani erano abitati da persone insospettabili, e all’ultimo non c’era che una povera donna che per due volte era andata ad -aprire la porta sulle scale tenendo in braccio una creatura di pochi mesi. Era stupita e indignata del sospetto: ma come? era sola in casa con quel bambinuccio, del marito lontano, sotto le armi, non ne aveva notizie da un anno; avevano già visitato la casa da cima a fondo; cercassero, frugassero ancora, se credevano, ma poi, per carità, la lasciassero in pace perché non aveva che fame e disperazione.

Dunque, niente neanche all’ultimo piano, niente sul tetto che era stato ispezionato con ogni cura. E allora i partigiani ritornarono sulla strada per cercar di orientarsi e stavano considerando la possibilità che i colpi provenissero dalla casa di fronte, quando furono richiamati da grida d’allarme e da un colpo di fucile.

« E lei, è lei, ha sparato da quella finestra Eccola lì ».

Era proprio lei. Ritta sopra un tavolo nel centro della stanza, sparava colpo su colpo con un lungo fucile che riponeva subito dopo in una fessura del soffitto, proprio sotto i tegoli, per presentarsi poi supplichevole alla porta, col bambino in braccio, armata soltanto di innocente stupore.

* * *

L’11 agosto, che segnò effettivamente la liberazione del centro della città, non fu, come è noto, che il principio della battaglia per i quartieri verso il Mugnone, lungo la ferrovia nei pressi del Pino, a Porta al Prato e per la piana dell’Arno. A momenti, nel centro, giungeva così distinto e serrato l’eco dei colpi di mitragliatrice e, di quando in quando, cosi vicino quello del cannone che tutti cominciarono a temere d’esser travolti in una mischia generale fra le stesse case. Passavano di corsa, diretti alla periferia, certi fieri reparti vestiti di pochi cenci (ma avevano sguardi di selvaggia risoluzione) e si incrociavano con i feriti. Le notizie erano sempre più confuse. Gli Alleati, dopo l’apparizione di qualche pattuglia, pareva si ostinassero a rimanere inerti di là d’Arno. Solo le colline a nord della città, dalle pendici di Fiesole a Settignano, erano continuamente costellate dalle bianche fumate dei loro colpi. In cielo, scarrocciate e fragori senza posa.

Salimmo ancora sui tetti per vedere dall’alto; e mentre con i miei figlioli ci stavamo accorgendo con un nodo alla gola che la nostra casetta di Settignano non era più seminascosta dal verde ciuffo dei cipressi e appariva stranamente nuda con delle insolite aperture sulla bianca facciata, sentimmo fischiarci vicino dei sibili e le tegole, qua e là, crosciare con dei secchi schianti.

Poi, giù in casa, le ultime notizie portate affannosamente da un amico partigiano che era venuto in centro per trasmettere degli ordini. In Piazza Cavour, in Via Masaccio, al Viale dei Mille, sull’Affrico, tutte le formazioni partigiane erano impegnate in combattimenti durissimi, le perdite non si contavano, ci volevano rinforzi, munizioni, medicinali. I tedeschi, appoggiati da un carro armato, cercavano di forzare in Piazza Beccaria forse per riprendere il centro della città; e gli inglesi, di là d’Arno, seguitavano tranquillamente ad aspettare…

 

 

Gli Alleati entrano in Firenze

* * *

Ma il ricordo che anche oggi domina tra tutti la memoria, rifuggendo dai più penosi particolari come fortunatamente accade per la benignità del tempo che corre, il ricordo che non si cancella dal cuore di chi ha visto con i propri occhi, senza averlo potuto immaginare, lo spettacolo più atroce, rimane quello delle immani macerie che serravano l’Arno dall’altezza delle poche torri rimaste in piedi fino al pelo dell’acqua.

Firenze non c’era più. Gli Uffizi avevano retto ma le mura eran piene di crette paurose ;il Lungarno degli Archibusieri senza selciato, con un ammasso di fili intervallati da larghi ordigni a forma di padella, era ingombrato in ogni senso e pareva lo squallido cantiere delle rovine: e al di là, fra gli archi della loggia che fiancheggia il fiume, tutto era sparito in un fumante ammasso biancastro, le vecchie case pezzate di antichi colori, il ritmo dei contorni, l’atteggiamento più intimo e familiare del nostro paesaggio, il volto della nostra città, la nostra infanzia, la nostra vita, la stessa anima nostra.

Dal parapetto di fronte agli Uffizi, una folla raccolta guardava e piangeva senza ritegno. Allora, veramente, non c’era altro da fare.

 

 

GIORGIO QUERCI

Premessa

 4 Agosto 1944 i Partigiani della brigata Sinigaglia entrano in Firenze

« Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un Italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra costituzione. »

Benvenuti in un blog dove si parlerà di cose vecchie di 70 anni

ma che io ritengo se ne debba parlare, perchè il rischio di dimenticanza incombe su questi tristi e magnifici momenti della nostra storia.

Pubblicherò un certo numero di “Lettere di condannati a morte della Resistenza Europea”

e tante cose sulla Resistenza Italiana, ma in particolare su quella Toscana e Fiorentina che conosco bene per aver vissuto quel tempo.

Spero che gli scrtti siano apprezzati e chi li legge venga invogliato a farli leggere a gli amici

Toscano

Ringrazio tutti coloro che con lo scritto

e la parola hanno contribuito a darmi un aiuto